di Régis SoaviNel nostro rapporto con il dojo abbiamo spesso a che fare con Reishiki (l’etichetta). Dal nostro primo contatto con le arti marziali, non appena penetriamo in un dojo, vediamo persone che si inchinano in modo molto rispettoso all’entrata, poi si salutano fra loro, o a volte in direzione del Kamiza dopo aver preso un’arma. Ogni scuola ha le proprie regole di buona condotta, come ha il proprio savoir-faire. In occidente alcune di queste regole sono a volte perfino affisse a fianco della porta, ci si aspetta solo che siano rispettare. Cosa che non avviene sempre, dato che un certo numero di persone è riluttante a rispettarle con la scusa della religiosità, della modernità o anche a volte perché ci vedono un aspetto troppo militare o settario. Tuttavia la nostra società ha i suoi protocolli, i suoi usi. Tutti si alzano quando la Corte entra in tribunale, gli attori e i musicisti si inchinano davanti al loro pubblico così come ci si alza quando viene suonato l’inno nazionale o l’inno europeo.Il rispetto che viene richiesto in un dojo è più di un’usanza di origine orientale, che sia giapponese o cinese. Non si tratta di interpretare un ruolo, di “fare come in Giappone”, di essere rigorosi e irreprensibili, o perfino rigidi nel rispetto scrupoloso delle regole di buona educazione. Reishiki coinvolge tutto il nostro essere. La maggior parte di noi ha perso l’abitudine di inchinarsi davanti a qualcuno o qualcosa: lo shake-hand, la buona stretta di mano, il bacio o altri rituali più moderni hanno rimpiazzato ciò che assomigliava troppo spesso a un rapporto di potere su degli inferiori, imposto da parte di superiori gerarchici.Prima di capire, come mi aveva insegnato il mio maestro Itsuo Tsuda Sensei, che il saluto fra partner, che sia in piedi o in ginocchio, è allo stesso tempo una maniera di unificare, di coordinare il respiro e di salutare la vita nell’altro, mi ci è voluto del tempo, e anche molto. Se lo accettiamo come una buona pratica, siamo spesso lungi dalla sua comprensione vissuta attraverso i nostri sensi. Reishiki tuttavia è lo spartito del meraviglioso brano musicale che è la pratica dell’Aikido. Lo spartito ci dà la battuta, il tempo, le note sono scritte sul pentagramma e sono così più facili da trovare, ma tutto resta da suonare. Evidentemente bisogna conoscere la chiave: sol? Do? O fa? E in che posizione? Con quale strumento si suona? Come lo suoneremo? Quasi tutto sembra possibile ma non si può comunque fare. Un esperto, un grande maestro, lui, è capace di fare il giocoliere con le note, di aggiungervi delle improvvisazioni, di accelerare il tempo in una certa parte, di rallentare in un’altra. Di insistere su una cadenza, di sopprimerne una o di accorciarla. Come un maestro di Aikido improvvisa di fronte al suo partner, unifica il suo respiro con lui e si muove in modo non convenzionale, creando in tal modo come un balletto al contempo estetico e temibile. Masamichi Noro Sensei ce ne faceva la dimostrazione a ogni seduta, negli anni ’70, quando ero ancora un giovane istruttore molto inesperto.Reishiki: semplicemente un rituale?
Reishiki: un codice morale?
Reishiki è la porta d’entrata verso un mondo dimenticato, il mondo della sensazione interiore, un mondo immateriale e tuttavia molto reale, molto concreto. È alla portata di tutti trovarlo, o ritrovarlo se è bloccato da convenzioni o idee inculcate dalla società a nostro discapito. Ovviamente i protocolli che regolano un’arte ci servono a evitare gli incidenti mediante l’ordine che esigono, ma è il loro carattere fondamentalmente naturale che mi sembra più importante. Se ciò non esiste, o non esiste più, non ne restano che delle usanze private del senso profondo. In una società in declino rispetto all’educazione mi sembra necessario permettere a tutti quelli che sono interessati alle arti marziali di ritrovare le basi, tanto indispensabili quanto logiche, del funzionamento umano.Reishiki ci obbliga a rispettare ogni vita umana e ci conduce verso il rispetto della vita per la vita. Attraverso il codice morale che verrà applicato anche a noi, se lo applichiamo agli altri, possiamo riscoprire un fondo comune fra gli esseri umani. I valori che Reishiki porta esistono anche per farci avanzare nel quotidiano, le donne ad esempio sono, o dovrebbero essere, dato che sfortunatamente non è spesso il caso, rispettate da tutti in quanto praticanti e non perché sono tanto belline, o per condiscendenza, o per rispettare la parità. Una musicista non è apprezzata per le sue misure né per per la sua capacità polmonare se suona uno strumento a fiato, ma come ogni musicista per la qualità del suo modo di suonare, per la musicalità di un pezzo che è capace di farci scoprire durante un concerto.
Reishiki: un’impregnazione
Se si è capaci di sentire i riti, la nostra vita di tutti i giorni ha un altro sapore. Reishiki non è più una costrizione, è il percorso della nostra libertà interiore e siamo guidati passo dopo passo dal cerimoniale che trae le sue origini da rituali più antichi che non chiedono altro che di essere riscoperti. Lo “sport moderno”1 ha delle regole, dei regolamenti, a priori i loro ruoli sembrano identici – sicurezza, rispetto dell’altro, dell’arbitro, socializzazione, ecc. – e si arriverebbe a confonderli con Reishiki che è molto più antico. È più semplice per la nostra visione occidentale, ci siamo abituati, non dobbiamo fare sforzi se non quello di conformarvisi, ma appena si esce dai tatami, dal ring, dal campo, tutte queste regole legate allo sport praticato spariscono, si applicano altre regole. Spesso regole molto diverse, a volte semplicemente un po’ di buone maniere, altre volte il senza-regole della strada e le sue conseguenze. Reishiki permane come una presenza in noi, tramite un fenomeno che potremmo definire imprinting, una sorta di impronta, certo non all’inizio, non i primi anni. A poco a poco forgia il nostro spirito e dunque il nostro corpo senza deformarli, anzi al contrario, permette il loro sviluppo armonioso. Le regole dello sport esistono per essere rispettate per il tempo dell’esercizio, della pratica, Reishiki, agisce in ogni momento della nostra vita.
Reishiki: un artefatto?
A mio avviso non bisogna mai imporre Reishiki, fa parte di una comprensione che deve nascere nei praticanti più recenti, mentre i più anziani possono tramite la loro conoscenza e il loro esempio far avanzare i principianti. A parte la buona educazione minima richiesta in ogni luogo, è anche, e anzi soprattutto, l’ambiente del dojo che guiderà i nuovi arrivati. Se imponiamo delle norme, delle convenzioni, tutto rischia di irrigidirsi, di presentarsi come una nuova ideologia da applicare ma che sarà separata da ciò che è vivo e, come scrive così bene Matthew B. Crawford, «la vita diventa una imitazione della teoria: noi conduciamo un’esistenza fortemente mediatizzata in cui è indubbio che questo rapporto passa sempre di più attraverso rappresentazioni prefabbricate per noi. L’esperienza umana è diventata un artefatto sofisticato, e quindi estremamente manipolabile».2 Che la nostra esperienza e il nostro insegnamento diventino un prodotto artificiale quando invece è proprio il contrario che cerchiamo, è forse quello che ci aspetta. Per di più con il rischio che questo vada esattamente nella direzione completamente opposta a quello che è, o dovrebbe essere insegnato nella nostra arte: la libertà dello spirito, l’intuizione, la forza vitale e tutto ciò che l’accompagna – flessibilità, mobilità, resistenza, capacità di ricentrarsi per non sprofondare dopo essere caduti, o di fronte alla difficoltà.
Creare le condizioni
Le palestre sono adatte agli sport, vi si trovano degli spalti, vi si possono esercitare diverse attività, la manutenzione è gestita dall’amministrazione del luogo, e c’è un guardiano incaricato di far rispettare l’ordine nei corridoi, negli spogliatoi, ecc. Riuscire a comunicare il Reishiki in uno spazio di questa natura è una sfida. Purtroppo nulla predispone a rispettare il luogo, né come luogo pubblico, dato che sono molto pochi quelli rispettati al giorno d’oggi, né come un luogo, un posto che si potrebbe far proprio. Una sala da sport è adatta allo sport, un dojo è uno spazio per praticare un Budo, un Bujutsu, un’arte, che sia marziale o no. Qui la vibrazione, l’ambiente è differente. Non vi parrebbe curioso vedere una persona che fa della pasticceria sul bordo di una piscina, o assistere ad un combattimento di boxe pesi massimi in un padiglione da tè? Sistemare uno spazio, un locale che sarà stato trovato non in funzione di guadagni futuri, ma in funzione di parametri di tutt’altra natura che mi è impossibile descrivere in poche righe, ma che sono determinanti per il futuro dojo e per renderlo perenne, se si tratta di una scuola di arti marziali. Creare un luogo di questa natura è già applicare lo spirito di Reishiki, poiché là si incontreranno le persone che lo gestiranno, i coinquilini, in un certo senso, per un tempo indefinito, sarà la culla degli allievi già presenti, come anche dei futuri praticanti. Impareranno a rispettare e a far rispettare il Reishiki perché ne saranno all’origine, e al contempo i trasformatori in funzione dei bisogni. Saranno i continuatori di una tradizione che sentono come necessaria, e anzi indispensabile per permettere l’insegnamento e la pratica della loro arte.
Reishiki è anche la riconoscenza: saper ringraziare
Come terminare un articolo su Reishiki senza salutare i Maestri che ho avuto la fortuna di incontrare, a volte di seguire, sempre di rispettare. Sono troppo numerosi e farne la lista sarebbe noioso per i lettori perché tutto questo è cominciato nella mia infanzia e avevo appena dodici anni. Ma mi piace citare quelli che mi hanno orientato in momenti cruciali, come il mio primo professore di Judo, metodo Kawaishi, che ha saputo guidarmi e la cui disciplina come pure la gentilezza mi hanno segnato a vita. Roland Maroteaux Sensei, colui che mi ha iniziato all’Aikido all’inizio degli anni ’70, grazie al quale ho incontrato Itsuo Tsuda Sensei, questo maestro dell’ombra che fu “il mio Maestro”. Come anche Henry Plée Sensei che mi ha dato un’opportunità (“messo il piede nella staffa”, come si suol dire) permettendomi di insegnare l’Aikido nel suo dojo della Montaigne Sainte Geneviève quando ero da pochissimo una cintura nera. Non ne dimentico nessuno di loro (anche quelli che non cito qui) perché è grazie alla loro semplicità ferma e all’orientamento che hanno saputo trasmettermi che ho capito e apprezzato Reishiki.Articolo di Régis Soavi pubblicato in Yashima n° 7 nel mese di marzo del 2020.Note1) concetto sviluppato da Pierre Bourdieu in «Comment peut-on être sportif?», Questions de sociologie, Éditions de Minuit, 1984.2) Matthew B. Crawford, Contact. Pourquoi nous avons perdu le monde, et comment le retrouver, Éditions La Découverte 2019, p.8.