La tradizione non è il culto delle ceneri, ma il mantenimento del fuoco #2

Di Manon Soavi e Romaric Rifleu

Parte 2 : Lo stile Edo

Nella prima parte di questo articolo sul Niten ichi ryu [link], abbiamo ripercorso la ricerca sull’arte di Musashi da parte di Hirakami Nobuyuki, bujutsuka e ricercatore nel campo delle arti marziali. Il suo lavoro sui filoni quasi estinti del Niten Ichi-ryu lo ha portato a scoprire il filone Iori, che aveva conservato le caratteristiche tipiche dei koryu del periodo Edo. Questa scoperta, che lo sconvolge, lo ha portato a una migliore comprensione del kyokugi (lett. prodezza, performance, arte, capacità), il potenziale dell’arte di Musashi. Le specificità dello Stile Edo di Ioriden Niten Ichi-ryu hanno senso in un dato sistema marziale, in linea con la sua epoca. Riportiamo alcuni esempi di queste specificità.

 

Aikimitsu sensei Ioriden niten ichi ryu. Musashi ryu
Aikimitsu sensei Kamae di Ioriden niten ichi ryu.

Uchitachi è l’insegnante

In un koryu, contrariamente a ciò che si fa oggi nei budo moderni, uchitachi, colui che attacca (uke, diremmo nell’Aikido) ha un ruolo d’insegnamento. È primordiale che dia l’intensità giusta, che controlli la velocità e il ritmo del kata. Deve adattare il proprio attacco alle capacità di shitachi (tori in Aikido) che è invece in un processo di apprendimento. Progressivamente uchitachi modulerà l’attacco per far progredire il meno avanzato, per metterlo in difficoltà o farlo lavorare su un aspetto particolare. Questo ruolo è quindi assunto dall’insegnante o da un allievo esperto.
È per questo che ogni volta che Hirakami andava al dojo di Akimitsu sensei per praticare lo Ioriden Niten Ichi-ryu, quest’ultimo, malgrado i suoi 92 anni, metteva sempre un keikogi e praticava direttamente con lui. Questo modo di fare è l’essenza della trasmissione da maestro ad allievo nei koryu (ciò si è mantenuto anche nei filoni di Niten Ichi-ryu modernizzati dopo la guerra).

Tatsuzawa senseï. Musashi ryu. Ioriden niten ichi ryu
Tatsuzawa senseï, Ioriden niten ichi ryu

Omote – Ura

In modo altrettanto caratteristico, Hirakami scoprì che in Ioriden ci sono due versioni per ogni kata, una versione omote e una versione ura. Anche in questo caso il significato è diverso dall’Aikido in cui ciò designa grosso modo il fatto di passare davanti o dietro uke. Nello stile Edo dei koryu tradizionali, i kata omote designano una versione di base del kata, che è indispensabile padroneggiare per chi inizia. Questa versione servirà anche per le dimostrazioni pubbliche. In un contesto in cui era vitale che ogni scuola conservasse i proprio segreti, il kata omote erano molto utili. A volte venivano aggiunti anche dei colpi finali in modo da annebbiare la memoria degli spettatori. Poiché il cervello ricorda più facilmente l’inizio e la fine di una sequenza, ciò permette di nascondere in mezzo la tecnica decisiva. Allo stesso tempo, i kata omote trasmettono i principi essenziali agli allievi, non li nascondono realmente, sono, come direbbe Ellis Amdur, «nascosto alla vista di tutti».

Ura in Giappone significa quello che è all’interno, dietro, ma anche quello che non è direttamente visibile. Ciò riguarda tutti gli aspetti della cultura giapponese: l’architettura, le arti, il combattimento, le relazioni umane, ecc. Per i kata, la forma ura può essere una versione più pragmatica oppure con delle variazioni a volte minori, a volte molto importanti. Se il kata omote espone i principi, il kata ura dà la chiave per «aprire la porta». In realtà, ciò fa parte dell’antica cosmovisione giapponese poiché non c’è nero senza bianco, negativo senza positivo, yin senza yang. È una tensione dinamica tra due poli che si alimentano tra loro.
Anche in questo caso, il riai dei kata, i loro principi, si imparano meglio quando esistono le due versioni omote e ura. Nello Ioriden Niten Ichi-ryu ci sono cinque kata omote a due spade e le loro cinque versioni ura, così come per i kata a una spada ci sono cinque kata omote e cinque kata ura.

Manon Soavi Romaric Rifleu entrainement au Ioriden niten ichi ryu, Japon 2023. Musashi ryu
Manon Soavi Romaric Rifleu, Ioriden niten ichi ryu, Giaponne 2023.

Respirare

Lo Ioriden Niten Ichi-tyu dà grande importanza alla respirazione. Essa si lavora tramite i cinque esercizi di respirazione che si fanno con le due spade e tramite il rei, il saluto. Ogni kata inizia e finisce con un modo particolare di fare il saluto che fa lavorare l’apertura del corpo a livello delle spalle e la flessibilità dei polsi. Se è evidente che l’arte della spada consiste spesso nel rompere il ritmo, nel cogliere la respirazione per desincronizzarsene, per esserne capaci bisogna iniziare con l’armonizzarsi. Per entrare in sincronia con l’altro, la respirazione è la chiave.

Mantenere una respirazione calma per mantenere una certa calma interiore, anche di fronte a una lama, era certamente una questione decisiva. La respirazione è la strada maestra per ricentrarsi e restare lucidi, senza contare tutti i benefici di cui si avvalgono molte pratiche del corpo. Anche avere esplicitamente degli esercizi e delle posture che permettono di lavorare sulla respirazione e sulla coordinazione ha senso in questa tradizione marziale.

Akimitsu sensei, Ioriden niten ichi ryu. Musashi ryu.
Akimitsu sensei, 92 anni, Ioriden niten ichi ryu.

Trasmettere con immagini

Infine, i nomi dei kata dello Ioriden erano anche più classici, assomigliando di più allo stile tipico dei koryu antichi. Hirakami spiega che, nel filone Santo-ha, i nomi dei kata a due spade sono semplicemente i nomi delle guardie di partenza (Chudan 中段, Jodan 上段, Gedan 下段…) mentre nel filone Iori sono più tipici dei koryu nel senso che sono evocativi. Evocano un’azione, un’impressione, i nomi parlano attraverso immagini – come nello Zenga. I nomi dei kata del filone Ioriden sono per esempio In-bakusatsu (avvolgimento yin omicida) oppure Tenchi-gamae (guardia del cielo e della terra). Sono delle evocazioni, non è letterale. Si vede lo stesso fenomeno tra i nomi delle tecniche dei budo moderni, come l’Aikido, il Judo o il Karate paragonati ai nomi dei kata di jujutsu dei koryu. Vi troviamo nomi più poetici come «domare il cavallo selvaggio», «soffiare la cenere» o «fermare l’orco» (nomi tratti dal Bushuden Kiraku-ryu).

Anche Kenji Tokitsu si è interrogato sui nomi e sul cambiamento di nomi da una scuola all’altra: «Perché, quando si passa da una scuola all’altra, una stessa tecnica riceve nomi diversi? La differenza risiede nel modo in cui il primo Maestro percepisce la tecnica in relazione a un’immagine. Alcuni possono essere poetici e altri piuttosto descrittivi, utilizzando sempre delle parole che evocano un’immagine. L’uso degli ideogrammi può servire da mimetizzazione, quando la ricchezza dell’immagine dissimula il significato preciso sotto l’ambiguità di sensi molteplici. Cogliendo i fili che collegano la specificità dell’immagine e del senso degli ideogrammi che compongono un nome, l’adepto può captare un senso profondo per la propria pratica.

Nella pratica dei guerrieri, l’importanza delle tecniche delle arti marziali non stava soltanto nella conoscenza e l’abilità. Finché un nome non era associato a una tecnica, questa non era né costruita né appresa. Per questo l’ultimo atto della trasmissione spesso consisteva nell’apprendere il nome della tecnica più importante […]. Sembra che la parola abbia avuto un significato mitico e anche magico, per i guerrieri del XVII secolo.» (Tokitsu Kenji, Musashi e le arti marziali giapponesi, Luni Editrice, p. 24)

Le domande senza risposta

Per concludere questa «inchiesta» possiamo ricordare che la vitalità di un’arte risiede in questa tensione tra evoluzione e tradizione. Per Hirakami sensei è grazie alle ricerche su queste forme antiche che gli è apparso evidente il riai di questa tradizione marziale e alla fine la profondità del kyokugi del Musashi-ryu gli è diventato più evidente.
Alla fine i koryu ci conducono in un viaggio in cui si intersecano la vita di un popolo e la sua cultura, i sussulti della storia e gli sforzi per, nello stesso tempo, conservare una tradizione marziale e insieme farla perdurare in un mondo molto diverso da quello che l’ha vista nascere. Le evoluzioni sono inevitabili, e nello stesso tempo una comprensione approfondita del passato è necessaria. È una questione senza risposta definitiva, ovviamente, quasi un koan, con cui ogni generazione si confronta.

Così sta ad ogni adepto giocare il proprio ruolo nella catena di trasmissione, per far ravvivare il fuoco dalle braci e non solo onorare le ceneri. Sta a noi oggi continuare questa trasmissione, all’ascolto delle tradizioni pur ispirandosi a questa frase molto bella di Jean Jaurès che ci ha ispirato il titolo, estratta da un discorso del 1910: «ll vero modo di onorare [il passato] o di rispettarlo, non è di rivolgersi verso i secoli spenti per contemplare una lunga catena di fantasmi: il vero modo di rispettare il passato, è di continuare, verso l’avvenire, l’opera delle forze vive che, nel passato, lavorano.» (Discorso di Jean Jaurès – Pronunciato alla Camera dei deputati)

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Un articolo di Manon Soavi e Romaric Rifleu