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Miyako Fujitani, l'”effetto Matilda” dell’Aikido?

Di Manon Soavi

Immaginate per qualche secondo un mondo in cui sarebbero scritti degli articoli su “l’Aikido al maschile”! Con un unico articolo che parlerebbe di Tohei sensei, Shioda sensei, Noro sensei e Tamura sensei. Articoli che troverebbero rilevante metterli insieme in nome del fatto che hanno in comune… un cromosoma Y. È strano, persino ridicolo, non è vero? Come mettere insieme uomini con storie personali ricche, diverse, ognuno con un rapporto privilegiato con O sensei, ognuno con un percorso personale diverso nell’Aikido? Ognuno di loro ha la propria personalità, la propria storia, il proprio insegnamento specifico. Ognuno di loro merita, come minimo, un articolo dedicato solo a lui.

Eppure questo è ciò che accade alle donne. Troviamo pertinente parlare di Aikido “al femminile”… Ovviamente questo non è specifico solo dell’Aikido, è un fenomeno sociale. Sapete che gli Stati Uniti sono stati campioni del mondo di calcio? Ah, sì, il calcio “femminile”, quindi non conta. Perché? Perché c’è IL calcio e poi c’è il “calcio femminile”.
È anche il fenomeno che permette ai Puffi di avere ciascuno una caratteristica, anche minore, mentre la Puffetta, la sua caratteristica, è quella di essere una ragazza, tutto qui. Non ha alcun carattere, a parte i tratti che caratterizzano una ragazza stupida e civettuola. Certo, è solo un fumetto ma se ci pensate per qualche minuto si possono trovare centinaia di esempi dello stesso fenomeno. Gli uomini sono persone, personaggi con caratteristiche e storie. Le donne sono, nella stragrande maggioranza dei casi, solo “donne”. Come le aikidokate messe insieme nel cestino “aikido femminile” negando le loro specificità, le loro differenze, le loro storie. Fortunatamente alcuni cercano di tracciare i loro percorsi anche se le informazioni sono “come per caso” molto meno disponibili, se non del tutto inesistenti!

Tenshin dojo de Miyako Fujitani Osaka
Tenshin dojo di Miyako Fujitani a Osaka

L’effetto Matilda

«L’effetto Matilda è la negazione, la spoliazione o la minimizzazione ricorrente e sistemica del contributo delle donne alla ricerca scientifica, il cui lavoro è spesso attribuito ai loro colleghi maschi. È un fenomeno osservato da Margaret W. Rossiter, storica della scienza che chiama questa teoria “effetto Matilda” in riferimento all’attivista femminista americana del XIX secolo Matilda Joslyn Gage. Quest’ultima aveva notato che gli uomini si attribuivano i pensieri intellettuali delle donne vicine a loro, i contributi delle donne erano spesso ridotti a ringraziamenti in fondo alla pagina.
È, ad esempio, l’effetto osservato per Rosalind Franklin, i cui lavori, determinanti per la scoperta della struttura del DNA, saranno pubblicati a nome dei suoi colleghi. Idem per le scoperte di Jocelyn Bell in astronomia che valsero al suo direttore un premio Nobel nel 1974. Lui, non lei.

La storia di Miyako Fujitani assomiglia un po’ a quella di Mileva Einstein, fisica, compagna di studi e prima moglie di Albert Einstein. Mileva e Albert Einstein si incontrano sui banchi dell’università e la teoria della relatività sarà la loro ricerca comune. Solo che rimane incinta mentre non sono sposati, il che fa precipitare il loro matrimonio ma rallenta notevolmente Mileva nei suoi studi. Alla fine i tre figli che la coppia avrà, l’ultimo dei quali, disabile a vita, saranno completamente a carico di Mileva, una volta che Albert Einstein partirà per fare carriera negli Stati Uniti. Naturalmente, non si tratta qui di mettere in discussione il genio di Albert Einstein, ma di interrogarsi sulle possibilità che ha avuto Mileva, lei, di continuare la sua carriera con tre figli a carico, di cui uno disabile. Albert Einstein è potuto partire per fare carriera solo perché lei è rimasta. Infine, se ci pensiamo, il detto che dice “dietro ogni grande uomo c’è una donna” non è affatto romantico o tenero, se lo riformuliamo più giustamente “dietro ogni grande uomo c’è una donna che si è sacrificata perché non aveva altra scelta”. La carriera, le onorificenze, i premi, le posizioni, il riconoscimento dei colleghi, tutto questo si basa sullo schiacciamento più o meno “accettato” delle donne.

Quando si pensa di misurare la competenza di una donna sulla base della sua carriera, del riconoscimento dei suoi pari, si dimentica che il gioco è truccato, perché per ogni maestro di aikido che ha fatto carriera c’è dietro almeno una donna che si è occupata dei loro figli, spesso del dojo, delle iscrizioni, della contabilità, delle relazioni sociali. Senza contare la cura del marito stesso, l’attenzione a lui. Su queste basi, assicurate dalla moglie del maestro, la straordinaria abilità marziale può fiorire e brillare. Attenzione, non metto in dubbio la competenza di questi maestri, contestualizzo la presenza femminile che ha permesso loro di prosperare. Una presenza che spesso hanno considerato dovuta, uno stato di fatto. Poiché sistemica. Al contrario, molto spesso, nessuno ha aiutato le donne a esercitare le loro arti. Nessuno tiene i loro figli, prepara i pasti, fa la contabilità del dojo per loro. Per non parlare di quelli che hanno cercato di sbarrargli la strada. Quindi quando si confrontano, su una presunta base oggettiva, le loro carriere con quelle di certi uomini, ovviamente, in modo strutturale, non hanno potuto raggiungere la stessa fama. Tuttavia, non è una questione di competenze, ma di società.

Miyako Fujitani senseï
Miyako Fujitani senseï

La storia di Miyako Fujitani

Nata negli anni Cinquanta in Giappone, Fujitani sensei è oggi una delle rare donne settimo dan dell’Aikido che insegna nel proprio dojo da quarant’anni, a Osaka. Allieva di Koichi Tohei, passa il primo e secondo dan davanti a Ueshiba O sensei. Tuttavia, contrariamente alla storia di un certo numero di allievi di Ueshiba O sensei, il suo percorso di aikidoka non racconta come ha iniziato a confrontarsi con il mondo e a fare carriera, ma racconta la storia che è spesso il destino delle donne: rimanere indietro e sopportare. In questo senso è un percorso simbolico.

Miyako Fujitani si confronta molto giovane con la violenza maschile. Suo padre maltratta e picchia i suoi tre figli. Muore quando lei ha sei anni, avendo “solo” avuto il tempo di maltrattarla e slogarle la spalla. Continua a confrontarsi con questa violenza alle scuole medie dove subisce da parte dei ragazzi aggressioni quotidiane. In quel periodo pratica la danza classica e il Chado (l’arte del tè) ma decide di reagire e progetta di fare judo come suo fratello. Alla fine sceglie l’Aikido. Il suo primo insegnante a Kobe rifiuta le donne nel suo corso, ma lei insiste così tanto che finisce per accettarla. Successivamente, diventa allieva di Tohei sensei e passa il primo dan davanti a Ueshiba O sensei a Osaka nel 1967. Racconta che «O sensei Ueshiba si riferiva a se stesso come Jii (nonno) quando insegnava al gruppo di donne. Era sempre accompagnato dalla signorina Sunadomari, che lo assisteva in ogni modo. [In particolare] Ueshiba sensei dimostrava sempre questo trucco con lei, una sorta di svenimento per ingannare l’avversario.»1

Quando inizia l’Aikido, lei si sente inferiore come donna nella pratica. Senza altro modello, non ha altro orizzonte che “diventare forte” come gli uomini per essere finalmente considerata “altrettanto competente”. Cerca quindi di competere con la forza muscolare degli uomini che la circondano. Per un anno si rafforza muscolarmente. Racconta che la sua tecnica sembrava allora, in effetti, molto potente, ma che maltratta talmente il suo corpo che finisce per rompersi le ossa delle braccia e delle dita. Si danneggia anche le articolazioni dei gomiti e delle ginocchia. Dovrà anche smettere di praticare per un anno per riprendersi.

Miyako Fujitani senseï
Miyako Fujitani senseï

Questa situazione in cui le donne soffrono in modo sproporzionato di lesioni legate alla loro professione si trova ad esempio nelle donne pianiste, dove «diversi studi dimostrano che le donne pianiste sono più esposte al dolore e alle lesioni rispetto ai pianisti di sesso maschile (per le donne, il rischio è superiore di circa il 50%). Un altro studio mostra che il 78% delle donne, contro il 47% degli uomini, soffre di disturbi muscoloscheletrici.»2 È quindi anche un problema sociale in cui, poiché si dà valore solo a un certo modo di fare, di muoversi, di suonare musica, ecc., le donne sono sistematicamente svantaggiate e, con la volontà di esercitare il proprio mestiere, di realizzare le proprie passioni, danneggiano eccessivamente il proprio corpo. Pagando anche il prezzo di interruzioni di carriera o addirittura di abbandoni.

Miyako Fujitani ha ventuno anni quando incontra Steven Seagal, a Los Angeles dove accompagna Tohei sensei per un seminario di Aikido. Assiste al suo passaggio di primo dan negli Stati Uniti e poco dopo il suo ritorno in Giappone, ritrova Seagal. Ha appena vinto una somma di denaro con uno spettacolo di Karate a Los Angeles, spettacolo durante il quale si rompe il ginocchio, ma con i soldi guadagnati compra il biglietto per il Giappone e sbarca con, come unici averi, un paio di jeans bucati e una forchetta d’argento.
Miyako Fujitani è allora secondo dan e apre il proprio dojo, che chiama Tenshin dojo, su un terreno della madre e i soldi di quest’ultima. Si sposa con Steven Seagal pochi mesi dopo il loro incontro nel 1976 e, in un riflesso molto tipico del condizionamento femminile, è lei stessa a metterlo nella posizione di insegnante principale nel suo dojo, mentre lei è il suo sempai, cioè il suo superiore gerarchico. È un condizionamento molto forte delle donne che vengono educate con l’idea che devono garantire la pace della famiglia e il benessere del marito favorendo l’idea che lui si fa della propria superiorità. Soprattutto non guadagnare di più, non essere più conosciuta, non riuscire meglio di lui con il rischio di vedere la propria famiglia distrutta. Tutte le donne sanno molto bene questo e le storie di uomini che lasciano le proprie compagne, gelosi della loro riuscita, non sono rare. Mona Chollet lo esplicita perfettamente nel suo capitolo «”farsi piccola” per essere amata?», con l’aiuto di esempi uno più eloquente dell’altro e con questa conclusione critica: «La nostra cultura ha normalizzato così bene l’inferiorità delle donne che molti uomini non sono in grado di affrontare una compagna che non si sminuisca o non si autocensuri in alcun modo.»3 Evidentemente per Fujitani la cosa si aggrava con il rapido arrivo di due bambini piccoli.

La discesa agli inferi

Anche se è nel proprio dojo, Seagal inizia a sminuirla, relegandola al ruolo della “giapponese che porta il tè mentre lui gioca al piccolo shogun”4. La trappola si chiude su di lei, tanto più che giornali e televisioni fanno eco al “gaijin’s dojo” evidenziando l’idea che Steven Seagal sia “il primo occidentale ad aver aperto un dojo in Giappone”, benché in realtà abbia fagocitato il dojo di Miyako Fujitani.
Durante questo periodo, Steven Seagal intrattiene molte relazioni con altre donne, comprese delle allieve, e alla fine annuncia a Fujitani che ritorna negli Stati Uniti per fare carriera come attore. Lei resta ad aspettarlo con la promessa che potrà raggiugerlo con i figli. Un’altra promessa: dei soldi per prendersi cura dei figli, neanche questa sarà mantenuta.
Alla fine, degli avvocati la contatteranno per chiedere il divorzio e permettere a Seagal di risposarsi negli Stati Uniti.

Miyako Fujitani et sa fille
Miyako Fujitani e sua figlia

Non tutti i mali vengono per nuocere

Miyako Fujitani è ovviamente disperata per essere stata così abbandonata con i due figli. Per coronare il tutto, quasi tutti gli allievi del dojo sono in realtà più colpiti dal carisma di Seagal che interessati all’Aikido. Il terreno che aveva minato sminuendola sistematicamente davanti agli allievi agisce in modo duraturo poiché non solo se ne vanno ma, inoltre, tornano a prendersi gioco di lei e del suo dojo abbandonato. Lei racconta in un’intervista «[In quel periodo] avevo voglia di nascondermi in un buco. Eppure non avevo fatto niente di male! Alcuni allievi venivano da altri dojo con molta arroganza, come se fossero a casa propria. Dicevano ai miei rari allievi “lei è debole, andate altrove”. Ho veramente detestato questo periodo e questo dojo. Alcune persone hanno raccontato persino che Steven mi avesse lasciato perché ero cattiva (ride). Ciononostante, quando andavo a letto la sera, pensavo a quello che avevo. […] Utilizzavo l’immaginazione per vedere i miei figli crescere e per immaginare i miei nipoti e mi chiedevo se sarebbe arrivato il giorno in cui mi sarei sentita veramente felice di avere l’Aikido. È questo che mi ha aiutato ad arrivare fin qui. Amo insegnare ai giovani con gioia e oggi posso veramente dire “sono felice di avere l’Aikido.»5

Alla fine, resiste, persevera, scopre anche la scuola di spada Yagyu Shinkage-ryu a cui si appassiona e che nutre la sua comprensione dell’Aikido. Tiene duro e porta avanti il ruolo di madre e la propria passione per l’Aikido. «Oggi, molte donne lavorano, anche in professioni che prima erano riservate agli uomini. Non è raro che una donna lavori e allo stesso tempo cresca dei figli. Per me, era difficile perché dovevo provvedere ai bisogni della mia famiglia insegnando l’Aikido. All’inizio [l’Aikido] era un’arte marziale praticata maggiormente dagli uomini e avevo dovuto saltare a lungo l’allenamento a causa dei bambini. Era vergognoso per me in quanto insegnante di Aikido: un giorno che ho ripreso l’allenamento, ho fatto un errore e mi sono fatta male a entrambe le ginocchia.»6

Miyako Fujitani senseï
Miyako Fujitani senseï

Aikido: essere una donna è un vantaggio

Oggi lei insiste nel proprio insegnamento su una pratica che rispetti l’integrità del corpo come valore cardinale. Frutto degli incidenti che aveva avuto quando aveva iniziato, insiste quindi sull’importanza per Uke di seguire correttamente invece di resistere fino al punto in cui il corpo soffre. «L’ukemi non è un movimento di dimostrazione, lo scopo iniziale è proteggere il corpo dalle ferite. Fare ukemi non vuol dire che siete un perdente. Se Uke comprende che tipo di tecnica è usata, allora può sottrarvisi. Ne approfitta e prepara il contrattacco. Durante l’esecuzione di una tecnica, il ruolo di uke non è solo quello di eseguire correttamente l’ukemi senza resistere alla proiezione, ma anche osservare il timing della tecnica, sviluppando così la capacità di “leggere” la tecnica. Dopo tutto, è un esercizio sia per chi esegue il Waza sia per chi lo riceve.»7 Per questo sottolinea la necessità di avere un corpo disteso. «In giapponese, c’è la parola 脱力, Datsuryoku, che si traduce con “distendere il corpo come durante il sonno.” Quando dormiamo normalmente non possiamo utilizzare il corpo con una energia eccessiva».8

«Nel Karaté, per esempio, si blocca o si contrattacca, ma nell’Aikido, non si blocca. Non ci scontriamo allo stesso livello dell’avversario, è per questo che è così delicato. Il Ma Ai è molto importante e insisto molto su questo punto. Insegno qualcosa di completamente diverso da quello che fanno [all’Aikikai] di Tokyo che, mi dispiace dire, è sbagliato. Insegno un metodo più morbido con un Ma Ai preciso affinché le tecniche possano essere eseguite più facilmente.»9

Convinta che l’Aikido sia l’arte marziale che va bene per le donne, lavora quotidianamente per svilupparlo, e tramite degli eventi, come nel 2003 quando conduce negli Stati Uniti uno stage chiamato Grace&Power. Women&Martial Arts. L’importanza di avere dei modelli non le sfugge. Certamente «C’è stata un’epoca in cui il dojo [di Ueshiba O sensei] contava molte allieve. Ma per un certo periodo, molti allievi hanno utilizzato la forza e si sono fatti male. Al punto che molte donne si sono scoraggiate. E per un certo periodo c’è stato un vuoto di donne che praticavano.»10
«[Io stessa] ho insegnato l’Aikido per più di 10 anni in un’atmosfera di discriminazione verso le donne. [Tuttavia] perfezionando sempre di più la mia pratica, ho sviluppato il mio stile d’Aikido, un Aikido che può essere praticato da donne che non hanno alcuna capacità fisica.

Penso che gli uomini che praticano il mio stile sono molto avvantaggiati. Se volete utilizzare i muscoli dall’inizio, vi abituerete a utilizzare sempre la forza. Ma non realizzerete né svilupperete granché. Ma se si scoprono le basi senza utilizzare la forza, basandosi unicamente sui principi, allora i muscoli, la statura, ecc., saranno un vantaggio da non sottovalutare una volta raggiunto un certo livello.
Il fondatore dell’Aikido ha dichiarato11:”L’Aikido basato sulla forza fisica è facile. L’Aikido senza forza inutile, è molto più difficile.” So che se provassi a basare i miei corsi di Aikido sulla forza fisica, non sarei in grado di fare neanche una tecnica e non avrei nessun allievo. Si può forse dire che le tecniche di Aikido sviluppate dalle donne detengono la chiave dei segreti ultimi dell’Aikido – un Aikido che non si basa sulla forza.»12

NOTE:
1 – Miyako Fujitani «I am glad I have Aikido», Magazine of Traditional Budo, n. 2, mars 2019. Trad. Manon Soavi.
2 – Caroline Criado Perez, Femmes invisibles. Comment le manque de données sur les femmes dessine un monde fait pour les hommes, éd. First 2019, p.182
3 – Mona Chollet, Réinventer l’amour, édition Zones, 2021, p.99
4 – Fujitani Miyako in Sylvain Guintard, Rencontres extraordinaires, édition Budo, 2014, p. 94
5 – «I am glad I have Aikido» entretien avec Miyako Fujitani, Magazine of Traditional Budo, n. 2, mars 2019
6 – «Zu viele Menschen in dieser Welt müssen leiden.» entretien avec Miyako Fujitani, Aikido Journal n. 34D mars 03
7 – Ibidem
8 – Ibidem
9 – «I am glad I have Aikido» entretien avec Miyako Fujitani, Magazine of Traditional Budo, n. 2, mars 2019
10 – Ibidem
11 – Itsuo Tsuda allievo diretto del fondatore riporta anche che O sensei ha dichiarato che «il suo Aikido ideale era quello delle giovani ragazze. Le giovani non sono capaci, a causa della loro natura, di contrarre le spalle tanto quanto i ragazzi. Il loro Aikido, per questo motivo, è più fluido e più naturale.» Itsuo Tsuda, La via della spoliazione, Yume edition, 2016, p.161
12 – «Zu viele Menschen in dieser Welt müssen leiden.» entretien avec Miyako Fujitani, Aikido Journal n. 34D mars 03

La tradizione non è il culto delle ceneri, ma il mantenimento del fuoco #2

Di Manon Soavi e Romaric Rifleu

Parte 2 : Lo stile Edo

Nella prima parte di questo articolo sul Niten ichi ryu [link], abbiamo ripercorso la ricerca sull’arte di Musashi da parte di Hirakami Nobuyuki, bujutsuka e ricercatore nel campo delle arti marziali. Il suo lavoro sui filoni quasi estinti del Niten Ichi-ryu lo ha portato a scoprire il filone Iori, che aveva conservato le caratteristiche tipiche dei koryu del periodo Edo. Questa scoperta, che lo sconvolge, lo ha portato a una migliore comprensione del kyokugi (lett. prodezza, performance, arte, capacità), il potenziale dell’arte di Musashi. Le specificità dello Stile Edo di Ioriden Niten Ichi-ryu hanno senso in un dato sistema marziale, in linea con la sua epoca. Riportiamo alcuni esempi di queste specificità.

 

Aikimitsu sensei Ioriden niten ichi ryu. Musashi ryu
Aikimitsu sensei Kamae di Ioriden niten ichi ryu.

Uchitachi è l’insegnante

In un koryu, contrariamente a ciò che si fa oggi nei budo moderni, uchitachi, colui che attacca (uke, diremmo nell’Aikido) ha un ruolo d’insegnamento. È primordiale che dia l’intensità giusta, che controlli la velocità e il ritmo del kata. Deve adattare il proprio attacco alle capacità di shitachi (tori in Aikido) che è invece in un processo di apprendimento. Progressivamente uchitachi modulerà l’attacco per far progredire il meno avanzato, per metterlo in difficoltà o farlo lavorare su un aspetto particolare. Questo ruolo è quindi assunto dall’insegnante o da un allievo esperto.
È per questo che ogni volta che Hirakami andava al dojo di Akimitsu sensei per praticare lo Ioriden Niten Ichi-ryu, quest’ultimo, malgrado i suoi 92 anni, metteva sempre un keikogi e praticava direttamente con lui. Questo modo di fare è l’essenza della trasmissione da maestro ad allievo nei koryu (ciò si è mantenuto anche nei filoni di Niten Ichi-ryu modernizzati dopo la guerra).

Tatsuzawa senseï. Musashi ryu. Ioriden niten ichi ryu
Tatsuzawa senseï, Ioriden niten ichi ryu

Omote – Ura

In modo altrettanto caratteristico, Hirakami scoprì che in Ioriden ci sono due versioni per ogni kata, una versione omote e una versione ura. Anche in questo caso il significato è diverso dall’Aikido in cui ciò designa grosso modo il fatto di passare davanti o dietro uke. Nello stile Edo dei koryu tradizionali, i kata omote designano una versione di base del kata, che è indispensabile padroneggiare per chi inizia. Questa versione servirà anche per le dimostrazioni pubbliche. In un contesto in cui era vitale che ogni scuola conservasse i proprio segreti, il kata omote erano molto utili. A volte venivano aggiunti anche dei colpi finali in modo da annebbiare la memoria degli spettatori. Poiché il cervello ricorda più facilmente l’inizio e la fine di una sequenza, ciò permette di nascondere in mezzo la tecnica decisiva. Allo stesso tempo, i kata omote trasmettono i principi essenziali agli allievi, non li nascondono realmente, sono, come direbbe Ellis Amdur, «nascosto alla vista di tutti».

Ura in Giappone significa quello che è all’interno, dietro, ma anche quello che non è direttamente visibile. Ciò riguarda tutti gli aspetti della cultura giapponese: l’architettura, le arti, il combattimento, le relazioni umane, ecc. Per i kata, la forma ura può essere una versione più pragmatica oppure con delle variazioni a volte minori, a volte molto importanti. Se il kata omote espone i principi, il kata ura dà la chiave per «aprire la porta». In realtà, ciò fa parte dell’antica cosmovisione giapponese poiché non c’è nero senza bianco, negativo senza positivo, yin senza yang. È una tensione dinamica tra due poli che si alimentano tra loro.
Anche in questo caso, il riai dei kata, i loro principi, si imparano meglio quando esistono le due versioni omote e ura. Nello Ioriden Niten Ichi-ryu ci sono cinque kata omote a due spade e le loro cinque versioni ura, così come per i kata a una spada ci sono cinque kata omote e cinque kata ura.

Manon Soavi Romaric Rifleu entrainement au Ioriden niten ichi ryu, Japon 2023. Musashi ryu
Manon Soavi Romaric Rifleu, Ioriden niten ichi ryu, Giaponne 2023.

Respirare

Lo Ioriden Niten Ichi-tyu dà grande importanza alla respirazione. Essa si lavora tramite i cinque esercizi di respirazione che si fanno con le due spade e tramite il rei, il saluto. Ogni kata inizia e finisce con un modo particolare di fare il saluto che fa lavorare l’apertura del corpo a livello delle spalle e la flessibilità dei polsi. Se è evidente che l’arte della spada consiste spesso nel rompere il ritmo, nel cogliere la respirazione per desincronizzarsene, per esserne capaci bisogna iniziare con l’armonizzarsi. Per entrare in sincronia con l’altro, la respirazione è la chiave.

Mantenere una respirazione calma per mantenere una certa calma interiore, anche di fronte a una lama, era certamente una questione decisiva. La respirazione è la strada maestra per ricentrarsi e restare lucidi, senza contare tutti i benefici di cui si avvalgono molte pratiche del corpo. Anche avere esplicitamente degli esercizi e delle posture che permettono di lavorare sulla respirazione e sulla coordinazione ha senso in questa tradizione marziale.

Akimitsu sensei, Ioriden niten ichi ryu. Musashi ryu.
Akimitsu sensei, 92 anni, Ioriden niten ichi ryu.

Trasmettere con immagini

Infine, i nomi dei kata dello Ioriden erano anche più classici, assomigliando di più allo stile tipico dei koryu antichi. Hirakami spiega che, nel filone Santo-ha, i nomi dei kata a due spade sono semplicemente i nomi delle guardie di partenza (Chudan 中段, Jodan 上段, Gedan 下段…) mentre nel filone Iori sono più tipici dei koryu nel senso che sono evocativi. Evocano un’azione, un’impressione, i nomi parlano attraverso immagini – come nello Zenga. I nomi dei kata del filone Ioriden sono per esempio In-bakusatsu (avvolgimento yin omicida) oppure Tenchi-gamae (guardia del cielo e della terra). Sono delle evocazioni, non è letterale. Si vede lo stesso fenomeno tra i nomi delle tecniche dei budo moderni, come l’Aikido, il Judo o il Karate paragonati ai nomi dei kata di jujutsu dei koryu. Vi troviamo nomi più poetici come «domare il cavallo selvaggio», «soffiare la cenere» o «fermare l’orco» (nomi tratti dal Bushuden Kiraku-ryu).

Anche Kenji Tokitsu si è interrogato sui nomi e sul cambiamento di nomi da una scuola all’altra: «Perché, quando si passa da una scuola all’altra, una stessa tecnica riceve nomi diversi? La differenza risiede nel modo in cui il primo Maestro percepisce la tecnica in relazione a un’immagine. Alcuni possono essere poetici e altri piuttosto descrittivi, utilizzando sempre delle parole che evocano un’immagine. L’uso degli ideogrammi può servire da mimetizzazione, quando la ricchezza dell’immagine dissimula il significato preciso sotto l’ambiguità di sensi molteplici. Cogliendo i fili che collegano la specificità dell’immagine e del senso degli ideogrammi che compongono un nome, l’adepto può captare un senso profondo per la propria pratica.

Nella pratica dei guerrieri, l’importanza delle tecniche delle arti marziali non stava soltanto nella conoscenza e l’abilità. Finché un nome non era associato a una tecnica, questa non era né costruita né appresa. Per questo l’ultimo atto della trasmissione spesso consisteva nell’apprendere il nome della tecnica più importante […]. Sembra che la parola abbia avuto un significato mitico e anche magico, per i guerrieri del XVII secolo.» (Tokitsu Kenji, Musashi e le arti marziali giapponesi, Luni Editrice, p. 24)

Le domande senza risposta

Per concludere questa «inchiesta» possiamo ricordare che la vitalità di un’arte risiede in questa tensione tra evoluzione e tradizione. Per Hirakami sensei è grazie alle ricerche su queste forme antiche che gli è apparso evidente il riai di questa tradizione marziale e alla fine la profondità del kyokugi del Musashi-ryu gli è diventato più evidente.
Alla fine i koryu ci conducono in un viaggio in cui si intersecano la vita di un popolo e la sua cultura, i sussulti della storia e gli sforzi per, nello stesso tempo, conservare una tradizione marziale e insieme farla perdurare in un mondo molto diverso da quello che l’ha vista nascere. Le evoluzioni sono inevitabili, e nello stesso tempo una comprensione approfondita del passato è necessaria. È una questione senza risposta definitiva, ovviamente, quasi un koan, con cui ogni generazione si confronta.

Così sta ad ogni adepto giocare il proprio ruolo nella catena di trasmissione, per far ravvivare il fuoco dalle braci e non solo onorare le ceneri. Sta a noi oggi continuare questa trasmissione, all’ascolto delle tradizioni pur ispirandosi a questa frase molto bella di Jean Jaurès che ci ha ispirato il titolo, estratta da un discorso del 1910: «ll vero modo di onorare [il passato] o di rispettarlo, non è di rivolgersi verso i secoli spenti per contemplare una lunga catena di fantasmi: il vero modo di rispettare il passato, è di continuare, verso l’avvenire, l’opera delle forze vive che, nel passato, lavorano.» (Discorso di Jean Jaurès – Pronunciato alla Camera dei deputati)

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Un articolo di Manon Soavi e Romaric Rifleu

Specchio

di Régis Soavi

Shisei è il riflesso dell’anima e della salute del corpo, sia fisica che psicologica. È l’indiscutibile rivelatore di uno stato, permanente o temporaneo, per chi sa leggere la postura nell’espressione della sua manifestazione della vita. “La postura è la concretizzazione del movimento inconscio.” Itsuo Tsuda1

Postura e involontario

La ricerca scientifica moderna ha evidenziato che, a parte i problemi di struttura corporea o mentale, la malattia o anche l’età, la postura è nella maggior parte dei casi il risultato dell’educazione e degli sforzi che si fanno per conformarsi all’ambiente culturale e sociale; è quindi tramite una mescolanza di volontario e di involontario che si ottiene la postura che si desidera. È necessario prender coscienza che, a meno che non diventiamo rigidi, l’involontario, qualunque sia il nome che gli diamo (inconscio, subconscio o anche sistema nervoso autonomo), ha sempre la preponderanza sul volontario. Nonostante tutto, spesso ci è difficile accettarlo, averne piena consapevolezza. La prova della nostra incomprensione è il desiderio di correggere la postura con l’aiuto del volontario, nella speranza di supplire ad una mancanza, ad un’indisposizione, ad una sofferenza personale o per ogni sorta di altre ragioni, ognuna delle quali ha ai nostri occhi un valore di per sé. Il nostro sistema involontario è al servizio della vita che lavora in ognuno di noi. E tra l’altro, è lì proprio per correggere le nostre difficoltà posturali e permetterci di preservare un equilibrio il più naturale possibile affinché la vita si mantenga dentro di noi. E questo, a volte, anche a costo di dolori o deformazioni se resistiamo ai suoi impulsi regolatori e persistiamo nel rifiutarci di lasciare la presa, e quindi nell’irrigidirci combattendo contro di esso. È quindi importante stimolare questo sistema involontario attraverso esercizi che, invece di metterlo in pericolo o cercare di dominarlo, gli diano la libertà di svolgere il proprio lavoro e di riequilibrarci ogni volta che ce n’è bisogno. Il Katsugen undo, introdotto in Francia con il nome di Movimento rigeneratore da Itsuo Tsuda sensei dall’inizio degli anni settanta, corrispondeva esattamente alla risposta che molti di noi, praticanti di arti marziali, cercavano già allora per migliorare la propria postura. Questo ovviamente non era l’unico metodo esistente e alcuni hanno trovato in diverse discipline o terapie dei mezzi che hanno permesso loro di andare avanti senza subire danni. Ma ovviamente non era alla portata di tutti, sia dal punto di vista finanziario che dell’impegno che richiedeva in continuità, resistenza o tempo. Questo metodo di attivazione dell’involontario, il Katsugen Undo scoperto da Haruchika Noguchi sensei, è praticato da più di mezzo secolo da migliaia di giapponesi. È, per la sua semplicità, la sua filosofia e il suo bassissimo costo di iniziazione e di tariffa per la pratica, un’attività che non solo è alla portata di tutti e tutte, ma soprattutto è di grande aiuto per ognuno grazie alla sua capacità di risolvere molti problemi posturali attraverso l’attivazione del sistema involontario. È una possibilità per chiunque abbia il desiderio di trovare un percorso verso la salute in modo autonomo e indipendente. Un gran numero di ricercatori, di medici, di shiatsuka che avevano focalizzato le loro ricerche sui benefici di una postura che fosse flessibile, forte, sana e che portasse l’individuo verso l’autonomia e l’indipendenza nella cura della propria salute, si sono recati a far visita a Noguchi sensei per entrare in contatto e scambiare i loro punti di vista e anche le loro tecniche, sull’esempio di Moshe Feldenkrais il cui metodo è ben noto in Francia o anche di Kishi sensei che ha sviluppato la propria tecnica sotto il nome di Sei-ki.


Itsuo Tsuda introdusse il Katsugen undo in Francia all’inizio degli anni ’70.

Il soffio

Non molto tempo fa si usava uno specchio che si metteva davanti alla bocca di un morente per sapere se c’era ancora un po’ di vita o se la morte era già avvenuta. Questo metodo, seppure primitivo, dava un’indicazione, certamente relativa, ma indicava chiaramente l’importanza data al soffio, alla respirazione, e quindi a questa manifestazione della vita della persona davanti alla quale veniva messo. Oggi lo specchio non basta più, testiamo l’attività cerebrale nella speranza di non sbagliare sulla capacità dell’individuo di tornare a una vita normale, in ogni caso abbiamo applicato il protocollo imposto, abbiamo messo in funzione le macchine, quindi siamo legalmente tutelati. Il soffio, però, è qualcosa di molto diverso dalla respirazione polmonare perché è portatore di un’energia molto più vasta, anche se poche persone ne sono consapevoli o la riconoscono.

Il soffio è l’alimento della postura, semplicemente per la sua composizione interna, per gli elementi visibili e invisibili che porta. Chi può credere in una postura forte, nella vera potenza di una persona quando vede che la sua respirazione è bloccata. Non sono gli esercizi che rendono più ampio il soffio, permettono magari di liberare semplicemente la psiche, di calmare lo spirito, affinché il Ki circoli di nuovo senza ostacoli in questo corpo finalmente libero dalle tensioni.

La postura: un benessere personale

La ricerca di una postura a tutti i costi comporta dei rischi per l’organismo, soprattutto quando le tecniche proposte prevedono esercizi mirati all’irrigidimento per conformarsi a un’idea di corpo pubblicizzata oggi dai social network. Immagini e rappresentazioni occupano sempre più spazio nella vita quotidiana, a scapito di una realtà semplice, considerata poco attraente. Le posture che emergono degli Antichi Maestri attraggono sempre meno perché troppo spesso non vengono comprese e sembrano essere nascoste alla maggior parte delle persone. È dopo lunghi anni di pratica che gli occhi interiori si aprono per rivelarci quello che avremmo potuto vedere se non fossimo stati accecati dallo spettacolo del mondo. Quando Tsuda sensei scrive per farci comprendere meglio O sensei Ueshiba, lo fa sempre in un modo particolare, e mi sembra importante ritrovare le testimonianze dei maestri che, come lui, hanno conosciuto il fondatore dell’Aikido: «Il mio contatto con lui che è durato più di dieci anni mi ha dato un’immagine di lui completamente diversa da quella comunemente ammessa per un atleta. […] Non l’ho mai visto fare il minimo esercizio che fosse per fortificare i propri muscoli per tutto il tempo che l’ho conosciuto. Invece, l’ho visto fare spesso il norito, formula rituale, che lo metteva in comunicazione con gli dei. Era una pratica religiosa senza nessun rapporto con gli sport o l’atletica. Un giorno, mi ha detto in occasione di una mia visita a Iwama, nel suo ritiro di campagna: ‘Quando avevo dai cinquanta ai sessant’anni, avevo una forza straordinaria. Ora, non ho più molta forza e faccio fatica anche a portare un secchio d’acqua. Invece, comprendo l’Aikido molto meglio di allora.’ Chi accetterebbe, in Occidente, l’idea di un atleta che non ha più forza fisica, che passa la propria giornata in pratiche religiose e che, tuttavia, è capace di compiere delle prestazioni straordinarie? In ogni caso, senza nessuna incoerenza, l’accettavo come tale. Ero affascinato dalla sua postura, dal suo incedere. In lui, tutto era naturale, semplice, senza il minimo gesto inutile, senz’alcuna ostentazione, né orgoglio. Sentivo attorno a lui, benché invisibile, tutto un paesaggio di serenità, di realizzazione. Io, pagliaccio grossolano, non potevo resistere al piacere di vederlo ogni mattina, alzandomi alle quattro, per dieci anni fino alla sua morte. Spazzava qualsiasi mia preoccupazione meschina della vita sociale.»2

postura

Régis Soavi, mentre recita il norito, all’inizio della seduta.

Il centro

Un buon equilibrio, un buono Shisei richiede un buon centro ben posizionato, ma come trovarlo, averne cura, conservarlo? Tsuda sensei racconta che durante la meditazione che O sensei chiamava “Ka-Mi” (meditazione che si pratica in piedi all’inizio della seduta), diceva ai suoi allievi: Ame-tsuchi no hajime “mettetevi all’inizio dell’universo”. Oggi è diventato molto difficile proporre un’immagine del genere, che rischia di non essere compresa o compresa solo letteralmente, il che equivale ad una comprensione puramente mentale quando si tratta di tutt’altro. Solo l’esperienza può guidarci per rendere concreto questo centro. Dobbiamo andare nel più profondo della nostra sensibilità, essere senza pensieri, essere presenti realmente “qui e ora”. La scienza ha spezzato questo semplice rapporto con il nostro ambiente, con ciò che possiamo sentire, non riusciamo nemmeno più a sapere chi siamo e dove siamo. Mi sembra che ci sia stato un tempo in cui l’essere umano non si poneva più domande sulla sua posizione nell’universo di quante non gli fossero necessarie per vivere la vita di tutti i giorni. Poco gli importava dello spazio, dei pianeti, delle costellazioni, se non per ciò che aveva un rapporto diretto con la sua vita quotidiana, l’agricoltura, il tempo che fa, il movimento degli animali e i loro cicli riproduttivi. La conoscenza dell’astrologia era rivolta all’uomo e a ciò che lo circonda. Il luogo in cui si trovava diventava il centro della sua vita e di conseguenza del suo universo. È grazie a questo che si sentiva parte di un universo, “il suo mondo, il suo cosmo”. La scienza ha ampliato la nostra concezione e la nostra percezione dell’universo, benissimo, ma il risultato è una destabilizzazione della nostra realtà. L’essere vivente si sentiva al centro del pianeta, “la sua terra”, ovunque fosse, ovunque vivesse. Poi venne l’inizio della sua disorganizzazione mentale. Sebbene essa sia stata necessaria per uscire dall’oppressione religiosa dell’epoca medievale che subiva, creò uno shock, poi degli sconvolgimenti che avrebbero perturbato sempre di più. Prima gli venne insegnato che la terra era rotonda come una palla, poi che girava attorno a un asse, poi che girava intorno al sole e infine che il sole era al centro del sistema solare. L’essere umano si è quindi ritrovato decentrato, non era più il centro di un universo ma respinto verso l’esterno. Come se non bastasse, apprese che il sistema solare faceva parte di una gigantesca galassia, la Via Lattea, scia bianca che aveva potuto vedere nel suo cielo, che era esso stesso in competizione con altri sistemi solari, buchi neri ecc. Ma ancora una volta constatò che non era il centro di questa galassia, che si trovava piuttosto su uno dei bordi esterni, una sorta di corno di stelle in una lontana periferia. Ancora più recentemente si scoprì che questa galassia è quasi nulla rispetto ai miliardi di miliardi di miliardi di galassie conosciute, o semplicemente indovinate, o concettualizzate grazie all’arte della matematica. La cosa umana si è ritrovata molto piccola, insignificante, anche rispetto a ciò che la circonda. La questione rimane: come trovare, ritrovare il proprio centro in queste condizioni?

postura

Morihei Ueshiba: Una postura semplice, senza il minimo gesto inutile.

Ameno-minaka-nushi

All’inizio della seduta di Aikido, subito dopo il funakogi undo, “movimento del remo” come lo chiamavano i giovani allievi di O sensei, c’è una specie di meditazione in movimento, ma molto lenta all’inizio, tama-no-hireburi “la vibrazione dell’anima”. Essa si pratica a mani unite, davanti all’Hara, la sinistra sopra la destra. Si fanno vibrare le mani, senza eccessi, ma in modo regolare. Una delle particolarità di questa meditazione è che si deve farla con una sola inspirazione che deve essere molto, molto lenta. Questo esercizio deve essere ripetuto tre volte, accelerando leggermente ogni volta il ritmo della vibrazione. Subito prima di questa pratica O Sensei faceva a voce alta delle evocazioni in forma d’invocazioni dei nomi di Kami che Tsuda sensei ci ha trasmesso negli ultimi anni della sua vita. Per me, è nello stesso tempo una fessura, un leggero spazio, una leggera apertura, ed anche una direzione, una porta e una chiave, che mi permettono di ricentrarmi. Mi permette ogni mattina di intrufolarmi, quando si pratica, in quello che può rappresentare nonostante tutto, ne sono consapevole, un “rischio”. Quello d’immergersi in un universo mentale parallelo, una specie di schizofrenia o un vortice mistico da cui si esce solo con difficoltà. Tuttavia basta mantenere il sangue freddo, la lucidità fisica e psichica per restare presenti a se stessi.

O Sensei usava dei rituali shinto come una specie di trasposizione delle proprie sensazioni. Come uno scrittore, un musicista o un pittore traspongono le proprie sensazioni quando compongono un’opera, o ci fanno scoprire un mondo che gli appartiene. Nello Shinto, Ameno-minaka-nushi è considerato come il Kami Centro dell’Universo ed è la prima evocazione, poi è la volta di Kuni-toko-tachi, Eterna Terra, la materializzazione del mondo, in quanto esseri umani, in quanto praticanti, prendiamo corpo, realizziamo la materia, ciò che siamo, si potrebbe dire, quasi carne e sangue. Infine Amaterasu-o-mi-kami si presenta alla nostra coscienza, e non c’è altra alternativa che accettarla. Principio femminile, Amaterasu è “La” Kami Sole, al contempo vita, stimolazione della vita e creazione. Tra ogni momento della vibrazione, la vibrazione continua, niente si ferma, il ritmo dei movimenti del remo, funakogi undo, accelera, passando da lento a mediamente rapido, poi a molto rapido. Itsuo Tsuda sensei ci spiegava che questo ritmo gli ricordava la recitazione del Nö che aveva studiato per quasi venticinque anni, e in cui ci sono tre ritmi diversi che si susseguono: Jo, Ha e Kyu. Noi europei possiamo ad esempio permetterci di evocare i ritmi musicali largo, andante, e poi presto, prestissimo. Tsuda sensei ci dà qualche indicazione riguardo la propria comprensione delle invocazioni di O Sensei.

1) Wake-mitama (emanazione): tutti gli esseri sono emanazioni di un Tutto, di Ame-no-minaka-nushi, del Dio centro. Siamo tutti Dio stesso nella nostra essenza. Fondamentalmente, ci identifichiamo con il Dio centro. Nelle religioni rivelate come il cristianesimo o l’islamismo, l’essenza divina appartiene esclusivamente ad un solo essere. Tutti gli altri sono pecore o montoni che hanno bisogno di un pastore o di una guida spirituale.

2) Kotodama (vibrazioni): Tutto l’Universo è concepito come pieno di sensazioni di vibrazioni. Queste vibrazioni preesistono prima di essere percettibili.”3

Il riflesso dell’anima

Il nostro stato mentale non può che riflettersi nella nostra postura, qualunque sia la teoria che, forse, abbiamo fatto nostra. La postura di ognuno è influenzata dal momento che si sta vivendo, da ciò che ci circonda, vicino o lontano. In effetti da tutte le circostanze interne o esterne. La nostra capacità di mantenere una postura corretta, in grado di reagire, è nonostante tutto una cosa che si può lavorare e può dare buoni risultati se non si va in senso contrario a quello che fa bene al corpo e a quello che siamo nel profondo di noi stessi.

“Umile fiore che spunti nella crepa di un muro

la tua felicità di essere te stesso ti basta

per essere al centro dell’universo”.4

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale nel mese di april del 2024.

Note:

1. Itsuo Tsuda, Cœur de ciel pur, Ed. Le Courrier du Livre, 2015, p. 23.

2. Tsuda Itsuo, Le Dialogue du Silence, Ed. Le Courrier du Livre, 1979, p. 76.

3. Itsuo Tsuda, La voie des dieux, Ed. Le Courrier du Livre, 1979, p. 109.

4. Bing xin: autrice, poetessa (1900-1999), citata da F. Verdier nel suo libro Passeggera del silenzio, Ed. Tea, pag. 100.

La tradizione non è il culto delle ceneri, ma il mantenimento del fuoco #1

Di Manon Soavi e Romaric Rifleu

Parte 1: L’inchiesta

Tutte le tradizioni marziali, nel corso della loro storia, si trovano in questa tensione tra evolversi per adattarsi al mondo e preservare le loro competenze passate. È anche grazie all’alternanza tra questi due poli che una tradizione può continuare, i seguaci stessi si dividono tra coloro che modernizzano e coloro che cercano nelle origini. Dobbiamo liberarci di ogni idea di gerarchia tra loro per apprezzare il lavoro necessario che ogni seguace apporta a questa dinamica.

Possiamo vedere un esempio nella musica occidentale con le ricerche negli anni ’90 di alcuni musicisti sulla costruzione strumentale dell’epoca barocca. Le loro ricerche portarono a una riscoperta qualitativa di un repertorio trascurato perché difficile da interpretare correttamente con gli strumenti del XX secolo. Altri musicisti, invece, come Beethoven o Liszt, spingendo i limiti degli strumenti delle loro epoche hanno portato i costruttori di pianoforti a modificare gli strumenti, dando vita al pianoforte di oggi.

Musashi Miyamoto è stato tra coloro che hanno modernizzato una tradizione marziale, con una «riorganizzazione del sapere tecnico esistente» (Tokitsu Kenji, Vita di Musashi, Luni Editrice, p. 52) a partire dalla scuola familiare di jitte (1) e dalla propria esperienza di combattimento per creare la sua scuola delle due spade. Questa evoluzione è, per noi, il passato. Passato che da una parte dobbiamo far vivere e che dall’altra si alimenta delle riscoperte qualitative di alcuni ricercatori. Queste ricerche hanno l’obbiettivo di permettere una migliore comprensione del riai di una certa tradizione marziale. Il riai (coerenza dei principi) si perde un po’ di vista, a volte, con le evoluzioni e gli apporti di ogni generazione. È proprio per questo che ci sono dei momenti in cui alcuni seguaci si rivolgono verso il passato per ritrovare le radici dei principi di una scuola. È di questi lavori che vogliamo parlarvi in questo articolo a proposito della scuola delle due spade di Musashi.

Evidentemente l’eredità di Miyamoto Musashi è oggetto di controversie storiche come d’altra parte l’eredità dell’Aikido, ogni branca sostiene di essere più autentica, più importante, più realista. Nello stesso modo in cui ogni allievo di Ueshiba O sensei ha ricevuto l’insegnamento in un momento diverso dell’evoluzione del maestro e l’ha trasmesso a modo suo, gli allievi di Musashi hanno ricevuto e trasmesso cose simili che però, con il tempo, si differenziano tra loro. Una volta di più, invece di cercare una gerarchia tra queste scuole, queste linee, invece di cercare una verità unica, possiamo scegliere di nutrirci della completezza che apportano queste differenze per rendere viva l’arte di Musashi.

Manon Soavi et Romaric Rifleu. Niten ichi ryu. Musashi ryu.
Manon Soavi e Romaric Rifleu.
Niten ichi ryu, allenamento in Giappone, 2023

Kunihiko Tatsuzawa sensei

Quando più di quindici anni fa abbiamo avuto la possibilità d’iniziare lo studio del Musashi-ryu con Tatsuzawa sensei, non sapevamo quasi nulla dell’universo delle antiche scuole giapponesi. Praticavamo l’Aikido già da una decina d’anni ma non sapevamo in che cosa stavamo imbarcandoci, perché queste scuole non sono soltanto un repertorio di tecniche antiche e di armi arcaiche, esse fanno riferimento a un universo, una cultura, a una “cosmovisione”, si potrebbe dire.

Tatsuzawa sensei è professore emerito di diritto spaziale internazionale e vice-rettore dell’Università Ritsumeikan di Kyoto. Discendente di una famiglia di samurai studia molto presto la scuola familiare, il Jigo-ryu, poi diviene il decimo maestro di Ioriden Niten Ichi-ryu e il diciannovesimo maestro della scuola Bushuden kiraku-ryu. Quest’ultima è un koryu antico di quasi 500 anni che comprende jujutsu, iaï, nagamaki, bo, tessen, kusarigama, kusarifundo, yari, chigiriki. Una tradizione marziale ricca di 180 kata circa che rappresentano una vera immersione nel Giappone feudale.

Tatsuzawa sensei è quindi anche maestro della decima generazione di Ioriden Niten Ichi ryu, insegna diverse linee di ciò che è riunito sotto il nome di Musashi-ryu: il Sakonden Niten Ichi-ryu, lo Ioriden Niten Ichi-ryu e il Santo-ha Niten Ichi-ryu. Queste tre linee corrispondono a tre epoche della vita di Musashi, il Sakonden, la sua giovinezza, lo Ioriden, l’età matura, e il Santo-ha, la fine della sua vita. Questo insieme forma, nel Musashi-ryu, un percorso che riprende il sistema tradizionale per livello Shoden – Chuden – Okuden. Ogni livello permette di approfondire la comprensione del Musashi-ryu scoprendo una linea e le sue specificità (senza mischiarle).

Tatsuzawa sensei ci ha spiegato che il suo maestro, Nobuyuki Hirakami sensei, aveva condotto delle ricerche approfondite fin dagli anni ’70 per ritrovare le tracce dimenticate e lasciate da diversi allievi di Musashi, il che gli permise alla fine di capire meglio la forza del kyokugi (lett. prodezza, performance, arte, capacità) di Musashi.

Tatsusawa sensei Iorien niten ichi ryu. Musashi ryu
Tatsusawa sensei Iorien niten ichi ryu.

Musashi Miyamoto

Miyamoto Musashi (1584-1642) è una figura quasi leggendaria della cultura popolare giapponese. Visse nel corso di una svolta della storia del suo paese all’inizio dell’epoca Edo. Il Giappone usciva dalle guerre feudali e iniziava a stabilizzarsi intorno a un potere forte ma anche a una struttura della società molto rigida. Kenji Tokitsu dice, nel libro di ricerca che gli ha dedicato, che, «per l’estensione della sua padronanza delle arti, e per la capacità di esplorare i limiti del sapere del proprio tempo, Miyamoto Musashi mi ricorda Leonardo da Vinci.» (Tokitsu Kenji, Vita di Musashi, Luni Editrice, p. 7) In effetti Musashi era anche pittore, scultore, calligrafo, e ha lasciato un’opera scritta che ha un posto importante nella storia della spada giapponese. È autore di diversi trattati di strategia, il più famoso dei quali è il Gorin no sho (Il libro dei cinque elementi) che è un compendio dell’arte della spada e un trattato di strategia. Vivendo all’inizio dell’epoca Edo, prima della politica di chiusura e di stabilizzazione del Giappone da parte della famiglia Tokugawa, Musashi sembra essere un personaggio chiave, portatore di tradizioni marziali molto antiche e nello stesso tempo consapevole della propria posterità e di un avvenire molto diverso, a cui bisognerà dare indicazioni. «La strategia e la riflessione sul combattimento che fanno da sfondo alla vita di Musashi gli conferiscono svariate dimensioni. È questa tensione a scrivere sulla propria arte che costituisce la particolarità dell’opera di Musashi.» (Tokitsu Kenji, Vita di Musashi, Luni Editrice, p. 9)

Nobuyuki Hirakami (2) fa delle ricerche fin dagli anni ’70 sulle arti marziali e sulla storia delle scienze e delle tecnologie dell’epoca Edo (3), si è appassionato alle diverse scuole dei successori di Myamoto Musashi. Racconta così i suoi inizi, quando faceva già Kendo: «La prima persona che mi ha insegnato il Santo-ha Niten Ichi-ryu era Nobuo Komatsu Sensei a Kobe, che viveva vicino alla casa dei miei genitori. Ci andavo in bicicletta e ci allenavamo a casa sua e nel parco vicino.»
Hirakami sensei praticava già due altri koryu (scuole antiche), la Jigen-ryu e la Shibukawa-ryu, era quindi molto incuriosito dal fatto che ci fossero così pochi kata nella trasmissione che aveva ricevuto nel Santo-ha Niten Ichi-ryu. Anche se è vero che Musashi criticava le scuole che accumulano molte tecniche diverse, cinque kata gli sembravano comunque veramente pochi. Sentiva che gli mancavano degli elementi per capire questa tradizione marziale in modo più preciso, e questo l’ha spinto a cercare di più.

La scuola della fine della vita di Musashi: Santo-ha Niten Ichi-ryu

La linea Santo-ha Niten Ichi-ryu è trasmessa dagli studenti degli ultimi anni di Musashi ed è oggi la più diffusa. Hirakami ebbe l’opportunità di incontrare uno Shihan di questa scuola Kiyoshi Inamura che aveva studiato prima della guerra con Aoki Kikuo Hisakatsu, aveva quindi beneficiato della trasmissione di forme di Santo-ha Niten Ichi-ryu anteriori alle modernizzazioni effettuate dopo la guerra, forme risalenti alla fine dell’era Meiji. Anche in questo caso c’erano solo cinque kata di due spade, ma Hirakami apprese, con lui, che la tradizione dei dodici kata con una spada sarebbe stata aggiunta dopo Musashi e che i kata con solo un kodachi (spada corta) sarebbero stati aggiunti da Aoki Sensei dopo la seconda guerra mondiale.
Questo incontro permise a Hirakami di capire meglio le forme antiche della tradizione di Musashi. Le forme dell’epoca Meiji erano diverse da quelle elaborate dopo la guerra. Confrontando le due forme tecniche poté constatare le aggiunte e le modifiche effettuate nel dopoguerra nelle tecniche della scuola Santo-ha Niten Ichi-ryu. Scoprire che c’erano altre forme, più antiche, era un primo passo nelle sue ricerche che l’incoraggiò a proseguire.

La scuola della maturità di Musashi: Ioriden Niten Ichi-ryu

Nel corso delle sue ricerche sull’arte della spada di Musashi, una linea in particolare ha attirato la sua attenzione. È in un numero della rivista Kendo Nihon, speciale Musashi, che Hirakami scopre l’esistenza di un successore ancora in vita della linea Iori Miyamoto, a Tokyo. Una linea trasmessa da Aolki Jozaemo, (4) che studiò con un Musashi maturo. A partire da qui, Hirakami passa da sorpresa in sorpresa:
«Ho verificato i registri e, con mia grande sorpresa, c’era un erede a Setagaya (quartiere di Tokyo), come indicavano i registri antichi. Quello che era ancor più sorprendente, era che Shikou Akimitsu sensei, aveva 92 anni e praticava ancora.
Incontrandolo ho constatato che aveva la mente lucida ed era capace di eseguire dei kata con facilità. Tuttavia non aveva praticamente allievi. Lui e un solo altro allievo erano capaci di eseguire i kata di Ioriden Niten Ichi-ryu. Questo allievo era il famoso kendoka Kosan Yanagiya (maestro di Kendo tradizionale e sportivo, dichiarato Tesoro nazionale vivente del Giappone come maestro di Rakugo(5)).

Così, con mia grande sorpresa, Akimitsu sensei ha fatto chiamare Kosan Yanagiya e mi ha dato una dimostrazione di tutti i kata di Ioriden Niten Ichi-ryu.
Quando ho visto questi kata, ho avuto una nuova sorpresa. In primo luogo perché i kata venivano eseguiti non con una spada di legno ma con un fukuroshinai e l’avambraccio aveva una protezione in pelle.

Secondariamente i kata erano completamente diversi dal Santo-ha Niten Ichi-ryu, in termini di stile, tecnica e spirito. Era una tecnica molto particolare e molto diretta.
Questi kata tramandati di generazione in generazione avevano uno stile e un’atmosfera unici che non si trovavano nel Santo-ha Niten Ichi-ryu. Ero affascinato e volevo imparare a ogni costo questa forma unica. Akimitsu sensei mi ha detto che sarebbe stato felice di accettare la mia richiesta di essere iniziato e che potevo andare in ogni momento.» (6)

Akimitsu Shikou senseï, 92 ans et Kosan Yanagiya. Ioriden niten ichi ryu Musashi ryu
Akimitsu Shikou sensei, 92 anni e Kosan Yanagiya

Possiamo notare per inciso che il fatto di lavorare con i fukuroshinai non risale all’epoca di Musashi ma è un apporto successivo. Anche in questo caso si ritrova la tensione tra conservazione e innovazione. Il fatto di praticare con i fukuroshinai, pur essendo un apporto moderno, permette di essere più vicini alle distanze reali di combattimento, cosa che il bokken non permette veramente, permette anche di colpire realmente senza temere di danneggiare o uccidere il proprio partner. In questo c’è una scelta pedagogica fatta dai sensei di tale filone.

La scuola della giovinezza di Musashi: Sakonden Niten Ichi-ryu

Continuando la sua ricerca sulle linee di trasmissione, Hirakami ha avuto la fortuna di trovare una copia di un documento storico sull’arte della spada di Musashi, risalente alla sua giovinezza. Si trattava di un libro di nome Niten-ryu Kenjutsu Tetsugisho: al suo interno era chiaramente scritto «Niten Ichi-ryu» e conteneva anche una copia del Gorin no sho. Quello che era originale era che il libro conteneva una descrizione di nove kata a due spade con commenti molto dettagliati. Hirakami ha allora capito che si trattava di un documento con forme tecniche specifiche, trasmesse dal filone di Sakon Fujimoto della regione d’Owari.
Il contenuto era abbastanza facile da capire anche se molto diverso da quello del Niten Ichi-ryu trasmesso in epoca moderna – con possibili sovrapposizioni con i kata attuali, trasmessi in altre linee. Il recupero di questi kata ha richiesto diversi anni a Hirakami e, dopo diversi tentativi falliti, sono stati recuperati nove kata: cinque kata omote e quattro kata ura.

Lo stile “Edo”

Ciò che Hirakami sensei osserva in seguito alle sue ricerche è che questi filoni Iori e Sakon hanno caratteristiche che egli riconosce come tipiche dei koryu dell’epoca Edo, delle caratteristiche che si sono più o meno perdute nei budo moderni, come il Judo, il Karate-do o l’Aikido. Queste caratteristiche non sono state mantenute nella creazione dei budo moderni perché non corrispondono alla «cosmovisione» occidentale importata dopo la restaurazione Meiji e ancor più rinforzata nel dopo guerra. I budo sono stati così costruiti principalmente sul modello dello sport occidentale. Sono stati razionalizzati, a livello di nomi, di kata, di sistemi di dan. Nella stessa maniera in cui l’architettura occidentale moderna si imponeva per costruire ospedali, scuole, aeroporti, ecc, questo modo di «gestire» in maniera sistematica si imponeva nelle arti marziali tradizionali.
È per sopravvivere in un nuovo mondo, sulle rovine del Giappone antico che la trasmissione delle scuole di Musashi si è modernizzata distanziandosi da alcune tradizioni, benché, non per questo, nessuna delle linee sia diventata uno sport. Non di meno, esse si sono così allontanate dalla «cosmovisione» dell’epoca su cui si basava la loro trasmissione e permetteva di comprendere meglio l’insieme dei principi che irrigavano una tradizione marziale particolare.
È per questo che era così importante per Hirakami accedere allo stile Meiji della linea Santo-ha, primo passo per capire il kyokugi, il potenziale di quest’arte. In seguito, risalire ancora più indietro gli permise di scoprire che la linea aveva conservato delle specificità molto Edo style, delle specificità che hanno senso in un sistema marziale legato alla propria epoca. Tra queste specificità, a titolo d’esempio, ne esamineremo alcune dello Ioriden Niten Ichi-ryu.

La seconda parte dell’articolo sarà pubblicata a breve

Note:
1. La jitte (十手): piccola arma corta non tagliente, con una specie di artiglio che permette di bloccare la lama di una spada.
2. Nobuyuki Hirakami è bujutsuka, maestro di diversi koryu. Le sue ricerche sulle arti marziali sono state pubblicate su riviste specializzate e su libri, in particolare; Gokui Soden [Trasmissioni segrete], vol. 1 e 2, 1993 e 1994.
3. Degli articoli su queste ricerche, in giapponese, possono essere consultate sul suo sito: http://hirakami.919homepage.com
4. Tokitsu Kenji cita anche Aoki Jôzaemon nel suo libro Musashi e le arti marziali giapponesi, Luni Editrice, p. 7)
5. Il rakugo (落語, letteralmente «storia che ha una caduta») è una forma di spettacolo letterario umoristico giapponese dell’inizio dell’epoca Edo (1603-1868). Il rakugo traeva le sue origini dalle storielle comiche raccontate dai monaci buddisti. All’inizio, il rakugo, si recitava in strada o in privato. Alla fine del XVIII secolo, vengono costruite delle sale destinate esclusivamente a questo spettacolo. Il narratore, in ginocchio in seiza, utilizza come accessorio un ventaglio di carta e a volte un asciugamano in cotone. Gli servono a rappresentare un pennello, una brocca da saké, una spada, una lettera, ecc. Non ci sono né sfondo né musica.
6. Hirakami Nobuyuki http://hirakami.919homepage.com

Bisogna perdere la testa per abitare i nostri corpi

Di Manon Soavi

Nella nostra vita di tutti i giorni facciamo spesso fatica a prenderci del tempo. Prendersi il tempo per andare al dojo, praticare, respirare. Prendersi il tempo per lasciare che si sviluppino altri tipi di rapporti con il mondo, un potere interiore diverso da quello che dà il denaro o il dominio. A volte abbiamo letto articoli e libri, abbiamo ascoltato discorsi molto interessanti su pratiche del corpo come mezzi di emancipazione. Sui dojo come strumenti per scoprire rapporti di aiuto reciproco, un modo di fare “comune”, altri modi di agire, possibilità di sentire il “non fare” come regime di azione ecc. Ma… Ma ci manca il tempo. Una seduta alla settimana, due a volte. Anche se il dojo è aperto tutti i giorni, il mondo ci afferra non appena mettiamo piede fuori dal dojo. I problemi e le piccole seccature prendono il sopravvento. Il lavoro, i figli, i debiti, l’auto, il disastro ecologico, le guerre, le tasse… ci sentiamo inghiottiti.

A volte siamo anche in piccoli gruppi, pochi, dojo ancora fragili ed è difficile sentire davvero altri modi di fare. Il modo di agire e di pensare della nostra società si invita continuamente al dojo, spesso per mancanza di esperienza di chi costituisce il gruppo. Oppure è la rigidità teorica che regna, disciplinando anche la minima iniziativa e perdendo così l’idea di base di una riscoperta della libertà. Lo slancio si spegne. A che serve, non abbiamo tempo. Il tempo ci manca. Certo, ci manca perché non ce lo prendiamo. “Non fermiamo” il tempo. È proprio per “fermare il tempo” che è nato uno stage come quello estivo della nostra scuola. Fermare la corsa, almeno per qualche istante e un po’ “perdere la testa per abitare i nostri corpi” come scriveva Françoise d’Eaubonne(1).

Il Mas d’Azil, l’incontro

Il primo stage d’estate della nostra scuola è stato nel luglio 1985, quando Régis Soavi ha creato con alcuni studenti un primo dojo a Tolosa. Le pareti non erano ancora finite, il soffitto non era dipinto, ma già praticavano. Sui tatami erano solo una dozzina per questo stage, venuti da Tolosa, Parigi e Milano. Ci furono altri due stage d’estate a Tolosa, nell’86 e nell’87.

Tolosa 1986
Régis Soavi Tolosa 1986
Tolosa 1987

Eppure il fatto di essere in città, la mancanza di alloggi, il caldo afoso, tutto ciò non rendeva la situazione ideale. Régis Soavi e la sua compagna Tatiana andranno quindi alla ricerca di un “luogo” in campagna per organizzare uno stage estivo.
Presero la loro auto e partirono per le strade dell’Ariège, agendo come erano abituati con la deriva situazionista, che praticarono a Parigi per dieci anni. Agirono anche secondo la modalità di azione del Non-fare, nella quale ci si orienta in una direzione e si percepisce come “qualcosa” reagisce. Ciò che alcuni chiamano anche un “agire situazionale”, vale a dire in perfetta sintonia con il momento presente. Per questo bisogna lasciare la nostra “ragione”. Accettare e agire in un “flow”, un flusso se si vuole. Questo è spiegato dalla famosa storia del nuotatore di Chaung-tzu:

“Confucio ammirava la cascata di Lu-liang. L’acqua cadeva da un’altezza di trecento piedi e poi schizzava intorno per quaranta leghe. In questo luogo non potevano stare né tartarughe né coccodrilli, ma Confucio vide un uomo che nuotava. Credette fosse un disperato che cercavala morte e disse ai suoi allievi di scendere lungo la riva per soccorrerlo.
Ma dopo qualche centinaio di passi, l’uomo usci dall’acqua e, con i capelli sciolti, iniziò a passeggiare lungo la riva, cantando.

Confucio lo raggiunse e gli chiese: “Pensavo che lei fosse uno spirito ma, da vicino, sembra che sia vivo”. Mi dica: “ha un metodo per restare a galla in questo modo?”
“No”, rispose l’uomo; “non ne ho. Sono partito dalla situazione data, ho sviluppato qualcosa di naturale e ho ragggiunto la necessità. Mi lascio catturare dai vortici e sollevare dalla corrente ascensionale, seguendo i movimenti dell’acqua senza agire per conto mio.”
“Cosa intende con: partire dalla situazione data, sviluppare qualcosa di naturale, raggiungere la necessità?” chiese Confucio.

L’uomo rispose: “Non sono nato in queste colline e mi sono sentito a casa: ecco la situazione. Sono cresciuto in acqua e mi sono poco a poco sentito a mio agio: ecco il naturale. Non so perché agisco come agisco: ecco la necessità.”(2)
Il sinologo Billeter commenta questo passaggio (che parla dell’agire nel Non-fare evidentemente) osservando che “L’arte consiste nel basarsi su questi dati, nello sviluppare attraverso l’esercizio qualcosa di naturale che permette di rispondere alle correnti e ai vortici dell’acqua, in altre parole di agire in modo necessario, e di essere liberi da questa stessa necessità. Non c’è dubbio che queste correnti e questi vortici non sono solo quelli dell’acqua. Sono tutte le forze che agiscono all’interno di una realtà in continua trasformazione, fuori di noi così come dentro di noi.”(3)

Sviluppare qualcosa di naturale che permetta di seguire le correnti e i vortici andando nella direzione che si vuole è qualcosa che si esercita come dice il nuotatore. Praticando con il proprio corpo e anche accettando di “seguire” piuttosto che “scegliere”.

Dopo tre settimane di ricerche nella regione, Régis e Tatiana si rendono conto che non trovano il posto giusto. Sono in campeggio con le loro due bambine, inizia a essere un periodo piuttosto lungo, quindi decidono di ritornare a Tolosa. La mattina della partenza, Régis prende un caffè al bar del paese e il padrone gli parla del Mas-d’Azil, consigliandogli di andare a vedere questo paese.

Decidono quindi di fare un’ultima visita, il giorno della partenza. Arrivati al Mas-d’Azil, si rendono conto che in questo paese, a meno di dieci chilometri da dove sono accampati da tre settimane, ci sono già passati dieci anni prima.

Il Mas d’Azil,
Il Mas d’Azil

Dieci anni prima, tornando dalla Spagna, Regis e Tatiana avevano notato nel cielo il volo circolare di un rapace, che li “seguiva” da tempo. Continuando il loro viaggio avevano visto il rapace atterrare su un cartello all’incrocio di una strada: “Le Mas-d’Azil”. Avevano preso allora questa strada, incuriositi, che li aveva portati fino a un paese, incastonato in un rilievo roccioso ai piedi dei Pirenei, attraversato da un fiume tumultuoso e dominato da una bellissima grotta preistorica.

grotta preistorica di Mas d’Azil
Il fiume scorre attraverso la grotta

Quel giorno, dieci anni dopo Regis e Tatania ritrovano con stupore lo stesso paese! Da quel momento le cose procedono molto velocemente, in due ore i responsabili del comune accolgono a braccia aperte l’idea di uno stage. Il villaggio è piccolo, certo, ma è un capoluogo di cantone, ha una palestra, due alberghi, un campeggio, una posta, negozi e all’epoca una fabbrica di mobili ancora in attività.

Oltre a essere un importante sito preistorico (che ha dato il nome a un’era: l’Aziliano), si scopre che Le Mas-d’Azil ha una lunga storia di resistenza. Dopo la Riforma serve da rifugio ai protestanti. La resistenza protestante durerà qui più di cent’anni. L’evento più famoso fu l’assedio durato un mese e la feroce resistenza che la città condusse contro l’esercito reale di Luigi XIII con mille persone contro quindicimila. Ma annidati nel terreno roccioso e protetti da solidi bastioni, gli abitanti, nonostante i molti morti, sconfissero l’esercito e i suoi cannoni.

L’assedio e la battaglia di Mas d’Azil

Ancora oggi, sebbene il numero di abitanti sia diminuito con l’esodo rurale del XX secolo, è un luogo in cui molti dei cosiddetti “neo-rurali” si incontrano e si stabiliscono. Qui si trova anche Kokopeli, un’associazione ambientalista che distribuisce semi non coperti da diritti e riproducibili, con l’obiettivo di preservare la biodiversità di semi e ortaggi.
Il Mas-d’Azil non è il posto perfetto, non soddisfa tutti i requisiti, ma è qui.

Una trasformazione

Dall’88 in poi, lo stage d’estate si è svolto nella palestra comunale. Al primo stage i partecipanti sono solo una quindicina. L’allestimento è quindi minimo.

Le gymnase est peu aménagé eu début
Un gymnase assez ancien

Ma con il passare degli anni, i partecipanti, compreso Régis Soavi, fanno dei lavori, sistemano lo spazio e apportano migliorie. Il numero dei partecipanti è in aumento fino ad arrivare oggi a un centinaio.

La quindicina di persone che arrivano volontariamente con una settimana di anticipo per preparare lo stage allestiscono temporaneamente un quadrato di tatami, in modo da esercitarsi al mattino durante la settimana di preparazione. Tuttavia, per il momento si tratta “solo” di tatami nel bel mezzo di una palestra. L’obiettivo è quello di trasformare questo luogo in un dojo per il primo giorno di stage.

Régis Soavi racconta così questa trasformazione: “Quando arriviamo, non c’è niente di pronto. C’è da fare tutto.

Le gymnase tel que nous le trouvons chaque année

La palestra è sporca, ci sono dei graffiti, finestre rotte. Ma poiché le persone sono abituate a praticare in un dojo, vogliono ricreare il dojo. Il Maestro Ueshiba dice “Laddove sono io c’è un dojo”.Per questo abbiamo bisogno di tatami, deve essere pulito. Ecco perché un certo numero di persone viene con una settimana di anticipo, cancella i graffiti, fa riparazioni, ridipinge. Andiamo a prendere itatami con un camion. Le persone fanno tutto questo perché sono interessate, vogliono che lo stage sia piacevole, che ci sia un certo ambiente. Ci sono tanti piccoli dettagli, mettiamo qua delle tende, un appendiabiti là e qui bisogna avvitare. Ci vuole una settimana per sistemare tutto.
In questo modo, allora, per la prima seduta dello stage, tutto è pronto.
Ora potremo dedicarci, concentrarci sulle pratiche, per 15 giorni. Ma ci vuole tutto questo fermento prima, questo ribollire, anche questa pressione, e alla fine tutto è pronto.
Siamo pronti.

Così ricreiamo “dojo”, lo spazio sacralizzato. Il sacro non è il religioso, è qualcosa che si sente con il corpo. È molto chiaro. Quando si arriva all’inizio della settimana è una banale palestra con spalliere, attrezzi, cemento sul pavimento. Per una settimana con la nostra attività di preparazione, portiamo ki, ki, ancora ki. Così a un certo momento “diventa” uno spazio sacro. Ma siamo noi stessi a portare il sacro nel luogo.
Inoltre, anche se si avesse un magnifico dojo in legno con un ponte giapponese e del bambù davanti alla porta, non significa necessariamente che si tratti di uno spazio sacro. Potrebbe essere solo uno spazio artificiale.”(4)

L’effimero irreversibile

Lo stage d’estate è quindi un po’ come una parentesi. Un momento di pausa e allo stesso tempo un momento che si espande. Lo viviamo e ciò cambia qualcosa in noi. Quindi possiamo dire che lo stage estivo non ha lo scopo di far emergere un altro mondo, ma piuttosto di sperimentare direttamente un altro rapporto con il mondo. Un vissuto che, anche se effimero, non è meno irreversibile. Ognuno resta libero di cosa farsene di questo vissuto.

Régis Soavi: “Anche durante lo stage, tutto è organizzato dai praticanti stessi, le colazioni insieme, le pulizie, siamo vicini a ciò che si faceva in Giappone con gli Uchideshi, gli studenti interni che si occupavano di tutto. È un po’ questo lo spirito. Non si paga nessuno, non c’è uno staff. Non siamo in un’organizzazione amministativa. Ognuno dà il meglio di sé. Ciò permette, come nei dojo per tutto l’anno, di sviluppare le proprie capacità o, a volte, di scoprirle. Ci sono molte persone che sono arrivate al dojo non sapevano come piantare un chiodo. Appena gli si chiede qualcosa, dicono “oddio”! Bisogna spazzare, “io non so spazzare!” Fare il caffé, “io non so fare il caffé!” “Come si deve fare?”

Poco a poco scoprono il piacere di fare da soli, di essere capaci. Alcuni hanno scoperto capacità che non sospettavano di avere. Lo scopriamo perché c’è questo quotidiano collettivo, come nei dojo, che è un po’ diverso dal quotidiano di casa, è “casa collettiva”.”(5)
È quindi attraverso la sperimentazione concreta, in situazione, che si sperimenta un altro modo di essere e di interagire. Perché sovvertire il nostro modo di fare società significa affrontare un insieme che fa sistema. Come è descritto da Miguel Benasayag è prima di tutto “un’organizzazione sociale, un progetto economico, un mito che configura un tipo di rapporto con il mondo, con il sé, con il proprio corpo, un certo modo di desiderare, di amare, di valutare la propria vita…” È anche “affrontare un dispositivo molto concreto, che possiamo riassumere con l’immagine della citta europea moderna con i suoi muri, le sue relazioni con lo spazio e con il tempo, le sue modalità di circolazione, di lavoro, di commercio, che inducono ancora una volta una certa maniera di pensare e di agire, la cui influenza giunge oltre perimetro strettamente urbano.”(6)

Creare un’altra situazione è molto concretamente lasciare che sorga un altro modo di essere al mondo. Nella nostra società si tende a pensare che una situazione sia determinata da un perimetro esterno, nel caso dello stage d’estate si potrebbe dire: il numero di giorni, il numero di sedute, il numero di persone, il luogo geografico ecc. Tuttavia, secondo il filosofo Benasayag, che riprende Kush, una situazione si caratterizza prima di tutto come un’intensità. Prendendo l’esempio della foresta, spiega che ciò che fa la foresta non è il perimetro, il numero di alberi, ecc. Ciò che fa la foresta è un’intensità: gli alberi, gli animali, il muschio, le gocce d’acqua, i funghi e fa notare che l’intensità attira quello che l’alimenta… Per parafrasare questo esempio direi che anche lo stage d’estate è un’intensità. Un’intensità fatta dal luogo, dalle persone che si ritrovano, si organizzano, praticano, dai corpi che si muovono, dalla pratica di yuki, ecc.

Inizio della seduta di Katsugen undo

Françoise d’Eaubonne scriveva in una lettera; “Bisogna perdere la testa per abitare i nostri corpi”. Itsuo Tsuda diceva: “vuotatevi la testa”. Lo stage d’estate è quest’intensità in cui a un certo punto, con l’aiuto della stanchezza, il lavoro dell’involontario si fa in profondità nel corpo, finalmente la “testa” lascia un poco. Lasciando un po’ il campo libero ai bisogni del corpo, al suo movimento involontario. Abitare il proprio corpo porta a un’altra maniera di sentire, di pensare e di agire. I principi astratti della modernità (razionalità, progresso, utilitarismo, universalismo astratto), torniamo alla dimensione della conoscenza immediata e non riflettuta di noi stessi.

Régis Soavi: “Per chi arriva per la prima volta, uno stage è un primo passo. Si riscopre che il nostro corpo si muove e che si muove in modo involontario. Non ha niente a che vedere con uno stage in cui si va a ricaricarsi per poi ripartire più in forma. No. È un inizio. Inoltre è una pratica regolare. Nei dojo si pratica il Katsugen undo (Movimento rigeneratore) due o tre volte la settimana, si può anche praticare da soli a casa. Ma bisogna riallenare questo sistema involontario che abbiamo bloccato a lungo”.

“Lo stage d’estate è anche un crocevia, c’è chi che viene un po’ da tutt’Europa, si scoprono le persone attraverso la pratica dell’ Aikido e del Katsugen undo. Attraverso la sensazione,
Accade di tutto! Alcuni fanno degli incontri, arrivano soli e ripartono in due! Altri arrivano in due e ripartono soli! Perché a volte mette in luce dei problemi che si erano tenuti nascosti. Si cercava di trattenere, di mettere a tacere, ma con lo stage, con la pratica del Katsugen undo che risveglia il nostro corpo, si sente chiaramente quello che non è più sostenibile. Quando la volontà di controllo finalmente lascia la presa, ciò emerge, è tutto. Quello che è insopportabile è finalmente percepito come tale. Ma in qualche modo, è una liberazione. Il Katsugen undo, è una liberazione, nient’altro.”(7)

Le informazioni sullo stage d’estate 2024 sono qui :  https://www.scuola-itsuo-tsuda.org/37-stage-destate/

Note

1) Françoise d’Eaubonne, correspondance privée avec Alain Lezongar, 5 décembre 1976.

2) Jean François Billeter, Leçons sur Tchouang-tseu, 2002, éditions Allia, p.28

3) Ibid., p. 33.

4) Règis Soavi, estratto dal film “Una trasformazione”, diretto da Bas van Buuren, 2009.

5) Ibid.

6) M. Benasayag et B. Cani, Contre-offensive. Agir et résister dans la complexité, ed. Le pommier, 2024, p. 43-44

7) Régis Soavi, op. cit

 

 

Tutto è in tutto, e reciprocamente

Di Régis Soavi

Comprendere il Riai è, al di là delle corrispondenze tecniche, uscire dal mondo della separazione. È accettare di ritrovare l’unità dell’essere per sentire in tutto il proprio corpo la vita che si manifesta.

Sì il Riai esiste, l’ho incontrato

Per capirlo veramente e nello stesso tempo sentirlo nel nostro essere, dobbiamo andare oltre qualcosa. Andare al di là della tecnicità, non ridursi semplicemente all’imitazione, rispettando ovviamente coloro che ci guidarono e ci portarono i frutti delle proprie ricerche. Quando Noro Masamichi sensei creò il Kinomichi, rivelò, già più di quarant’anni fa, ciò che aveva scoperto. Ha potuto farne approfittare i propri allievi e questo senza bisogno di discutere a proposito del Riai, perché ne dimostrava ben prima le capacità, il vigore e la finezza nelle dimostrazioni così straordinarie che ho avuto la fortuna di vedere. Anche le capacità di Tamura Nobuyoshi sensei in questo campo non sono più da dimostrare. Tanti altri ce lo hanno dimostrato.

Dietro le quinte

Qualunque sia la nostra tecnica e, per quanto precisa, dipende da moltissimi elementi. Innanzitutto la nostra mente prima e durante l’azione, così come le reazioni del partner contro l’avversario, la nostra forma fisica del giorno, e infine l’istante T, sempre nell’indefinibile. Dietro le quinte del nostro essere interiore, se così si può dire, sta lavorando qualcosa di cui non siamo a conoscenza, e anche di cui non possiamo e non dobbiamo prendere coscienza – se non nel momento stesso in cui accade –, perché c’è il grande rischio di impedirgli di manifestarsi. Solo le persone che hanno accettato di svuotare la mente dai rumori di disturbo che la ingombrano possono realizzare l’unità necessaria per la giusta azione.
Quando siamo vuoti da ogni pensiero parassita e ogni domanda superficiale, siamo nello stato naturale dell’essere umano in cui ciò che può e deve sorgere saprà utilizzare sia il nostro potenziale, che a sua volta saprà basarsi sul nostro allenamento, sia il nostro comportamento nella vita di tutti i giorni.

Régis Soavi: Rendere visibili gli assi corporei che portano l'azione
Régis Soavi: Rendere visibili gli assi corporei che portano l’azione

Fare un paragone è un pericolo

Vedere gli assi del corpo che portano l’azione mi sembra “l’atto” più importante per un praticante perché le linee che definiscono questi assi dipendono da ogni persona, da ogni tendenza corporea e ognuna ha le sue specificità. Il pericolo del confronto è il rischio di bloccare l’attenzione sui dettagli a scapito dell’intera osservazione. Invece, saper apprezzare nel suo giusto valore un movimento, un gesto, qualunque sia l’arte, ci permette di ampliare il nostro campo di conoscenza e, allo stesso tempo, le nostre capacità.
Forse lo Yoseikan Budo è l’arte in cui la realtà del Riai è stata per me fin dall’inizio più evidente. Creato alla fine degli anni sessanta da Mochizuki Minoru che era senza dubbio uno dei più alti gradi in diverse arti marziali del Giappone (Aikido, Jujitsu, Iaido, Judo, Kendo, Karate), lo Yoseikan Budo è ora guidato dal figlio Mochizuki Hiroo che ne è il Soke. Ho avuto la fortuna di incontrarlo, negli anni Settanta, a una dimostrazione alla quale Tsuda sensei, invitato lui stesso, ci aveva portato. Dato che avevo praticato il Judo per più di sei anni, il Ju-jitsu Hakko-ryu con Maroteaux sensei e il Jiu-jitsu della scuola Jigo ryu con Tatsuzawa senseï, ho subito apprezzato la performance che avevo potuto vedere. I kata di Iaido che chiudevano la presentazione di quest’arte rivelavano senza dubbio una comprensione e una messa in luce della realtà del Riai.

Allo stesso modo, ricordo di aver visto un documentario(1) all’inizio degli anni novanta sul Tai Chi Chuan che presentava il lavoro del maestro Gu Meisheng, e di essere stato estremamente impressionato dai movimenti del suo corpo, dal suo modo di muoversi durante le sue dimostrazioni. Vedevo in modo molto preciso lo stesso movimento corporeo del mio maestro Tsuda Itsuo, le tecniche erano fondamentalmente diverse, ma sia la mente che quel qualcosa che lo abitava dava un risultato incredibile: vedevo il mio maestro vivo eppure non era lui. Mi sono procurato la videocassetta e la guardiamo al dojo ogni volta che è opportuno, come ad esempio durante lo stage d’estate.
Confrontare l’efficacia della tecnica senza vedere l’essenziale del movimento sarebbe un grave errore. A volte, indipendentemente dall’eventuale competenza tecnica, basterà la sola presenza o determinazione della persona – cioè la concentrazione del Ki (del Chi per le arti cinesi) – a risolvere un problema.

La respirazione KA MI

Ciò che c’è dietro ogni movimento, e che spesso non si percepisce abbastanza, è la “Respirazione”. Nello stesso modo in cui il sangue circola in ogni parte del nostro corpo, anche la più piccola, la respirazione, in particolare l’ossigenazione, circola anch’essa senza interruzioni in ogni cellula. È il vettore della nostra facoltà di muoverci, quindi di spostarci, e quindi di reagire quando ce n’è bisogno. La visualizzazione della respirazione è la consapevolezza della realtà del Ki. È molto difficile concepire il Ki, che appartiene al campo del sentire, motivo per cui i maestri di arti marziali utilizzano diversi metodi nei loro insegnamenti per consentire ai loro studenti di avvicinarsi a questa percezione. È, in particolare, attraverso la pronuncia dei nomi Ka e Mi che Tsuda sensei ci ha insegnato che si può comprendere l’identità che è comune a tutte le tecniche e a tutte le arti. Questo non toglie nulla alla specificità di ciascuna di esse, ma ci apre una finestra per la sua comprensione.
Ad ogni inspirazione si pronuncia mentalmente, o a bassa voce, ciò che aiuta la visualizzazione, la parola Ka (radice di fuoco in giapponese) e ad ogni espirazione Mi (radice di acqua); a poco a poco si integra questo modo di fare e quindi la visualizzazione diventa sempre più facile. Tanto che non è più necessario preoccuparsene, tranne che per alcuni esercizi che richiedono una maggiore concentrazione. È importante sapere che la visualizzazione non ha nulla a che fare con l’immaginazione perché è un atto che avviene attraverso l’azione concreta del koshi che è in contatto diretto con la realtà. L’immaginazione è, invece, un prodotto delle zone superiori del cervello, il cui scopo è quello di farci entrare in un mondo astratto e quindi fondamentalmente irreale.

Itsuo Tsuda: esercizio di respirazione Ka-Mi durante la pratica respiratoria
Itsuo Tsuda: esercizio di respirazione Ka-Mi durante la pratica respiratoria

Grazie a questo insegnamento, è possibile prendere coscienza che la nostra percezione del tempo si dilata in questa realtà che è la nostra quotidianità. È una cosa che ognuno ha già vissuto almeno una, se non molte volte, nella propria vita. Ad esempio, quando si aspetta un autobus che è in ritardo di due minuti, il tempo ci sembra molto lungo, mentre una serata con gli amici è passata prima che ce ne rendessimo conto. Ma questa tecnica di visualizzazione che si basa sulla respirazione può rivelarci molto di più di queste semplici constatazioni, può svelarci un universo che fino a quel momento non conoscevamo. Tsuda sensei ce ne ha descritti alcuni aspetti quando scriveva nel suo secondo libro:
“La dilatazione del tempo costituisce il fondamento stesso della tecnica seitai. Tra l’espirazione e l’inspirazione, c’è una pausa nella respirazione, un punto morto nel quale l’uomo non può reagire in alcun modo. Questa fessura, come ci si può rendere conto, è quasi impercettibile e si ha l’impressione che l’espirazione e l’inspirazione si succedano senza soluzione di continuità. Ma per Noguchi(2), è come una porta spalancata.
[…] È d’altronde nella fessura della respirazione che qualsiasi tecnica, che si tratti di Judo, di Kendo o di Sumo, funziona veramente. L’inspirazione permette di contrarre i muscoli, l’espirazione di rilasciarli. Ma durante la ritenzione, non è possibile né contrarre né rilasciare. Se si agisce dopo l’inspirazione e prima dell’espirazione, è inutile cercare di decontrarsi, si resta rigidi. Ci si lascia proiettare al di sopra della spalla, per esempio.” (ItsuoTsuda, La via della spoliazione, Yume Editions, p. 128-130)
Tocca ad ognuno di noi utilizzare questa scoperta per il benessere di tutti.

Il Non-Fare

Perché parlare del Non-Fare in un articolo sul Riai? Perché penso che sia una delle chiavi più importanti nella pratica delle arti marziali, e che oggi sia troppo poco conosciuta o trascurata, perché sfugge allo stato attuale della sperimentazione cosiddetta scientifica comunemente accettata. Questa chiave è considerata parte del dominio mistico mentre era alla base degli antichi insegnamenti e, quindi, delle conoscenze dei nostri maestri in molte arti marziali. Tutte le tecniche sono state costruite a partire dall’esperienza involontaria e spesso inconscia del corpo dell’essere umano, indipendentemente dal suo genere, dalla latitudine in cui viveva o dalla sua età. Tutte le tecniche si sono sviluppate e concatenate per permettere una migliore efficacia di fronte alle avversità. Nascono tutte da una risposta a un atto, che sia già iniziato o appena nato. La precisione viene dopo, deriva dagli assi, dall’ambiente, come dalla volontà che nasce dall’incontro, dal pericolo che si rivela o meno, quindi dalla necessità.
L’Aikido è un’arte del Non-Fare (il wu-wei così rinomato in Cina) ed è ciò che O Sensei ha trasmesso nel corso degli ultimi dieci anni della propria vita – perorando la pace e raccomandando ciò che oggi si chiama la simbiosi, piuttosto che il parassitismo e la cosiddetta “Lotta per la vita” così mal compresa già all’epoca di Darwin.
Tsuda sensei, insistendo sulla capacità di fusione delle persone e la respirazione coordinata, ci ha dato un’orientazione e ha permesso questa ricerca che alcuni di noi continuano. O Sensei che non aveva più tecniche realmente individuabili né comprensibili come ce lo spiegavano i maestri che lo hanno conosciuto direttamente da giovani, ci guida innanzi tutto ad andare in questa direzione. Se ci allontaniamo dall’idea di efficacia e, allo stesso modo, di rendimento – così cara alla nostra società cosiddetta moderna o civilizzata – avremo la possibilità di incontrare la vita e di poter utilizzare le nostre capacità, che potranno così appoggiarsi su queste conoscenze ancestrali troppo spesso svalutate.

Note

1) Yolande du Luart, Le Taiji quan: de Shanghai à Pékin à la recherche du qi, 1991.
2) Noguchi Haruchika, creatore della tecnica seitai e del Katsugen undo.

Vedere

Di Régis Soavi“Il maestro non chiede altro che essere derubato del proprio insegnamento che, per lui, è di una semplicità estrema, ma che, per gli altri appare misterioso, incomprensibile, inverosimile.” (Tsuda Itsuo, Le Triangle instable, Le Courrier du Livre, 1980, p. 132.)

Vedere, sentire

Anche se si inizia l’Aikido con delle idee superficiali provenienti dal mondo che ci circonda, è importante che poco a poco esse si avvicinino alla realtà e diventino uno strumento per riappropriarsi del corpo, il nostro corpo autentico.Ad ogni seduta che conduco, dopo la prima parte che ognuno esegue da solo ma in armonia con gli altri, e che è basata essenzialmente su degli esercizi di circolazione del Ki, comincio con la dimostrazione di una tecnica che, a priori, molti praticanti già conoscono. Tutta l’arte della dimostrazione consiste nel far passare un messaggio attraverso il movimento effettuato. Vi è l’avvio di un dialogo, non è solamente una tecnica e neanche un modo di fare perché ogni praticante, in rapporto al suo livello, alla sua attenzione, come alla sua capacità del momento, deve potervi trovare quello che gli è necessario per approfondire la sua pratica. Si tratta più di una trasmissione che di qualsiasi altra cosa. Insisto su un elemento, la precisione, la distanza, o qualsiasi altra particolarità, affinché qualcosa che tengo a rendere concreto sia ben visibile e diventi una forma evidente per la semplicità con cui lo mostro e affinché, attraverso il lavoro e l’allenamento che seguono, il corpo nel suo insieme non debba più riflettere ma agisca naturalmente ritrovando la spontaneità.

Itsuo Tsuda calligraphie ciseler un insecte graver une fleur

Cesellare un insetto, incidere un fiore

C’è un’espressione comune in Cina, un proverbio, che significa “Lavoro facile” di cui i primi due ideogrammi sono come la calligrafia in stile piccolo sigillo (sigillare) di Tsuda sensei: ???? cesellare insetto piccola tecnica.Questa calligrafia (pagina a fianco) può quindi esprimere: “L’incisione di un fiore è molto facile, come anche la scultura di un insetto”.Il proverbio vuol dire che tutti possono incidere o disegnare un piccolo fiore poiché è un lavoro semplice e facile da realizzare, ma a sua volta questo indica che solo i grandi maestri possono realizzare un’opera notevole. Tutto dipende dal kokyu. Tsuda sensei si esprime sul significato di questa parola nel suo secondo libro La via della spoliazione. È raro poter disporre di una tale definizione, semplice e precisa allo stesso tempo, che permette a noi Occidentali, a priori non preparati, di comprendere il suo contenuto:”Nell’apprendimento di un’arte giapponese è sempre questione di ‘kokyu’, che è l’equivalente propriamente detto della respirazione. Ma questa parola significa anche abilità nel fare qualcosa, il trucco del mestiere. Quando non si ha ‘kokyu’, non si può eseguire qualcosa come si deve. Un cuoco ha bisogno di ‘kokyu’ per servirsi bene del proprio coltello, e l’operaio per i propri utensili. Il ‘kokyu’ non si spiega, si acquisisce. [?]Quando si acquisisce il ‘kokyu’, si ha l’impressione che utensili, macchine, materiali, fino ad allora ‘indomabili’, divengano improvvisamente docili ed obbediscano ai nostri ordini senza opporre resistenza.Il ki, il kokyu, respirazione, intuizione, ecco i temi intorno ai quali ruotano le arti ed i mestieri del Giappone. Costituiscono il segreto professionale, non perché lo si voglia custodire come un brevetto d’invenzione o come mezzo per guadagnarsi il pane, ma perché è intrasmissibile intellettualmente. La respirazione, è l’ultima parola, il segreto supremo dell’apprendimento. Solo i discepoli migliori vi accedono dopo anni di grandi e continui sforzi.” (Itsuo Tsuda, La via della spoliazione, Yume Editions, 2016, p. 35-36.)

Il ruolo dell’insegnante

Uno dei ruoli dell’insegnante – ed è ben lungi dall’essere il suo unico compito – è di agire, tra l’altro, come una sorta di direttore d’orchestra. Dà il tempo, propone diversi modi di interpretare una tecnica, di portarla in una direzione con lo scopo di conferirgli tutto il suo potenziale, allo stesso modo del Maestro d’orchestra dà delle indicazioni sul “come interpretare” un brano musicale mettendo l’accento su una nota, un insieme di note, un tratto particolare. L’insegnante come il direttore d’orchestra ha un ruolo molto importante e con la sua maniera di condurre una seduta di Aikido può renderla noiosa o accattivante; troppo rapida e senza precisione per esempio, la seduta può non centrare il proprio obiettivo nonostante l’intenzione fosse buona; come un direttore d’orchestra può far “deragliare” un brano musicale che era di grande sensibilità se si mostra troppo rigido nella sua maniera di dirigere. Né rigidi né troppo molli, allo stesso tempo morbidi e convincenti, sia l’uno che l’altro danno la propria interpretazione di quello che hanno sentito, di quello che hanno compreso della propria arte, sia della musica sia della seduta di Aikido che conducono. Un altro direttore d’orchestra o un altro insegnante vedranno altre cose, altri accenti da evidenziare, ognuno di loro insisterà su differenti aspetti.I rapporti con i musicisti come con gli allievi sono anch’essi determinanti. Se si comporta in modo dittatoriale, colui che conduce non avrà l’adesione di quelli che dovrebbero seguirlo, otterrà al massimo una sottomissione che non potrà che rendere l’opera musicale banale o il corso di Aikido senza anima e senza gioia. Sull’esempio del direttore d’orchestra che non deve dimenticare soprattutto di non essere il compositore e che deve rispettare l’opera per quello che è, o che pensa o sente che sia, l’insegnante nelle arti marziali non è il creatore di quest’arte che desidera sviluppare e far conoscere, ne è l’interprete per quanto geniale esso possa essere. Il compositore stesso, come Beethoven credo, diceva che non faceva altro che trascrivere la musica che sentiva e che preesisteva nell’universo che lo circondava. Allo stesso modo, noi non facciamo altro che interpretare quello che faceva O sensei, quello che conosciamo, quello che abbiamo potuto percepire dai video dell’epoca, quello che diversi maestri hanno saputo trasmetterci e, più precisamente, quello che personalmente ho potuto scoprire grazie al contatto diretto con Tsuda sensei durante tutti questi anni. Ma O sensei stesso considerava la sua arte come qualcosa che gli era stata data, trasmessa da qualcosa di più grande di lui, qualcosa che percepiva e che provava a comunicare attraverso i suoi movimenti, la sua persona, le sue parole, la sua postura, o semplicemente con la sua presenza.Resta il fatto che ogni seduta è una sfida e dipende dall’ambiente che siamo riusciti a creare. Il grande direttore d’orchestra Sergiu Celibidache riteneva che, quale che fosse il numero di prove, l’impegno di ogni musicista, l’attenzione del pubblico, tutto poteva essere rimesso in discussione all’ultimo momento. Il concerto, come momento di verità ultima, dipende da elementi a volte imprevedibili che, favorevoli o meno, cambiano il corso dell’evento, della dimostrazione. Il ruolo dell’insegnante consiste nel permettere ad ogni allievo di dispiegare le proprie capacità anche al di là di quello che ognuno di loro può concepire o percepire.

Un lavoro sul corpo

È grazie alla sincerità del lavoro sul corpo che possiamo farlo uscire dall’isolamento della nostra struttura mentale alienata dalle abitudini di ragionare e reagire in modo profondamente dualistico. Le dimostrazioni servono per mostrare che qualcosa è possibile e ci può permettere di cambiare ciò che ci lega se andiamo in una direzione con sincerità. Il corpo deve ritrovare la sua base naturale, quello che è realmente in profondità, e non essere modellato per seguire i desideri di un’epoca, di una moda, di un’idea di sé prestampata su un cervello reso fragile dall’ambiente circostante. La dimostrazione di una tecnica dipende da molteplici fattori che condizionano una risposta ad hoc e non una risposta incondizionata prevista dalla nomenclatura delle tecniche. Deve permettere a chiunque di sentirsi coinvolto da quello che passa sotto i suoi occhi in modo da saper reagire a seconda del bisogno, indipendentemente dal contesto ma piuttosto integrando ciò che lo circonda per creare una situazione che porterà una soluzione tranquilla, e se possibile pacifica, contrariamente a qualsiasi atto che rischierebbe di diventare sgradevole e/o persino pericoloso.

Avec un débutant il faut se montrer particulièrement disponible.

Quale partner utilizzare

Ho visto spesso degli insegnanti scegliere regolarmente il loro migliore allievo come uke. Se questa scelta sembra ragionevole nelle dimostrazioni pubbliche, al momento delle “porte aperte” in quanto si tratta di mostrare la bellezza dell’arte o la sua efficacia, senza rischi per il partner che saprà cadere in ogni circostanza, ciò non ha più senso nel quotidiano dove l’obiettivo è tutt’altro a mio avviso. Lavorare con degli anziani spesso ci valorizza per via della loro disponibilità, della qualità dei loro spostamenti, del modo di seguire che hanno ma quanto a loro l’inconveniente è che cercano spesso di mettere in risalto il proprio professore. Con un principiante, soprattutto chi è veramente principiante, è molto differente, in questo caso, non ci sono errori possibili, bisogna mostrarsi particolarmente disponibili di fronte a un corpo che non è abituato a muoversi, a reagire in tale situazione e che rischia di farsi male per niente. È indispensabile comprendere, sentire l’altro, e malgrado tutto arrivare a far passare il messaggio che si desidera per permettere l’apprendimento e lo sviluppo di persone che vengono per imparare. Ho sempre trovato interessante fare le dimostrazioni delle tecniche con persone decisamente meno preparate, se non principianti, cosa che mi permette di mostrare e anche dimostrare che l’adattamento al corpo dell’altro è uno dei segreti del Non-fare.

Il segreto di ciò che è vivo

È necessario che le dimostrazioni durante una seduta siano adattate ogni volta alle tipologie di persone che sono presenti e che, grazie a ciò, possano percepire mediante impregnazione la circolazione del Ki, cosa molto più difficile se queste dimostrazioni sono mediatizzate. I libri contenenti disegni o foto non possono servire che come supporto tecnico o un complemento talvolta indispensabile, ma non possono sostituire le dimostrazioni dal vivo. I video possono anche essere utili per conoscere le differenti scuole o i “Maestri storici”, ma anche – e forse di più – per dare un’immagine della nostra arte e in tal modo suscitare il desiderio di scoprire la sua bellezza come la sua efficacia. Tuttavia, che si tratti di musica o di arti marziali, il segreto si trova al di là della forma o dell’allenamento, è piuttosto a mio avviso nella manifestazione di ciò che è vivo, che si può scoprire solo grazie a quello che si è sentito al suo contatto. Un musicista dilettante può animare un ballo folk e permettere a un paese intero di trovare un’unità nel piacere di essere insieme perché lui stesso è parte integrante dell’ambiente. In un dojo, ciò che è vivo, e quindi il Ki, si manifesta grazie a ciò che vi è nella persona che conduce la seduta. È la qualità interiore che si esprime nelle dimostrazioni, che siano rapide o lente, possenti o sottili e penetranti. È il Ki che esse sprigionano che ci porta a cominciare la pratica dell’Aikido, che ci spinge a continuare o talvolta a fuggire da quel posto. Nulla può sostituire ciò che è vivo, né i discorsi, né i sorrisi, né le finzioni. Le dimostrazioni durante le sedute sono per me il riferimento ultimo, “un momento di verità”

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 15 nel mese di ottobre del 2023.

Vivere Seitai

di Régis Soavi. 

«Il Seitai 整体 ha, prima di tutto, a che fare con l’individuo nella sua individualità, e non con un uomo medio secondo un calcolo statistico. La vita stessa è invisibile ma, manifestandosi negli individui, dà luogo ad un’infinità di formule diverse.1» ( (Tsuda Itsuo)

Seitai: filosofia o terapeutica?

Seitai Kyōkai di Tokio 整体協会. Seduta di Katsugen Undo nel 1980.
Seitai Kyōkai di Tokyo 整体協会. Seduta di Katsugen Undo nel 1980.

Il Seitai, e il suo corollario il Katsugen undo 活元運動 (2), sono riconosciuti in Giappone dagli anni sessanta dal Ministero dell’educazione (oggi Ministero dell’educazione, della cultura, degli sport, della scienza e della tecnologia) come un movimento d’educazione. Non sono riconosciuti come una terapeutica – che sarebbe riconosciuta dal ministero della sanità. L’ambiguità tra i due viene tuttavia mantenuta da un gran numero dei suoi divulgatori.
Dalla pubblicazione nel corso degli anni settanta dell’opera di Itsuo Tsuda, il Seitai fa sognare tra le fila delle numerose persone che si interessano alle tecniche New-age, Orientalisti o altri. Talora ci si improvvisa tecnici, talora si aggiungono degli “ingredienti seduttori” come scriveva lo stesso Tsuda sensei. È tempo di mettere un po’ d’ordine, di tentare di richiarire tutto questo, e per questo basta fare riferimento tanto all’insegnamento di Itsuo Tsuda che ai testi originali del creatore di quest’insegnamento, di questa scienza dell’umano, di questa filosofia.

Haruchika Noguchi sensei

Noguchi Haruchika sensei (1911-1976), fondatore del Seitai.

Questo Giapponese, fondatore dell’Istituto Seitai (3), è l’autore di una trentina di libri di cui tre sono stati tradotti in inglese. È anche lo scopritore di tecniche che permettono di far scattare il Movimento rigeneratore in quanto ginnastica del sistema involontario (4). Molto giovane, Haruchika Noguchi 野口晴哉 scopre di avere una capacità che pensa sia unica e “extra-ordinaria”: quella di “guarire le persone”. Questa capacità, la scopre in occasione del grande terremoto del 1923 che devasta la città di Tokyo, alleviando una vicina che soffre di dissenteria, semplicemente posandole la mano sulla schiena. Molto rapidamente la voce si diffonde, e le persone si precipitano all’indirizzo dei suoi genitori per ricevere delle cure. Egli si accontenta di posare le mani sulle persone che se ne vanno alleviate dai loro malanni. Comincia allora una carriera di guaritore, ha solo dodici anni, la sua reputazione assume una tale ampiezza che all’età di quindici anni apre il suo primo dojo nella stessa Tokyo. Ma Noguchi sensei si pone delle domande: qual è la forza che agisce quando posa le mani e perché lui solo detiene questo potere? Invece di approfittare di ciò che pensa essere un dono e sfruttarlo, ricerca, s’interroga, comincia a studiare come autodidatta. Per anni ricerca delle soluzioni ai problemi che gli pongono i suoi clienti attraverso le conoscenze che provengono dall’agopuntura dell’antica medicina tradizionale cinese, che studia con suo zio, dalla medicina giapponese (kampo 漢方), dai diversi tipi di shiatsu e kuatsu, e anche dall’anatomia occidentale, ecc. La sua fama è tale che viene conosciuto e riconosciuto anche internazionalmente. Incontrerà infatti in seguito numerosi terapeuti alcuni dei quali sono già, o diventeranno, famosi, come Masahiro Oki, il creatore dell’Oki-do Yoga, o Akinobu Kishi sensei, creatore dello shiatsu Sei-ki, o anche, più conosciuto in Francia, Moshé Feldenkrais, con cui avrà degli scambi in numerose occasioni. Ma ha già compreso che questa forza che sente in sé non gli appartiene in quanto individuo, e che esiste invece in tutti gli esseri umani ed è ciò che chiamerà più tardi la forza di coesione della vita.

Il Seitai: una visione globale

Régis Soavi
Régis Soavi

È negli anni cinquanta che il Maestro Noguchi cambia completamente orientazione. Attraverso la propria esperienza pratica e i propri studi personali, giunge alla conclusione che nessun metodo di guarigione può salvare l’essere umano. Abbandona la terapeutica, concepisce l’idea di Seitai e il Katsugen undo. Già in quel periodo dichiara: «La salute è una cosa naturale che non richiede alcun intervento artificiale. La terapeutica rafforza i rapporti di dipendenza. Le malattie non sono delle cose da guarire, ma delle occasioni di cui bisogna approfittare per attivare l’organismo e riequilibrarlo» (5), tutti temi che riprenderà più tardi nei suoi libri. Decide quindi di smettere di guarire le persone e di diffondere il Katsugen undo, così come yuki 愉氣 (6), che non è la prerogativa di una minoranza, ma un atto umano e istintivo.
La conclusione cui giungono le ricerche fatte da Haruchika Noguchi sensei ci porta a vedere il Seitai come una filosofia – e quindi non come una terapeutica – ed è lui stesso che lo definiva così nei suoi libri (7). Ciò non vuole dire che quello che faceva e insegnava non avesse conseguenze sulla salute, bensì il contrario perché il suo ambito di competenza era al servizio delle persone e consisteva nel permettere agli individui di vivere pienamente. Malgrado ciò un certo numero di persone, sia alla sua epoca sia oggi, sono state infastidite da un’opinione così radicale e ciò portò, per chi voleva vedere e comprendere solo secondo la propria opinione, una confusione tra cose di natura diversa. Ne conseguì che esse privilegiarono il sostegno alle persone a scapito del risveglio dell’essere.
L’abilità tecnica di questo grandissimo maestro era unanimemente riconosciuta in Giappone, era stato anche il presidente dell’associazione dei terapeuti manuali nel periodo prebellico. Ma il suo lavoro, che considerava un accompagnamento, una guida, un’orientazione Seitai, andava molto al di là del guarire le persone che si recavano da lui, si trattava piuttosto di permettere ad ognuno di ritrovare la propria forza interiore e per questo era di un’incredibile efficacia.
Spiega che molto spesso è il Kokoro 心 (8) che è affetto, che è perturbato e che basta condurre questo Kokoro nella buona direzione perché la persona ritrovi la salute che aveva perso. Fare scorrere il Ki nella buona direzione era la sua tecnica privilegiata, questo può sembrare piuttosto facile, ma le cose stanno in tutt’altro modo. Non ci si improvvisa guida Seitai, non si tratta di cercare tramite dei trucchi di stimolare questa o quella parte del corpo ma di comprendere, di sentire da dove viene il problema per permettere questo scorrere del Ki nella buona direzione e per far lavorare la vita. Noguchi sensei aveva un’intuizione straordinaria e la qualità delle sue sensazioni, la finezza della sua osservazione ne facevano veramente un uomo eccezionale e anche qualcuno che alcuni dei suoi contemporanei consideravano temibile da un certo punto di vista a causa della sua estrema perspicacia.

Itsuo Tsuda (1914-1984). Introdusse il Seitai in Europa negli anni ’70 dopo aver studiato per vent’anni con Noguchi sensei.

Un sogno

La salute è diventata un sogno tecnologico. Siamo passati dalla concezione del diciannovesimo secolo, così ben riassunta da Jules Romain nella sua opera teatrale Knock ou le Triomphe de la médecine, in cui si considera che ogni persona in salute è un malato che non sa di esserlo, alla concezione del ventesimo secolo che pretendeva di sradicare la malattia grazie alla chimica farmaceutica e ai raggi. Il ventunesimo secolo, invece, ci propone di risolvere tutti i problemi con la genetica o il transumanesimo.
L’analisi si vuole sempre più minuziosa, si è passati dalla dissezione al sequenziamento. Tagliando l’essere umano in pezzi sempre più piccoli, fino alle cellule e ora ai geni e anche di più, si perde di vista l’insieme, ci si allontana dalla nozione di individuo (dal latino individuum: ciò che è indivisibile) e curiosamente la conseguenza è che si è obbligati a trattare l’umano in generale e non più in particolare. L’essere umano appare come un accumulo di parti. Ogni parte del corpo ha il proprio specialista, psichica compresa ovviamente, e tutti si occupano del sintomo del loro cliente. Per delle ragioni ideologiche o religiose, o quando il risultato atteso non arriva con la medicina classica, ci si rivolge verso le medicine chiamate parallele. Può trattarsi sia di metodi ancestrali di gran valore sia di piccole truffe. C’è attorno a noi una quantità di ricette diffuse da internet, e ritrasmesse dai nostri amici e conoscenti, ognuno dei quali pensa di detenere la soluzione ai nostri problemi di salute, di energia, o semplicemente a un qualsivoglia disturbo.

Il sintomo

Ci si accanisce a guarire il sintomo, perché è ciò che ci disturba. Certo, non si può negarne l’importanza, è il segno, spesso il rivelatore, di un problema che non si era ancora percepito. Ma è anche e soprattutto la manifestazione del lavoro dell’organismo per risolvere la difficoltà. Spesso i problemi del corpo sono compresi male e li si vuole risolvere il più velocemente possibile senza cercarne realmente la causa profonda. Basta far scomparire il sintomo perché tutti siano contenti, perché si pensi di essere guariti, mentre molto spesso si è semplicemente scostato il problema e, a volte persino, impedito al corpo di reagire.

Il corpo ha delle ragioni che la ragione non conosce

Hirochika Noguchi, figlio maggiore del fondatore del Seitai, con Régis Soavi, durante la sua visita a Parigi nel novembre 1981

Non esiste un corpo perfetto e immutabile, il corpo si muove senza sosta all’esterno come all’interno, è la vita stessa che vuole questo. Ma bisogna pur prendere in considerazione che questo movimento o piuttosto questi movimenti sono anche il risultato delle nostre tendenze corporali, che queste derivano dalla nostra nascita, dai nostri geni, così come dall’uso che facciamo del nostro corpo tramite il lavoro, lo sport, le arti marziali, e quindi in generale tramite qualsivoglia attività. Per esempio, c’è un fenomeno piuttosto ricorrente nelle arti marziali e negli sport in generale: aver male a uno, o alle due ginocchia. La risposta più comune è trattare il dolore nel punto in cui si trova, anestetizzarlo, impedirgli di gonfiarsi, ecc. In realtà, in casi di questo tipo come in molti altri, si sta dimenticando oppure negando che questo fenomeno è una risposta naturale dell’organismo a un problema di ordine molto più vasto, un problema di postura o un cattivo utilizzo del corpo.
Haruchika Noguchi ci ha lasciato uno strumento estremamente prezioso che permette di comprendere meglio gli esseri umani in funzione della polarizzazione dell’energia (del Ki) nelle diverse regioni del corpo. Questo strumento, il concetto di Taiheki 体癖 (9), ci offre la possibilità di percepire l’individuo nel proprio movimento inconscio attraverso le abitudini corporali e quello che ne è il risultato. Noguchi sensei usava un sistema di comparazione basato sul mondo animale, concepito all’inizio delle sue ricerche come un’osservazione minuziosa del movimento umano, che ridusse per ragioni d’insegnamento a sei gruppi che comprendevano in tutto dodici tendenze principali. Ciascuno dei primi cinque gruppi è in relazione con un vertebra lombare e un sistema corporale (urinario, pelvico, polmonare, ecc.), l’ultimo invece descrive uno stato generale del corpo.
Queste tendenze che derivano dalla coagulazione e dalla stagnazione del ki hanno come causa gli irrigidimenti o le mollezze del corpo quando non riesce più a rigenerarsi, a rimettersi dalle fatiche che gli sono imposte.
Facciamo un esempio in modo da rendere la cosa concreta: molte persone hanno tendenza ad appoggiarsi più su un gamba che sull’altra. Questa tendenza può essere il risultato (tra le altre cose) del lateralismo o della torsione, come vengono chiamati nel Seitai, che sono come altre deformazioni corporali assolutamente involontarie; non sono altro che il risultato, la risposta dell’organismo che cerca di mantenere il corpo in equilibrio.
Nel caso della torsione, la gamba d’appoggio serve per prepararsi a scattare per attaccare o per difendersi, in tutti i casi per vincere; con il lateralismo si tratta piuttosto di uno stato che deriva da tendenze digestive e sentimentali con una deformazione a livello della seconda lombare, questo stato spinge alla concertazione, alla diplomazia. In questi due esempi, sarà sempre la stessa gamba che serve da punto d’appoggio ed è per questo motivo che supporta permanentemente la maggior parte del peso, quindi si affatica e tende a usurarsi maggiormente e a diventare rigida. L’insieme dell’organismo soffre di questa dissimmetria e, in particolare, ovviamente in primo luogo la colonna vertebrale. Per mezzo di un rigonfiamento dovuto a un apporto di liquido o grazie a un dolore, e spesso anche tramite entrambe le reazioni, l’organismo cerca di alleviare il ginocchio che porta il tributo più pesante, impedendoci di utilizzarlo fino alla guarigione, cioè fino a che non si ristabilisce l’equilibrio del corpo nel suo insieme. Se si impedisce questo sviluppo forzando lo sgonfiamento e sopprimendo il dolore, il corpo diventato insensibile continuerà ad appoggiarsi sullo stesso lato e la situazione peggiorerà. Il corpo cercherà di ritrovare l’equilibrio in tutti i modi, all’inizio rinnovando i problemi alle ginocchia appena ritrova la sensibilità in questo punto, poi poco a poco sono le anche che iniziano a compensare la mancanza di flessibilità e alla fine la schiena, cioè la colonna vertebrale, con tutte le conseguenze che si possono immaginare. Il mal di schiena non è considerato come il problema più comune nella nostra civilizzazione e anche forse come il “male del secolo”? La soluzione è sopportare il dolore in silenzio? Non è il punto di vista del Seitai, ma mantenere l’equilibrio dall’inizio, dalla nascita, consiste nell’accettare le piccole perturbazioni e nel guidare il corpo nella buona direzione nel quotidiano, giorno dopo giorno. Se non si sono rispettate le manifestazioni del proprio organismo diventa necessario passare attraverso un riapprendimento corporale, un riequilibrio lento ma profondo. Se invece non si accetta il lavoro del proprio corpo, bisognerà allora accettare la desensibilizzazione progressiva, l’irrigidimento progressivo e le sue conseguenze: una certa forma di Robotizzazione o l’indebolimento e l’incapacità di reagire.

Vivere Seitai

Noguchi sensei considerava che occuparsi dei bambini a partire dalla nascita era già tardi. I mesi della gravidanza, il parto, le prime cure da dare al bebé facevano parte integrante delle sue preoccupazioni riguardo la vita futura del bambino. Itsuo Tsuda sensei ci dà nei suoi libri numerose indicazioni sulla gravidanza, il parto, l’allattamento, la nutrizione, lo svezzamento, i primi passi, ecc. e in particolare nel quarto volume intitolato Uno. Il Seitai non stabilisce delle regole da seguire in ogni circostanza, non si tratta di trovare una buona soluzione ai problemi della prima infanzia, dell’infanzia, o dell’adolescenza come in un libro di puericultura o di pedagogia. Il Seitai si occupa delle manifestazioni della vita senza a priori, permette di guidare i genitori pur permettendo loro di sviluppare la propria intuizione grazie a un dialogo nel silenzio con il bebé e poi con il bambino piccolo. Per chi non ha avuto la fortuna, o a volte la possibilità di lasciare il corpo lavorare in funzione dei propri bisogni, restano ancora delle possibilità di ritrovare uno stato di salute? È a questo punto che interviene la pratica del Katsugen undo.
È una pratica di una grande semplicità che comincia con una condizione indispensabile: non pensare. Tsuda sensei chiamava ciò “svuotarsi la testa”. Ne La scienza del particolare, ci spiega cosa intende con quest’espressione: “Svuotare la testa! Se ne comprende la necessità oggi, che la testa è diventata una pattumiera nella quale la fermentazione continua ventiquattro ore su ventiquattro, per produrre l’inquietudine del presente, e la paura dell’avvenire.
Che cosa chiamiamo “svuotarsi la testa”? Non si tratta, beninteso, dello stato comatoso nel quale la coscienza è perduta. Si tratta di uno stato in cui la coscienza smette di essere perturbata dalla successione delle idee. Al posto della cerebralizzazione eccessiva, la vita comincia a risvegliarsi nelle parti del corpo fino ad allora lasciate in letargo.” (10)

La nozione di individuo nel Seitai

Per H. Noguchi sensei, l’essere umano diviso in parti non esiste, esiste sempre in quanto corpo unico.
Alla luce delle scoperte più recenti ci si rende conto, per esempio grazie alla teoria delle fasce, dell’interazione esistente tra le diverse parti del corpo, anche se sono a volte estremamente distanti tra loro. Alcune di queste teorie hanno permesso di riabilitare delle tecniche ancestrali provenienti da lontani paesi, finora incomprese nella loro profondità e molto spesso poco rispettate dalla scienza medica occidentale. Altre scoperte, riportate in particolare da M.-A. Sélosse nel suo libro Jamais seul (11), hanno messo l’accento sull’aspetto simbiotico dell’individuo, sull’interazione esistente tra i batteri e il corpo: l’essere umano non è più considerato in modo separato, la biologia moderna intravede in modo flagrante il suo carattere di simbionte. Una volta di più, una volta ancora dovrei dire, si è obbligati a considerare l’individuo nel suo insieme.
Ciononostante, malgrado un’epoca in cui le scoperte tecnologico-scientifiche hanno considerevolmente aumentato la conoscenza sull’essere umano, dal punto di vista del Seitai poche cose sono cambiate, resta lo stesso di sessanta o settant’anni fa; le cause che lo perturbano, che perturbano il suo Kokoro sono diverse, ma l’essere umano in sé resta lo stesso. Si può anche constatare purtroppo che numerosi corpi e menti sono più fragili al giorno d’oggi in cui le ideologie sulla salute hanno creato degli individui profondamente dipendenti da specialisti di ogni sorta, generando un certo tipo di alienazione a volte difficile da comprendere o da analizzare per chi non ha una visione d’insieme della società. L’abisso verso il cui fondo ci dirigiamo richiede che ognuno riprenda in mano se stesso in modo individuale ed è forse su questo che l’orientazione Seitai ci può chiarire: fornendo all’individuo uno strumento unico per ritrovare la propria autonomia, riappropriarsi della propria vita e viverla pienamente. È per questo che la pratica di Katsugen undo e lo Yuki sono le due attività proposte dalla Scuola Itsuo Tsuda, perché sono l’Alfa e l’Omega della pratica del Seitai.

 

Notes:

  • 1 Itsuo Tsuda, Il Non-Fare, Yume editions, 2014, p. 77.
  • 2 Traduzione italiana: Movimento rigeneratore (di Itsuo Tsuda).
  • 3 Seitai Kyōkai 整体協会.
  • 4 Si tratta più precisamente di un esercizio del sistema motorio extra-piramidale.
  • 5 Haruchika Noguchi, Colds and their benefits, Zensei Publishing Company, trad. ingl.
  • 6 Yuki: atto di concentrazione dell’attenzione che attiva la forza vitale dell’individuo.
  • 7 Haruchika Noguchi, Order, Spontaneity and the body, Zensei Publishing Company,
  • 8 Kokoro, cuore e spirito, facoltà di ragionamento, di comprensione, e volontà dell’uomo non come opposto alla sua dimensione corporea, ma come ciò che la anima.
  • 9 Abitudini corporali.
  • 10 Itsuo Tsuda, La scienza del particolare, Yume Editions, 2019, p. 167.
  • 11 Marc-André Sélosse, Jamais seul, Actes sud, giugno 2017.

 

Aikido un’arte che emancipa. Un’arte che si emancipa.

di Régis SoaviDa settembre 2023 presso i dojo della Scuola Itsuo Tsuda, a Parigi, a Tolosa come a Milano oltre alle sedute quotidiane, una seduta di Aikido a settimana sarà riservata esclusivamente alle donne.

Una seduta per donne, gestita da donne, condotta da donne.

Forse è importante precisare fin da subito che non si tratta di una nuova versione dell’Aikido e nemmeno di un Aikido più morbido e ovviamente soprattutto non di un Aikido “femminile” ma di un Aikido “non-misto per scelta” concepito come un atto di “empowerment”.Fondamentalmente, non è destinata alle praticanti che già conoscono la nostra Scuola e che vanno alle altre sedute, quantunque vi siano le benvenute per essere Sempai o per permettere di far scoprire la pratica alle nuove persone che verranno. L’obiettivo è quello di permettere alle nuove partecipanti di praticare l’Aikido nel rispetto della loro diversità, e quindi di avere una visione diversa da quelle diffuse attraverso i vari media troppo spesso alla ricerca del sensazionalismo, dell’esagerazione, anche del volgare. Tutti abbiamo sentito commenti o da una compagna o da un’amica che, dopo averci sentito parlare dell’Aikido, ci hanno detto “no no, non fa per me, è troppo violento” o anche “è una cosa da maschi”. Oggi è necessario presentare l’Aikido come una possibilità realistica di permettere alle donne di ritrovare “una fiducia in se stesse” spesso alterata dall’ambiente dominante nelle arti marziali e di affermarsi non come una comunità separata ma piuttosto come un gruppo che si emancipa, che esce da un certo tipo di relazione sociale per cercare di trovare, ritrovare o continuare il cammino, “la via”, che è costantemente da riscoprire, verso un’umanità più semplice, più pacifica e, quindi, più vera. Proporre un’arte marziale già riconosciuta in modo specifico come l’Aikido, una seduta separata per le donne, non è nulla di rivoluzionario o di nuovo per noi perché le donne nella Scuola Itsuo Tsuda sono sempre state numerose e molto spesso persino maggioritarie. Ma, da lì a creare una seduta supplementare di questo tipo, c’è il pericolo che sia oggetto di una tale incomprensione per gran parte dei praticanti come delle praticanti, di qualunque scuola siano, che c’è il rischio che questa innovazione venga considerata problematica, perturbante, inutile e quindi controproducente. Questa incomprensione non sarà un’esclusività di quelli o quelle che sono coinvolti nella nostra arte, temo, perché sento già un buon numero di critiche, sia nella forma che nella sostanza, che potrebbero avere le loro ragion d’essere se il mondo d’oggi fosse davvero quello che afferma di essere e non quello che è veramente. Questo percorso a mio avviso è diventato una necessità ancora più acuta nel ventunesimo secolo che nei secoli precedenti, semplicemente a causa della modernizzazione ideologica delle menti che vorrebbe far credere in una nuova normalità più eguale quando di fatto non è che la reificazione del vecchio mondo.Barbara Glowczewski quando scrive sugli aborigeni australiani ci dà le ragioni di questo bisogno di “entre soi”1 che secondo me è sempre esistito anche se è stato ostacolato o travestito in modo da poter persistere nonostante la disapprovazione della società: “Se questa rivendicazione di un ‘entre soi’ esiste è perché c’è stata storicamente una disapprovazione, una spoliazione di ciò che apparteneva loro, o meglio di ciò che segnava la loro appartenenza sia ai saperi sia alle terre che essi ed esse hanno trasformato nei secoli, anzi nei millenni.” Tutto è detto.aikido émancipe

Perché ho promosso e sostenuto con determinazione questo progetto?

Forse perché, praticando arti marziali da 60 anni e in particolare l’Aikido da 50 anni, sono sempre stato interessato al lato Yin che ha tanta importanza nella nostra arte come componente intrinseca della totalità e che viene tanto spesso sminuito, così come il lato Ura è stato spesso svalutato a favore dell’Omote apparentemente tanto più brillante e quindi ritenuto a torto più forte, più “valido” in una scala di valori distorta da secoli.Forse questi aspetti rappresentano quello che mi mancava o meglio quello che faticava a svilupparsi naturalmente in me all’interno di questa società così Yang e che l’insegnamento del mio maestro Tsuda sensei mi spingeva a cercare, a riscoprire nel profondo. Sicuramente è anche ciò che immaginavo di dover reprimere o almeno moderare per sopravvivere e cercare di vivere come pensavo di desiderarlo, come mi suggeriva la società. È anche grazie alla mia personale vita familiare, a tutta la sua ricchezza e soprattutto al suo radicalismo nei confronti del mondo sociale, che ho potuto trovare la strada verso questo universo troppo spesso misconosciuto da quella metà dell’umanità che è il mondo femminile, un mondo né totalmente Yin come qualcuno potrebbe farci credere a prima vista, né privo di Yang, anzi.L’Aikido di Tsuda Sensei mi ha permesso di cogliere un’altra dimensione che andava ben oltre ciò che avevo potuto percepire in un primo approccio alle arti marziali. A questo proposito scrive, già nel 1982, questa frase che sembra premonitrice: “L’Aikido, concepito come movimento sacralizzato dal Maestro Ueshiba, sta scomparendo per far posto all’Aikido atletico, uno sport da combattimento, più in linea con le esigenze dei civilizzati”2. Aveva questo modo di toccare, spesso semplicemente con l’aiuto di poche parole, i nostri punti sensibili, di aprire porte nella nostra mente per far riflettere noi (suoi allievi) sul concreto, sulla vita quotidiana.femmes aikido émancipe

Un’arte che emancipa.

Uscire dai sentieri battuti e ribattuti, solcati dal vomere delle convenzioni e dai carri pesanti per i carichi di idee prefabbricate è certo un lavoro difficile ma più che necessario.È ora giunto il momento di uscire dai ranghi, di approfittare di uno stato di coscienza che è potuto emergere in Occidente grazie al movimento femminista e che riprende in quest’ultimo le rivendicazioni delle generazioni precedenti prima che nuovi ideologi al servizio del potere, o meglio dei poteri, non utilizzino tutto ciò che c’è di vero in questa emersione attraverso un discorso che, con i suoi presunti aspetti innovativi, ricicla vecchi logori ritornelli, mescolandoli se necessario con le idee in voga, nel migliore dei casi pensando di fare la cosa giusta, nel peggiore comportandosi da lacchè delle ideologie dominanti.Se l’Aikido è un’arte che emancipa l’individuo, e questa è la sua principale ragion d’essere nella nostra Scuola, è quindi necessario, anzi imperativo, aprire gli occhi sul mondo che ci circonda. Questa emancipazione deve tuttavia essere senza limiti anche se a volte è doloroso guardare in faccia le cose, è sempre molto salutare farlo.Constatare l’abbandono della nostra arte e di conseguenza il disinteresse che essa sembra suscitare sia tra gli adolescenti sia tra i giovani adulti e, notoriamente da parte di metà dell’umanità (il mondo femminile), è diventato un’evidenza per molti e molte insegnanti di arti marziali. La risposta più spesso addotta con l’obiettivo di reclutare nuovi/e praticanti è quella di offrire dimostrazioni di efficacia e prove comparative tra le diverse tendenze, scuole o arti diverse, quando non si tratta di mescolare tecniche provenienti da tutto il mondo per creare un melting-pot attraente per quante più persone possibile! E se il problema non fosse lì, proprio per niente lì dove stiamo vanamente scavando e ostinandoci a trovare una soluzione?Una persona emancipata è una persona autonoma, indipendente, libera: la nostra ricerca va in questa direzione. Creando spazi di libertà, luoghi diversi per loro intima natura, possiamo permettere che si creino le condizioni che favoriscono lo sviluppo dell’essere in modo veramente autonomo. I dojo sono luoghi di tale natura. Ma chi lo sa?! Il timore di ritrovare le stesse condizioni di tutto ciò che le circonda e le opprime “in modo discreto” non incoraggia il mondo femminile ad entrare in uno dei nostri dojo per vedere cosa vi succede davvero, disilluse come sono dai tentativi infruttuosi già sperimentati o dalla falsità dei discorsi spesso lenitivi, sebbene socialmente accettabili. Mi sembra che dobbiamo creare delle situazioni come l’affirmative action negli Stati Uniti, secondo me tradotta erroneamente come “discriminazione positiva”, che venne resa possibile dall’iniziativa di J.F. Kennedy all’inizio degli anni Sessanta. Una situazione nuova, un posizionamento dei Dojo, che consente alle donne che, pur attratte dalle arti marziali, non avrebbero alcun desiderio di confrontarsi ancora una volta con il sessismo (anche se involontario, e gentile). Permettere di tentare, avendo esse un rapporto particolare con il corpo, diverso da quello degli uomini, che una volta tanto non sarà loro rimproverato né accettato con accondiscendenza, di trovare sia il piacere sia l’efficacia grazie ai progressi fisici nei movimenti, la stabilità e l’equilibrio nell’armonizzazione della respirazione senza ambiguità o compiacenza. Essendo assente la competizione, possono così scoprire tutte le capacità del loro “essere”, della totalità del loro corpo come della loro mente in un ambiente reso sicuro dall’aver posto in essere l’aspetto non misto. Il lato marziale, anch’esso non dimenticato, permetterà di ritrovare delle capacità e una sicurezza di fronte alle avversità esistenti in un mondo dominato dal potere del maschile.

takako kunigoshi
Takako Kunigoshi

Un’arte che si emancipa

Da Louise Michel e le sue consorelle durante la Comune di Parigi, e ancor prima di loro, da Olympe de Gouges agli albori della Rivoluzione francese, le donne rivendicano la Libertà l’Uguaglianza e la Fraternità (o la Sorellanza) per tutte e tutti senza mai trovarle ad eccezione di qualche raro momento storico, ed anche in questo caso in modo molto relativo.E se l’Aikido fosse questa leva che agisce per cambiare la nostra società, questo strumento che emancipandosi dalle abitudini, dalle idee preconfezionate, dai corredi che gli sono stati aggiunti, ridiventasse o almeno si avvicinasse di nuovo agli ideali del suo fondatore Morihei Ueshiba, che considerava il mondo come una grande famiglia?O sensei insisteva sull’importanza dell’equilibrio tra Yin e Yang, sulla loro alternanza all’interno dell’Unità. Tsuda Sensei ci parlava continuamente della respirazione Ka Mi, l’alternanza di inspirazione ed espirazione alla base della Vita. Nei due esempi entrambi di fatto parlavano del Tao, dell’Uno. Per tornare a questa ricerca dell’unità contrapposta alla separazione, è talvolta necessario fare un passo indietro, come farebbe qualsiasi buon sociologo, per analizzare cosa ha portato l’Aikido a questa impasse in cui si trova oggi, quando invece era considerato una delle principali arti marziali negli anni Sessanta e Settanta, sia dal punto di vista filosofico che per quanto riguarda gli aspetti fisici, accessibile a tutte e a tutti indipendentemente dall’età o dalla forma fisica.Tsuda sensei, come tutti gli allievi di O sensei, aveva il suo modo, e in un certo senso era molto particolare, di comunicarci ciò che aveva visto e compreso nell’insegnamento del suo maestro. La sua ricerca era diretta fin dall’inizio verso il Non Fare. Non essendo giovane, aveva quarantacinque anni quando iniziò a praticare Aikido con il maestro Ueshiba, scoprì qualcosa che i giovani Uchi-Deshi non erano in grado di vedere o capire, come spiega così bene Tamura Sensei. Infatti Tsuda sensei non insegnava, ci trasmetteva quello che aveva scoperto con i maestri che aveva conosciuto, tra gli altri, con Ueshiba sensei, Noguchi sensei o Marcel Granet e Marcel Mauss. Questa trasmissione mi ha segnato al massimo grado ed è stata il filo conduttore del mio insegnamento durante tutti questi anni. Mi ha permesso di rivolgermi alle donne e agli uomini senza occuparmi della distinzione di genere, età o livello, capacità del corpo così come difficoltà o addirittura handicap. Per me anche questo è stato occasione di migliorare il mio insegnamento e di insistere su certi aspetti per andare verso la libertà e l’autonomia degli individui.L’Aikido è un superamento dei conflitti: ai-nuke, è un’occasione per capire come gestire i problemi della società. Tsuda sensei scrive “L’Aikido del Maestro Ueshiba, da quello che ho sentito, era completamente pieno di questo spirito di ai-nuke, che chiamava ‘non-resistenza’. Dopo la sua morte, questo spirito è scomparso, è rimasta solo la tecnica. Aikido originariamente significava la via della coordinazione del ki. Inteso in questo senso, non è un’arte di combattimento. Quando la coordinazione è stabilita, l’avversario cessa di essere avversario.”3 Sta a ciascuno di noi prendere in mano questo strumento, perché è nelle nostre mani che può acquisire una reale efficacia, non con discorsi ma fungendo da esempio delle possibilità alla nostra portata. Aprendo il corpo, si aprono gli occhi alle realtà. Ora o mai più sta a noi insegnanti permettere che la nostra arte, poiché dovrebbe essere più lucida, sia l’arte del superamento delle arti antiche, attingendo alle sue origini che non sono negate ma intese come la necessità, certamente arcaica, di un’epoca ormai passata. Creando le condizioni necessarie per permettere alle donne di riappropriarsi, almeno nella nostra Scuola, di ciò che per tanti secoli era loro sfuggito e mancato, si tratta di creare un contesto, un ambiente, un’atmosfera indispensabile, un contesto essenziale perché questo lavoro di riconquista possa compiersi. Queste sedute dedicate in un certo senso sono solo una proposta per suscitare una situazione di riequilibrio che dovrà estendersi a tutti gli ambiti, nelle arti marziali così come al di fuori della società, e principalmente in ogni aspetto della vita quotidiana. Takako Kunigoshi sensei, una delle rare allieve donne del Kobukan Dojo, citava queste parole di O sensei: “Che sia la cerimonia del tè o la composizione floreale, esistono dei punti in comune con l’Aikido poiché il cielo e la terra sono fatti di movimento e di calma, di luce e d’ombra. Se tutto fosse continuamente in movimento ci sarebbe un caos completo.”4Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 15 nel mese di ottobre del 2023.1) L’entre soi (trad. lett.: tra di sé) è la situazione in cui ci si trova solo con i propri simili.2) Itsuo Tsuda, La Voie des dieux, Le Courrier du Livre, 1982, p. 146.3) Itsuo Tsuda, Face à la science, Le Courrier du Livre, 1983, p. 29.4) Takako Kunigoshi sensei, Les Maitres de l’Aikido – période d’avant guerre, Ed. Budoconcepts, p.286.

Essere umili, certo, ma fieri di sé

di Régis SoaviSembra che oggi il senso della parola fierezza si sia appesantito in modo fuorviante, la fierezza è diventata quasi uno dei maggiori difetti in certe classi della società. Si usa erroneamente la parola fiero per definire “uno che si crede superiore agli altri e lo manifesta con il suo comportamento”, mentre in questo caso spesso si tratta, a mio avviso, semplicemente di un inconscio presuntuoso.

La stima di sé

Troppo spesso confondiamo l’autostima, che è eminentemente rispettabile, con la vanità, che è una forma di autocompiacimento che può solo farci del male. Diremo invece di una persona “che si suppone consapevole dei suoi limiti, delle sue debolezze, e che lo manifesta con un atteggiamento volutamente modesto e schivo” che è umile, anche se questa umiltà è fittizia e serve solo a ingannare il suo entourage. Il mondo politico è sempre stato pieno di questo tipo di usurpazione appropriandosi dell’uso dei termini essere umili o essere fieri. L’umiltà implica un rapporto sociale, è necessaria di fronte agli altri per mantenere un equilibrio esterno tanto quanto quello interno, ma non deve nuocere al nostro stato di coscienza e alla forza che ci guida nella nostra vita.

L’amor proprio

Inizia alla nascita nella sua forma naturale chiamata egocentrismo e di cui non bisogna aver paura nonostante le raccomandazioni di certe scuole di pediatria o di pedagogia, perché è indispensabile per la sopravvivenza del bambino piccolo. Molto velocemente il bambino prende coscienza di essere ed è orgoglioso di essere ciò che è, di ciò che può fare o dire. Partecipa al mondo non come creatura dipendente ma già come creatore di ciò che lo circonda, per lui il mondo “gli appartiene e vuole goderne”. La forza della vita che fatica a contenersi in questo piccolo corpo lo spinge ad esercitare le sue capacità in tutte le opportunità che troverà alla sua portata, e anche oltre. Se non è spezzato dall’educazione, manterrà un senso di quello che viene chiamato amor proprio, che a mio modesto parere è la fierezza. L’amor proprio ci spinge ad andare al di là delle nostre capacità, a cercare più lontano più in profondità, a scoprire, per essere fieri di sé, ciò che ci riempie di soddisfazione e allo stesso tempo stimola il desiderio di superare se stessi proprio di tutti gli esseri viventi.Essere fieri dei propri talenti è l’opposto della presunzione ed essere consapevoli di ciò che si è capaci di fare non è vanità. Troppe volte ho visto e ricevuto persone al dojo che non erano più consapevoli delle loro reali capacità e allora ne hanno inventate di fittizie per sopravvivere in un mondo dove solo i più forti sembrano avere il sopravvento. Rovinate, aspettano ordini o almeno esempi da poter imitare per diventare ciò che non saranno mai nella realtà, ma per reclamarlo davanti a chi è più debole di loro.

Un umile dojo

È in uno di quei vecchi quartieri di Parigi che ha mantenuto un’atmosfera calma e al contempo popolare che, da parigino all’antica, ho la fortuna di insegnare ogni mattina.Situato come in una nicchia al primo piano di un edificio che un tempo era industriale, il dojo Tenshin si trova nel ventesimo arrondissement di Parigi. Ci si accede dopo aver attraversato una porta che da un lato si apre su un piccolo vicolo cieco, e dall’altra parte su un giardinetto che bisogna attraversare prima di salire le scale. Nessuna insegna luminosa appariscente, niente grandi foto che vantano le virtù del luogo e propongono fitness e/o cultura fisica e marziale. Adiacente alla vecchia petite ceinture (ferrovia in disuso che circondava Parigi), vicinissimo a uno di quei ponti ferroviari che non esistono quasi più, ha il fascino dei luoghi nascosti che ci piace scoprire durante una passeggiata in città in un giorno di sciopero o di vacanza quando la città è svuotata. Quando si entra nel dojo tutto cambia; anche se le finestre dell’angolo caffè si affacciano sul giardino, anche se appena le si apre risuonano i canti degli uccelli, lo spazio dei tatami si presenta come un bozzolo di oltre 200 mq, illuminato sia dal cielo sia da ventagli luminosi posti a soffitto. Frutto del lavoro dei praticanti che ne hanno assicurato la ristrutturazione oltre che la manutenzione quotidiana, il dojo per noi ha un fiero aspetto. In questo luogo di lavoro del corpo e sul corpo, nella dolcezza e nella concentrazione come nella resistenza e nella tenacia, ogni persona che partecipa alle sedute di Aikido o Katsugen Undo1 si sente fiera di esserci, senza alcuna presunzione, ma con il piacere di vivere ciò che il mondo del quotidiano ha reso difficile o addirittura impossibile per alcuni. Tutto è da riconquistare e se il desiderio c’è, il luogo vi si presta. Se il dojo si presenta così umilmente (è il suo lato Ura) è anche per permettere l’incontro con persone semplici e coraggiose che sapranno scoprirne l’interesse (il suo lato Omote) al di là delle apparenze.

O sensei Ueshiba, che postura magnifica!

Umiltà e postura

Preservare l’umiltà per permettere di ritrovare la fierezza di essere ciò che si è realmente non manca di interesse e spesso si presenta come una necessità di fronte a ego smisurati e di costruzione recente, spesso dovuti all’educazione dei figli di una parte privilegiata della società. Di solito le persone umili sono rappresentate curve, piegate in due, a testa bassa, questo in realtà è solo un segno di sottomissione o di rinuncia. La respirazione in questo caso è bloccata o sibilante e tutto il corpo tenderà ad andare verso l’inganno se non vi è già. Umiltà e umiliazione sono due cose diverse, non si diventa umili attraverso l’umiliazione, la reazione più sana sarà la ribellione, poi ci drizzeremo per mostrare le nostre capacità, anche nelle avversità. Quando il corpo è dritto, lo scheletro è in equilibrio e non più schiacciato dal peso delle carni, ciò che lo circonda lo mantiene in questa postura, animato da questa energia vitale che è difficile definire ma che conosciamo e riconosciamo. Ricordo ancora oggi la postura di Tsuda sensei che esce dal dojo dopo la seduta mattutina con la sua borsa per fare un po’ di spesa prima di tornare a casa. A chi non lo conosceva sembrava un uomo ordinario, un asiatico che sceglieva la frutta in rue Saint Denis o comprava un giornale, per chi sapeva “vedere” emanava da lui una presenza, un modo di muoversi, diverso da tutti quelli che lo circondavano. Con la schiena dritta e la testa allineata, si poteva dire che avesse un portamento fiero; anche senza sapere nulla della postura si poteva sentire la sua forza interiore, la sua “aura”.

Tsuda Itsuo sensei. Il corpo si raddrizza e si distingue in mezzo alla folla.

Uno

Tutti i maestri che sono stati allievi di Morihei Ueshiba, sotto la cui direzione ho avuto la possibilità di imparare e di allenarmi, come Noro sensei, Nocquet sensei, Tamura sensei, avevano un’idea molto alta di ciò che era stato loro trasmesso e si sentivano investiti di una missione che non potevano tradire. Proprio come altri come Sugano sensei, Hikitsuchi sensei, Kobayashi sensei o Shirata sensei che ho incontrato durante gli stage, tutti avevano una grande semplicità, un grande rigore ed erano fieri di trasmettere la nostra arte con l’umiltà che si addiceva a ciascuno di loro, sapendo chiaramente essere “fieri e umili” allo stesso tempo.Ovviamente Tsuda sensei, che è stato il mio maestro per dieci anni, faceva parte di questa tradizione e sapeva benissimo come metterci al nostro posto quando occorreva, spesso usando l’umorismo o la derisione perché aveva l’arte di guidarci senza sminuirci, ma piuttosto valorizzando le nostre qualità senza mai lasciarcene inorgoglire.Ecco un testo di Haruchika Noguchi2 tradotto da Tsuda sensei, che a prima vista e per chi non conosce l’autore può sembrare estremamente presuntuoso, ma può anche darci una piccola idea della visione di un maestro riconosciuto come il più prestigioso nella sua arte.«Riflessione sulla vita integraleIo sono.Io sono il Centro dell’Universo.In me risiede la Vita.La Vita non ha né inizio né fine.Attraverso me, si estende all’infinito, attraverso me, si collega all’eternità.Come la Vita è assoluta e infinita, anch’io sono assoluto e infinito.Se io mi muovo, l’Universo si muove. Se l’Universo si muove, io mi muovo. “Io” e l’Universo siamo Uno indivisibile, un corpo e un pensiero.Io sono libero e senza barriere. Sono distaccato dalla vita e dalla morte. È così, ben inteso, anche per la vecchiaia e la malattia. Io, ora, realizzo la Vita e dimoro nella quiete infinita ed eterna.La mia condotta nella vita quotidiana rimane imperturbabile e inalterabile. Questa convinzione è incorruttibile ed eternamente inattaccabile.Uhm! Va tutto bene.» (Traduzione di Itsuo Tsuda, Uno, Yume Editions)Tsuda Sensei aggiunge nel suo libro alcune osservazioni: “Questo pensiero forse non ha bisogno di commenti, per quelli che ne sentono direttamente l’impatto. Eppure mi rendo conto dell’enorme distanza che separa questo pensiero dal pensiero occidentale che sottende la struttura mentale dei civilizzati […]Io, sono. Questa affermazione è semplice, profonda e sublime.A differenza di Cartesio, Noguchi non ha bisogno di provare la sua affermazione. Non si trova in una posizione di “distanza”, ma è “dentro” rispetto alla propria affermazione. Questa ci può imbarazzare per la sua stessa semplicità […] Ma nessuno osa dire: “Io sono”, punto.Io sono il Centro dell’Universo. Dal punto di vista occidentale, non può essere che la parola di un pazzo. Noguchi è un megalomane, un fanatico che si crede Dio? […] Tuttavia, ciò che dice deriva da una banalissima constatazione: io sono l’unico a sentire il valore diretto della mia esperienza. Da questo punto di vista, chiunque può riconoscere di essere egli stesso il Centro dell’Universo. A ciascuno il suo universo.Universo mentale? Universo soggettivo? Quanti Universi ci sono nell’Universo?» (Itsuo Tsuda, Uno, Yume Editions, 2020)

Calligrafia di Itsuo Tsuda. La vita. “Io sono. Io sono il Centro dell’Universo. In me risiede la Vita.”

Avere un bel portamento

Guardiamo la postura di O sensei quando cammina o quando innaffia i fiori: che postura magnifica! Allo stesso modo, rimango senza parole quando guardo come si muove Shimada Teruko sensei, esperta di Jikkishin-kage-ryu.

Shimada Teruko senseï.
Uomini o donne senza distinzione mostrano una certa nobiltà nella presenza davanti agli altri, così come semplicità e modestia nella loro intimità. Fino a non molto tempo fa si valorizzava la prestanza, che se non veniva evidenziata per nascondere difetti, debolezze o anche mediocrità o addirittura falsità, doveva riflettere l’interiorità, l'”anima” della persona. Molti valori sono ormai intesi come negativi o assurdi, si parla di arroganza, orgoglio, stupidità, infantilismo, ecc., dove il mio modo di intendere il mondo vedeva audacia, cortesia, intelligenza o brio, come ad esempio nel monologo del “no grazie” tratto dalla commedia di Edmond Rostand “Cyrano de Bergerac”.Le arti marziali e più in particolare l’Aikido ci riportano a noi stessi, indipendentemente dall’educazione che abbiamo ricevuto, è la possibilità di ricentrarsi e allo stesso tempo di misurare la nostra indipendenza come pure la nostra dipendenza da tutto ciò che ci circonda. È l’occasione, grazie al contatto con gli altri, di ritrovare le nostre radici vive, seppur invisibili, ma non immateriali, o anzi di una materialità non ancora riconosciuta come misurabile. Con la pratica regolare, il corpo si raddrizza e, senza essere eccezionale, si distinguerà in mezzo alla folla come un elemento carico e degno di interesse.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 14 nel mese di luglio del 2023.Note:1) Katsugen Undo (in italiano Movimento Rigeneratore): pratica che permette la normalizzazione del corpo grazie all’attivazione del sistema motorio extrapiramidale (sistema involontario).2) Haruchika Noguchi (1911-1976), fondatore del Seitai, di cui I. Tsuda seguì l’insegnamento per più di vent’anni.

Rendere l’impossibile possibile

Intervista a Régis SoaviPerché ha iniziato l’Aikido?Ho iniziato Judo-jujitsu, come si chiamava a quel tempo, nel 1962 e il nostro insegnante ce lo presentò come “la via della cedevolezza”, l’uso della forza dell’avversario. Avevo quasi dodici anni e amavo le tecniche, il disequilibrio, le cadute che potevano essere anche un superamento della tecnica subita. Il nostro istruttore ci parlava di hara, postura e sapevamo che lui stesso stava imparando l’Aikido e che aveva il grado di “gonna nera”, che era molto impressionante per noi. Gli eventi del ’68 mi hanno orientato verso delle tecniche di combattimento di strada, di kobudo e verso delle diverse tattiche. Tuttavia nel 1972 ho voluto riprendere il Judo, e mi sono iscritto in rue de la Montagne-Sainte-Genviève presso Plée sensei, potevamo praticare Judo, Karate o Aikido al prezzo di una singola quota, era ideale per allenarsi. Ma il Judo era cambiato: le categorie di peso, l’allenamento di una tecnica specifica per vincere un combattimento, ero molto deluso. Una sera dopo la seduta sono rimasto a guardare l’Aikido, era Maroteaux sensei a condurre la seduta e sono stato immediatamente conquistato.

Régis Soavi agli esordi, nel Judo, 1964
Régis Soavi agli esordi, nel Judo, 1964
Perché continuare?Ho trovato nell’Aikido molto più di un’arte, una “Via” di grande ricchezza che, come qualsiasi via, ha bisogno solo di essere approfondita. Ogni giorno la seduta mi permette di scoprire un aspetto, di sentire che si può andare molto oltre, che sono solo sul bordo di qualcosa di più grande, come se un oceano si presentasse davanti a me. Al di là del piacere che provo, mi sembra importante testimoniarne l’esistenza.Quale aspetto ti parla di più: marziale, mistico, salute, spiritualità?Non c’è separazione per me tra tutte queste cose, sono interdipendenti.Perché crea dei dojo piuttosto che praticare in delle palestre?Capisco la sua domanda, sarebbe molto più facile utilizzare le strutture esistenti, niente da fare, nemmeno la pulizia, la direzione si farebbe carico di tutto. Avremmo la possibilità di brontolare se non è abbastanza pulito, di reclamare se qualcosa non va, tanto saremmo solo dei passanti temporanei. Ed invece, per me il dojo è di cruciale importanza. In primo luogo perché è un luogo dedicato e quindi permette un’atmosfera diversa, liberata dai vincoli delle amministrazioni, un luogo dove ci si sente a casa, dove si ha la libertà di organizzarsi come si vuole, dove si è responsabili di tutto ciò che accade. È grazie a questa messa in situazione che si può capire cos’è un dojo, e questo fa la differenza, permette una pratica che va oltre l’allenamento e porta gli individui verso l’autonomia, la responsabilità. Ma il motivo principale è che il luogo si carica dal punto di vista del KI, così come un’antica dimora, un teatro antico o certi templi. Questo caricarsi [di KI] ci permette di sentire che un altro mondo è possibile, anche all’interno di quello in cui evolviamo.
Régis Soavi che conduce una seduta nel suo dojo
Lei ha creato diversi dojo ma anche altri luoghi già a partire dagli anni ’80. Il Jardin Floréal, un luogo per i bambini, poi diversi atelier di pittura, così come una scuola di musica La Musique Buissonnière. Perché tutti questi luoghi? Cos’hanno in comune?Il mio desiderio è sempre stato quello di favorire la libertà dei corpi come delle menti, allo scopo che siano finalmente riuniti. Questo lavoro, per essere realizzato, esige una visione molto ampia senza alcuna ideologia, al di fuori dei sistemi che abbrutiscono, al di fuori della competizione, sempre alla ricerca da una parte della sensibilità, che sembra essere diventata una malattia o una tara nella nostra società, e dall’altra, e tra le altre cose, della spontaneità. Creare un giardino d’infanzia per permettere di dare delle basi di un’educazione nella libertà che favorisca in questo modo la non-scolarizzazione, degli “atelier di pittura-espressione”(1) secondo lo spirito del lavoro d’Arno Stern che sono delle bolle, che liberano l’essere umano dalla sclerosi nevrotica che lo circonda, dare la possibilità ad adulti e bambini di appassionarsi alla musica, in particolare quella classica, grazie ad una notazione musicale “la musique en clair”(2) che permette di suonare fin da subito e di scoprire il piacere di suonare senza subire l’irrigidimento della mente e del corpo organizzato dagli specialisti del solfeggio e dell’insegnamento musicale in generale. Tutto ciò sempre al servizio dell’essere umano, della possibilità di uno sviluppo armonioso dei corpi e delle menti.Lei si sceglie un ruolo da non-maestro, non è vero? In realtà lei è il sensei, colui che indica il cammino, colui che si assume la responsabilità dell’insegnamento, ma allo stesso tempo è un membro ordinario dell’associazione, che partecipa alla ricerca delle soluzioni per qualsiasi problema si presenti quotidianamente e si preoccupa tanto del riscaldamento quanto di una perdita o dei lavori di manutenzione.Vedo che ha capito molto bene la mia posizione. Questo modo di porsi è una necessità per me, è fuori questione che io mi perda, ingannato da un potere fittizio che avrei acquisito approfittando di sotterfugi e di false apparenze ma che lusingherebbe il mio ego. La mia ricerca in questa direzione deriva dal Non-Fare e riguarda tutti gli aspetti della mia vita, è antica, lunga e rischiosa allo stesso tempo perché “senza riferimenti fissi” come scriveva Tsuda sensei. Questo orientamento è uno strumento, un utensile indispensabile per permettere ai membri delle associazioni di camminare verso la propria libertà, la propria autonomia attraverso l’attività nel dojo. Per riassumere il mio pensiero, vorrei citare un filosofo del XIX secolo che apprezzo da molto tempo e la cui importanza mi è sempre sembrata sottovalutata nella nostra società. “Nessun individuo può riconoscere la propria umanità, né di conseguenza realizzarla nella vita, se non riconoscendola negli altri e cooperando alla sua realizzazione per gli altri. Nessun uomo può emanciparsi se non emancipa con lui tutti gli uomini che lo circondano. La mia libertà è la libertà di tutti, poiché io non sono realmente libero, libero non solo nelle idee ma nei fatti, se non quando la mia libertà e il mio diritto trovano la loro conferma e la loro sanzione nella libertà e nel diritto di tutti gli uomini, miei eguali”.(3)Com’era Itsuo Tsuda e cosa l’ha colpita di lui?Era un uomo di grande semplicità e allo stesso tempo di grande finezza. Il fatto che parlasse così perfettamente il francese, che lo scrivesse, ci permetteva una comunicazione che non potevo trovare altrove con un maestro giapponese. Era anche un intellettuale nel senso migliore del termine, la sua conoscenza dell’Oriente e dell’Occidente gli ha permesso di trasmettere un certo tipo di messaggio, che rimane ancora oggi senza eguali, in relazione al corpo e alla libertà di pensiero, in particolare nei suoi libri. Aveva incontrato Ueshiba Morihei nel 1955 come traduttore di Nocquet sensei e cominciò a praticare nel 1959, quando aveva già quarantacinque anni. Fu suo allievo per dieci anni, ma poiché era già praticante di Seitai e traduceva per gli stranieri francesi e americani le parole di O sensei, ha potuto cogliere la profondità delle sue parole e l’importanza della postura, dello spirito e soprattutto del respiro (del Ki) nella prima parte dell’Aikido, cosa che oggi sembra dimenticata – con mia grande tristezza.
Itsuo Tsuda con Régis Soavi nel 1980, Parigi
Come trovare l’equilibrio tra insegnamento e pratica personale?Direi semplicemente che io pratico Aikido da cinquant’anni, ogni mattina alle 6:45 per un’ora e mezza e 365 giorni all’anno. Naturalmente, pratico anche il Katsugen undo (che Tsuda sensei aveva tradotto con Movimento rigeneratore), anche in questo caso – potrei dire – tutti i giorni, se non altro, almeno attraverso il bagno caldo Seitai(4). Per quanto riguarda l’insegnamento, ho più o meno uno stage al mese, che sia a Parigi, a Tolosa, a Milano o a Roma.C’è stata evoluzione nella sua pratica o nel suo insegnamento?Certo che sì! Come potrebbe essere altrimenti? Se ci si esercita sinceramente la pratica si estende a tutti gli aspetti della nostra vita, faccio fatica a capire le persone che hanno abbandonato o vanno a cercare altre arti perché trovano l’Aikido ripetitivo. La vita quando è vissuta pienamente è ripetitiva? Ogni istante della mia pratica provoca dei cambiamenti, delle evoluzioni, e anche degli sconvolgimenti che mi hanno portato a rimettere in discussione, ad approfondire. Questo è ciò che provoca in me la gioia nella mia pratica dell’Aikido. Anche i momenti più difficili, e forse più di altri, sono stati i vettori di trasformazioni e di arricchimenti.Il suo maestro, ItsuoTsuda, una volta le ha dato un koan, vero?Sì, ma faccio fatica a raccontare le circostanze esatte. Devo prima spiegarvi che Tsuda sensei sapeva parlare al subconscio delle persone, ogni volta che lo faceva era un modo per dare loro una mano ma non ne parlava quasi mai. Diceva che Noguchi sensei lo faceva correntemente perché fa parte delle tecniche Seitai. Un giorno, in seguito ad una discussione, mi disse «Coraggio», frase tutto sommato abbastanza banale, ma il tono che usò dicendolo evidentemente all'”intermissione respiratoria” mi sconvolse e mi fece reagire, dandomi una forza interiore che non sospettavo. Un’altra volta è stata più importante perché è stato in quel momento che mi ha dato il koan. Mentre gli raccontavo le difficoltà rispetto al lavoro (come guadagnare di che vivere per me e la mia famiglia, ecc.) e come trovare il modo per continuare a praticare, e persino aprire un dojo perché sarei andato via da Parigi per qualche anno e sarei stato a 800 km, cominciò a spiegarmi che nella scuola di Zen Rinzai (avevo appena letto le interviste di LinTsi e lui lo sapeva) il maestro dà agli allievi dei koan che loro devono risolvere. All’improvviso mi ha detto «Impossibile» «Questo è per lei!» Poi se n’è andato rapidamente, lasciandomi inchiodato sul posto, sconcertato, completamente sbalordito. Devo dire che all’inizio l’ho trovato assurdo, ridicolo, mi aveva già dato qualche tempo prima una direzione per la mia pratica scegliendo in modo preciso la calligrafia MU(5) come regalo da parte dei miei allievi parigini. Ma ora, ero scioccato, non capivo. Mu mi sembrava un vero koan, già conosciuto, catalogato, accettabile, ma “impossibile” non aveva senso. Perché dire questo a me? È nel corso degli anni che la “risposta” è apparsa come evidente.Che posto occupa il Katsugen Undo nella sua pratica?Oh! Ha un’importanza di primo piano, ma, per rispondervi, ecco un aneddoto. Eravamo al ristorante con Tsuda sensei, e Noguchi Hirochika – il primo figlio di Noguchi sensei – che era seduto accanto a me mi chiese improvvisamente: «Katsugen undo, che cos’è per lei?» La risposta fu tanto immediata quanto spontanea: «È il minimo», risposi, e da allora non ho cambiato opinione. Questa risposta era piaciuta molto a Tsuda sensei ed egli la utilizzò in alcune delle sue conferenze durante gli stage. Il “minimo” per mantenere l’equilibrio, per permettere al nostro sistema involontario di funzionare correttamente così da non aver più bisogno di preoccuparci della salute, e da non aver più paura della malattia.
Hirochika Noguchi con Régis Soavi, Parigi 1981
Per lei, un Aikido senza Katsugen undo ha senso?Sì, certo, nonostante tutto, dipende da come si pratica. È semplicemente un peccato non approfittare di ciò che può renderci indipendenti, di ciò che può risvegliare la nostra intuizione, la nostra attenzione, la nostra capacità di concentrazione e liberare la nostra mente.Da molti anni lei contribuisce a Dragon Magazine. Questo cosa vi apporta?Questo mi permette di trasmettere un messaggio e allo stesso tempo mi costringe a renderlo il più chiaro possibile rispetto all’insegnamento del mio maestro Tsuda sensei, e quindi alla nostra Scuola. È anche un modo per uscire dall’ombra pur rimanendo nella semplicità, senza fare pubblicità o clamore. Leggere regolarmente gli articoli dei miei contemporanei e dei giovani insegnanti, mi dà molto e mi permette di vedere e comprendere le diverse direzioni in cui va l’Aikido e le loro ragioni d’essere, anche quando non le approvo.La scrittura è importante nel Budo?La scrittura è sempre importante perché è una delle basi della comunicazione – “le parole volano via ma gli scritti rimangono”. Tuttavia, senza una pratica reale, questo rischia di rimanere nel campo delle idee e di soddisfare solo l’intelletto, in questo caso si manca il bersaglio.Ci sono stati anche altri maestri che sono stati importanti per lei?Ho la fortuna di appartenere a un’epoca in cui era possibile incontrare un gran numero di sensei della prima generazione. Gli anni ’70 erano molto ricchi da questo punto di vista, correvamo di stage in stage per formarci, prestando attenzione alle loro parole, alle loro posture, per trarre il meglio da ciò che ognuno di loro apportava. Tutta la mia riconoscenza va dunque a tutti coloro che mi hanno insegnato, il mio maestro Itsuo Tsuda senseï, Masamichi Noro sensei, Nobuyoshi Tamura sensei, André Nocquet sensei, come pure a coloro che ho avuto occasione di incontrare. Preferisco citarli in ordine alfabetico per non suggerire nulla rispetto all’importanza che hanno avuto nella mia pratica: Michio Hikitsuchi sensei, Hirokazu Kobayashi sensei, Rinjiro Shirata sensei, Seiichi Sugano sensei, Kisshomaru Ueshiba sensei, cosí come – sebbene io non abbia mai praticato il Karaté – Taiji Kasé sensei, o Hiroo Mochizuki sensei che ho incontrato grazie a Tsuda sensei e che mi hanno colpito. Non dimentico Maroteau Rolland sensei che fu il mio primo insegnante di Aikido e che mi ha permesso di incontrare colui che fu il mio principale mentore: Itsuo Tsuda sensei.1) Un luogo chiamato oggi “atelier del gioco del dipingere”.2) La pedagogia del Maestro Jacques Grey (1929-2019), pianista.3) Mikhail Bakunin, filosofo anarchico, 1814-1876.4) Rivista Yashima, N°13, ottobre 2021.5) “Nulla” o “non-esistenza”, termine usato nel Taoismo per esprimere la vacuità.

Le cose esteriori non hanno nulla di certo né di necessario

Di Manon SoaviMax Stirner scriveva nel 1844: “Ci sono erranti dello spirito, che, soffocando sotto il tetto che ospitava i loro padri, se ne vanno a cercare lontano più aria e più spazio. Invece di restare in un angolo del focolare familiare a smuovere le ceneri di un’opinione moderata, invece di prendere come verità indiscutibili ciò che ha consolato e placato tante generazioni prima di loro, attraversano la barriera che racchiude il campo paterno e si avviano, per le ardite vie della critica, dove li conduce la loro indomita curiosità di dubitare..” (Max Stirner, L’unico e la sua proprietà)Itsuo Tsuda sensei è noto per i suoi dieci libri, a volte anche per le sue calligrafie permeate di filosofia tch’an (Zen in giapponese) o per aver introdotto il Seitai in Europa. La sua scuola di pensiero “La scuola della respirazione”, anche se relativamente modesta, ha segnato in modo duraturo le migliaia di persone che sono passate nei dojo o che hanno letto i suoi libri. Eppure non bisogna immaginarsi che il suo cammino sia stato un lungo fiume tranquillo fino alla saggezza. Al contrario, è stato il rifiuto delle certezze del passato a spingerlo verso un’altra strada. Tsuda sensei era certamente un “vagabondo dello spirito” che soffocava sotto il tetto paterno, come dice Stirner. Nel 1914, quando è nato, suo padre era un grande industriale giapponese che aveva fatto fortuna e si era trasferito in Corea, allora sotto il dominio giapponese. Non è possibile sapere esattamente cosa ha motivato la rivolta di Itsuo Tsuda contro suo padre e la sua partenza a sedici anni. Tuttavia, sappiamo che c’entra il modo di agire del padre dopo la morte della madre e della sorella maggiore. C’è qualcosa di inaccettabile per il giovane Itsuo Tsuda, ma suo padre si aspetta che si rassegni, che sopporti e taccia. A questa sofferenza si aggiunge l’incontro con una ragazza coreana (che alla fine sposerà, quattordici anni dopo, quando la ritroverà durante la seconda guerra mondiale). Questa ragazza, di cui si innamora, gli permette di avvicinarsi ad alcune delle immense sofferenze del popolo coreano allora dominato dal Giappone con grande violenza di Stato.A sedici anni, in totale rottura con il padre, rifiuta il diritto di primogenitura e parte, solo, senza alcuna certezza, salvo quella che gli sarebbe stato insopportabile continuare sulla strada che era tracciata per lui. Così per quattro anni vagabonderà, in senso letterale, in Cina e in Manciuria, trascorrendo due anni a Shanghai. Trova una città allora straordinariamente cosmopolita, con da un lato le concessioni francesi e britanniche e dall’altro una fortissima presenza dei movimenti anarchici coreani, giapponesi e cinesi.Bisogna credere che Itsuo Tsuda non amasse le certezze perché a vent’anni parte questa volta per Parigi, conoscendo solo qualche parola di francese, alla ricerca della libertà di pensiero. Quando arrivò nel 1934, piombò nel bel mezzo dei movimenti del Fronte Popolare, degli scioperi e delle manifestazioni di massa dell’epoca. Un movimento di una forza che ci è difficile immaginare oggi e che la guerra schiaccerà, falciando la gioventù operaia rivoluzionaria dell’epoca. A poco a poco, Itsuo Tsuda si integra e inizia a studiare alla Sorbona con Marcel Mauss e Marcel Granet. È in contatto con gli ambienti intellettuali di Montparnasse, e credo di poter affermare che stesse progettando di restare a Parigi, almeno per un bel po’. Ma nel 1940 il mondo sprofonda nella guerra e viene richiamato dal Giappone. Con grande pena deve imbarcarsi per un paese che, in fondo, non conosce. Ciò che lo attende in Giappone è il caos della guerra, il nazionalismo e l’incertezza totale del domani. Forse le situazioni estreme mostrano chi crolla e chi ha la resistenza di continuare il proprio cammino. Tsuda sensei aveva certezze? Non so, ma il fatto è che continua la sua strada nonostante la guerra. I suoi interessi per la sinologia e per l’etnologia non si smentiscono, al contrario, pubblica traduzioni e articoli. Dopo la guerra, la sua vita sembra “stabilizzarsi”, sposato e salariato (lavora ad Air France come interprete) eppure continua ad approfondire instancabilmente. L’incontro con il N?, poi con il Seitai e il suo fondatore Haruchika Noguchi (con il quale studierà per vent’anni), e infine con O sensei Ueshiba e l’Aikido saranno gli strumenti decisivi dell’articolazione della sua filosofia: il Non-fare e la nozione di Ki.

Les choses extérieurs n’ont rien de certain ni de nécessaire. calligraphie d’Itsuo Tsuda.

Coltivare l’incertezza

Si potrebbe credere che, arrivato a quel punto, per lui tutto diventi chiaro, come spesso accade nelle persone di una certa età dopo una giovinezza tumultuosa. Ma non è così, è a cinquantasei anni che ritorna in Francia senza garanzie né promesse, come scriverà lui stesso. Vivendo di nuovo miseramente, in una stanza della servitù vicino alla Gare du Nord a Parigi, si mette a scrivere, direttamente in francese. Comincia anche ad insegnare l’Aikido e a diffondere il Katsugen undo (la ginnastica dell’involontario del Seitai). A sessantotto anni, nel suo ottavo libro, scrive: “Dal punto di vista comune, sono un uomo imprudente. Non prendo precauzioni contro microbi, virus, inquinamento, malattie. Non sono né protetto né armato contro i pericoli. Faccio ciò che voglio fare, senza disturbare nessuno.Non spetta a me imporre le mie idee, dicendo: “Non fate quello che faccio io, ma fate quello che vi dico”. Tale formula spetta ai grandi, ai potenti, ma non a me. La mia formula è: “Vivo, vado, faccio.”Non è per conformarmi a uno scopo morale, sociale o politico che faccio qualcosa. Faccio quello che sento dentro di me, quello che posso fare senza rimpianti. Io non cerco l’utopia all’esterno. Cerco la soddisfazione interiore, incondizionata. È nella respirazione calma e profonda che trovo la mia vera soddisfazione. Questo, nonostante le numerose contrarietà della vita moderna. Ho superato e supererò le difficoltà, finché dura la vita. È così che trovo il piacere di vivere. » (Itsuo Tsuda, La Voie des dieux, Le Courrier du Livre)Itsuo Tsuda ci ha lasciato anche insegnamenti preziosi attraverso le sue calligrafie. Su questa questione dell’incertezza, troviamo questa frase di Chuang-tzu che egli calligrafò: “Le cose esteriori non hanno niente di certo né di necessario” (1). Le cose esteriori vanno e vengono, buone o cattive, nulla è prevedibile e nulla è in sé un bene o un male. Tuttavia, integrare realmente questo dato dell’incertezza delle cose esterne è difficile, lo abbiamo potuto constatare in prima persona con i due anni di crisi che abbiamo appena vissuto. Mesi di instabilità e di crisi che, senza essere l’equivalente di una guerra, ci hanno logorato, stancato. Abbiamo potuto misurare, al nostro livello, la difficoltà di andare avanti e gli effetti non hanno smesso di farsi sentire.

La forza interiore

Il difetto dell’educazione occidentale è che tende a farci prendere in considerazione solo l’aspetto volontario dell’individuo. Allora, per compensare la propria debolezza, l’essere umano mostra le sue certezze all’esterno pur rimanendo molto incerto di se stesso all’interno.L’insegnamento di Tsuda sensei riorienta la nostra attenzione verso le capacità insospettate del nostro involontario. Ascoltare i nostri bisogni interiori che si esprimono e ci danno le direzioni da seguire per noi stessi e mantenere l’imprevedibilità, la disponibilità verso l’esterno poiché nulla è certo né necessario. Significa fidarsi delle capacità di adattamento umano.Non essendo mai andata a scuola, ho avuto a che fare con una sfilza di persone che proiettavano le proprie preoccupazioni sulle nostre scelte e che avevano la certezza che i miei genitori stavano sprecando le mie possibilità per il futuro. Tuttavia, una cosa è certa: il futuro è sempre incerto (a volte addirittura assente). Ho quindi vissuto un’infanzia del momento presente piuttosto che dettata da un futuro inesistente. Nella gioia e nella fiducia di fare le cose per loro stesse, nel momento in cui manifestavo un interesse. I miei genitori hanno avuto momenti di dubbio, ovviamente, ma erano convinti che vivere come i loro progenitori fosse semplicemente non vivere, ma morire lentamente. Hanno preferito fare la scelta dell’incertezza prendendo una strada divergente. Perché la certezza interiore che la cosa più importante fosse vivere ora non li ha lasciati. Non andare a scuola era questa possibilità inaudita di apprendere a contare sulle proprie risorse per affrontare le inevitabili difficoltà dell’esistenza.Praticare un’arte come l’Aikido è, almeno sui tatami, dover contare su questa spontaneità perché qualunque sia l’apprendimento tecnico non è possibile prevedere tutto. I corpi sono spesso più o meno paralizzati dall’interno e l’attività del corpo è bloccata (attività del corpo intesa secondo J. F. Billeter: “insieme delle energie e dell’attività inconscia che alimentano e sostengono l’azione cosciente”) (2). Ma allora l’adattamento, l’integrazione, non avvengono più. Quindi, un’arte che rimette in movimento le risorse del corpo, che reintroduce il gioco, è davvero salutare anche se non è una terapia. La vita riprende attraverso il corpo.Ecco perché l’Aikido non deve diventare un catalogo tecnico sterile, con attacchi sempre prevedibili e risposte standard. La parte dell’incertezza deve essere mantenuta con diversi mezzi pedagogici come jyu waza o il lavoro a più attaccanti per esempio. Quando ho cominciato lo studio delle tecniche di jujitsu della Bushuden Kiraku ryu, ciò che era formativo era uscire dal quadro dell’Aikido e trovare alcune tecniche, molto vicine all’Aikido, ma in modo diverso; ciò rompeva il quadro e mi ha permesso di continuare l’Aikido con la sensazione interna delle possibilità di atemi, di kubi shime, di kaeshi waza, ecc. Senza peraltro mettere per forza questi elementi ad ogni tecnica, il semplice fatto di averli percepiti nel mio corpo mi dava un posizionamento diverso.

Manon Soavi

Creatività

L’Aikido ci porta ovviamente a sentire le situazioni in cui dobbiamo andarcene o agire prima che sia troppo tardi. È, certamente, una base. Ma questo ha più a che fare con l’intuizione e il potenziale creativo dell’individuo nel senso in cui lo esprime il ricercatore Arno Stern che con il controllo: “Creare è acquisire una libertà al di fuori della presa della società consumistica. Quando parlo di libertà, non è una parola leggera che pronuncio; è la condizione ed anche lo scopo dell’educazione che genera l’atto creatore. Creatività non significa produzione di opere. È un atteggiamento nella vita, una capacità di padroneggiare qualsiasi dato dell’esistenza.» (Arno Stern, Homo-vulcanus, Edizioni Scientifiche Ma. Gi.)Nelle arti marziali ci sono molti esempi. Perché ciò che rende efficiente un’arte non è il bagaglio tecnico, ma prima di tutto l’essere umano e la sua capacità di reazione. Ci sono naturalmente molte storie e racconti di arti marziali che lo raccontano, ma voglio finire questa riflessione con una storia che ricolloca l’Aikido in una realtà dove non c’è certezza sul risultato (l’esterno) ma è evidente la necessità di far fronte (l’interno). Viene raccontata dalla figlia di Virginia Mayhew (pioniera dell’Aikido, fondatrice del New York Aikikai e allieva diretta di O sensei):”Quando avevo sette anni, mia madre ed io ci siamo trasferite nel sud della California e abbiamo vissuto in un vecchio motel nel centro di Los Angeles. A tarda notte, mentre tornavamo nella nostra stanza, un uomo arrabbiato che brandiva una mazza ci ha bloccato la strada e ha chiesto i nostri soldi. Mia madre ha cercato di ragionare con lui e si è offerta di dividere i suoi soldi. Questo sembrava solo farlo arrabbiare di più e si avvicinò a mia madre brandendo la sua mazza in modo minaccioso su di lei. Ricordo di aver avuto paura quando mia madre si è diretta verso di lui. Non capivo ancora la nozione di irimi, quindi non aveva senso per me vederla dirigersi verso un uomo che stava per colpirla con una mazza. Lo scontro vero e proprio è durato solo pochi secondi. La mazza non è mai entrata in contatto con mia madre perché improvvisamente ne ha preso possesso e poi ha immobilizzato il polso del tipo in una leva dolorosa. Si è chinata vicino a lui e ha detto: “Non le farò del male, ma sappia che non è bene attaccare una donna, soprattutto quando sono presenti i suoi figli. Quando la lascerò andare, se ne andrà tranquillamente, ma noi terremo la mazza”. Quando finalmente ha lasciato il polso, il suo potenziale aggressore non ha potuto fuggire abbastanza velocemente.” (Shankari Patel, Irimi su feministaikidoka.blogspot.com. Trad. G. Érard.)Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Manon Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 12 nel mese di gennaio del 2023.Note:1. Régis Soavi, Sara Rossetti, Manon Soavi, Itsuo Tsuda – Calligrafie di primavera, Yume Editions, 2018, p. 364.2. Vedere il lavoro del sinologo Jean François Billeter su Chuang-tzu o il suo libro Un paradigme edizioni Allia (2012).

La via di Itsuo Tsuda – intervista a Manon Soavi

Traduzione dell’intervista di Louise Vertigo a Manon Soavi, 17 febbraio 2023 per la radio AligreFM, nel programma Respirazione per parlare del suo libro “Le maître anarchiste, Itsuo Tsuda”  per ascoltare la versione francese, clicca qui.LV: Buongiorno Manon SoaviMS: BuongiornoLV: Sono molto felice di accoglierla per la pubblicazione del suo libro “Le maître anarchiste Itsuo Tsuda, savoir vivre l’utopie” per le edizioni L’Originel. Per lei, la pratica dell’energia, dell’arte marziale, porta a qualcosa di più, poiché avvia una riflessione, un posizionamento sul funzionamento della società stessa. Questo è ciò che scopriremo durante la trasmissione. Per prima cosa, le chiedo di presentarsi.MS: Prima di tutto grazie per avermi ospitato qui oggi. In effetti dico spesso che sono come Obelix, sono caduta nella marmitta quando ero piccola, poiché è un percorso che i miei genitori hanno iniziato prima che io nascessi. È iniziato con le rivolte del maggio ’68, la messa in discussione dei sistemi degli anni 70. Poi il loro incontro con Itsuo Tsuda permetterà loro di attuare davvero, di vivere nel loro corpo, nella loro sensibilità, un altro modo di considerare il mondo, di considerare la vita e i rapporti umani. È un punto di svolta per attuare tutte quelle idee, tutto quel fermento che c’era in quegli anni: gli anarchici, i situazionisti, tutti quei pensatori che hanno messo in discussione il mondo moderno. E queste idee che li hanno nutriti hanno trovato in Itsuo Tsuda un’eco molto forte. Quest’incontro ha cambiato il loro modo di vivere, il loro modo di essere, progressivamente, è un percorso. Quando sono nata io, e poi mia sorella, tre anni dopo, c’è qualcosa che ovviamente è continuato, nel rapporto con i bambini, nel ritmo della vita. Cioè loro non avrebbero mai preso in considerazione di far tutto quel percorso di liberazione per uscire da quei sistemi di dominio e lasciare le loro figlie ricominciare da zero. È per questo che, molto naturalmente ne è derivato che né io né mia sorella siamo mai andate a scuola. Questo è fondamentale. Perché il fatto di non essere andate a scuola ci ha permesso una vita molto diversa, una sorta di continuum tra l’infanzia, l’adolescenza, la vita adulta, ci ha permesso di non avere queste separazioni, queste caselle, queste categorie bambino | uomo | donna | lavoro | svago: tutto era intrecciato. E la filosofia di Itsuo Tsuda, la filosofia del Non-Fare, l’importanza del corpo, del subconscio, tutto ciò era presente, onnipresente nella nostra vita quotidiana.

Manon Soavi en entretien sur Aligre FM
Manon Soavi
LV: Molto bene, sì, lo approfondiremo. Lei è la figlia del Sensei Régis Soavi. Suo padre è stato allievo di Itsuo Tsuda per dieci anni. Insegna Aikido da oltre quarant’anni…MS: Anche cinquanta, adesso.LV: Ah sì, va bene! E potrebbe… Quindi immagino che sia stato Itsuo Tsuda a portarlo a questo livello.MS: Mio padre ha iniziato a fare judo quando era giovane, a 12 anni, in questo ha fatto un percorso. Poi ha iniziato l’aikido, ha praticato con diversi maestri di aikido, il maestro Noro, il maestro Tamura. Ha fatto un percorso rispetto all’aikido… e un giorno (nel 1973) ha incontrato Itsuo Tsuda. E Itsuo Tsuda è stato in effetti qualcuno che ha completamente riorientato la sua pratica dell’aikido, e anche la scoperta del Katsugen Undo, che si traduce come Movimento Rigeneratore, è una dimensione che ha cambiato, attraverso la sua scoperta, anche la natura del suo aikido. Itsuo Tsuda è diventato il suo maestro, quello che ha seguito per dieci anni, fino alla sua morte. Poco prima della morte di Itsuo Tsuda, nel 1983, Régis Soavi ha deciso di andare a Tolosa e di aprire il proprio dojo con l’accordo di Itsuo Tsuda che lo ha, in quel momento, incoraggiato a continuare il suo cammino. E da allora continua effettivamente ad insegnare tutte le mattine, da 50 anni. Tutte le mattine l’aikido, e ad iniziare persone al Katsugen Undo.LV: Molto bene sì. Ho avuto la fortuna di vivere questa esperienza con lei.
Régis Soavi
LV: Dunque, ora parleremo del percorso singolare di Itsuo Tsuda. E prima parliamo di ciò che lo ha influenzato. Chi era? E forse per cominciare possiamo parlare un po’ di ciò che è l’inizio di ogni cosa nell’energia che è il Tao. Ma quindi chi era, qual è il suo percorso?MS: Itsuo Tsuda è nato nel 1914 in una famiglia giapponese che viveva in Corea. La Corea all’epoca era occupata dal Giappone. Era una società molto rigida, molto dura, militarizzata, colonialista. A 16 anni, Itsuo Tsuda rifiuterà la primogenitura. Si oppone a suo padre, abbastanza violentemente poiché se ne va. Lascia tutto a 16 anni e vagabonda, come ha detto. Attraversa la Cina. E alla fine, negli anni ’30, ha un solo desiderio: incontrare la Francia. Già in Cina secondo me è stato a contatto con il pensiero anarchico, con pubblicazioni, è qualcosa che lo ha già segnato. Ma allora in Francia quando arriva nel 1934 c’è il Fronte Popolare, è un momento in cui, a livello sociale, c’è tutto un movimento molto importante in Francia, la cui portata è stata in gran parte dimenticata oggi, e in cui il movimento anarchico era molto molto forte. Quegli anni a Parigi sono estremamente importanti per Itsuo Tsuda. Seguirà l’insegnamento di Marcel Granet e Marcel Mauss alla Sorbona in sinologia e sociologia. Sono ricercatori che lo segnano profondamente nel suo pensiero, nella sua comprensione del mondo, delle culture. Al momento della guerra è costretto a partire per il Giappone. E scopre, a 30 anni, il suo paese durante la seconda guerra mondiale. Anche questo è un grande sconvolgimento. Avrebbe desiderato restare in Francia, aveva ancora tutto un percorso da fare. Ma la vita ha deciso diversamente. Dopo la guerra s’immerge quindi nella propria cultura, che di fatto non conosce. Scoprirà il Noh e poi il Seitai, con il Maestro Haruchika Noguchi e gli ultimi dieci anni del M° Ueshiba per l’aikido. Questo percorso, con la scoperta di una cultura dove il corpo non è separato dallo spirito, dove c’è questa sensazione della vita in ogni cosa, le cose non sono materia inerte, non sono separate, tanto il corpo quanto lo spirito, la natura quanto noi stessi ? Siamo un tutto. E questa è la scoperta di un pensiero cui si era già avvicinato tramite la Cina antica, tramite Marcel Granet. E le sue ricerche sull’antropologia, che continua per tutti questi anni in Giappone – tra l’altro è il primo traduttore in giapponese di “La religione dei cinesi” di Marcel Granet, è davvero qualcosa che approfondisce. E questa scoperta del taoismo: è un grande conoscitore di Chuang Tzu. Ma il Giappone è stato chiuso per 200 anni, conservando così le tracce di una cultura molto più antica, davvero fondamentale, che continua ad esprimersi nelle arti tradizionali.L.V.: Sì. Molto interessante. Dunque, leggerò un passaggio del suo libro e poi faremo una pausa musicale, che le darà il tempo di riflettere sulla questione. A proposito del Tao, del quale si interessa:«In questa geografia iniziatica del dao [tao], c’è una soglia oscura che viene rappresentata dal fondo di una valle misteriosa.» Il Dao de jing si esprime in modo vago e poetico per parlare di questo: «Lo spirito della valle non muore. È la Femmina Oscura, [?] questa è l’origine del cielo e della terra. Indistinguibile, sembra sempre presente e in noi mai si esaurisce» Gu Meisheng spiega che questo è un modo figurato di parlare del senso attivo del vuoto, lo esplicita con queste parole: «La valle è allo stesso tempo un luogo vuoto e sensibile che riverbera i suoni. La valle è vuota, ma quando si grida, l’eco ci risponde. Tale è la natura del dao. Il dao è quindi un vuoto di estrema sensibilità.»Ascoltiamo “Dead of night”, di Orville PeckMS: Sì, in quel brano che ha letto sul Tao, il Maestro Gu Meisheng lo racconta molto bene. Solo la poesia può davvero trasmettere qualcosa che non si può esprimere a parole. Sicuramente conosce questa storia Zen in cui c’è un maestro Zen in un monastero che chiede a uno dei monaci di pulire il Giardino… Allora il monaco rastrella, rastrella, pulisce, tutto è impeccabile, va dal maestro e dice:”Ecco fatto “. Il maestro arriva, guarda e gli dice: “Ricomincia”. Allora l’allievo ricomincia, di nuovo, pulisce tutto bene, bene, impeccabile, torna dal maestro e gli dice: “Ecco fatto, maestro”. Allora il maestro viene e dice: “non va bene”, e se ne va. L’allievo comincia ad averne abbastanza. Allora questa volta lascia un mucchietto di foglie morte. Ritorna dal maestro e dice: “È fatto”. E quando il maestro arriva, guarda e non dice niente. Ebbene questo è il vuoto: il vuoto è attivo. Non si può definirlo in modo definitivo. Ma è vero che è completamente in contrasto con la nostra filosofia, con il modo in cui vediamo il mondo oggi in Occidente, che si è diffuso praticamente in tutto il mondo. Questo è esattamente ciò che Tanizaki lamentava in “Libro d’ombra1”. Abbiamo una specie di idea che tutto deve essere portato alla luce, tutto deve essere sezionato, non ci devono essere zone d’ombra, non ci deve essere ignoranza, tutto deve poter essere spiegato con la razionalità. Salvo che quando si seziona un corpo umano, un corpo animale, qualunque cosa, l’essenziale comunque non c’è più. Quindi c’è sempre questa essenza che ci sfugge. E secondo me, questo è del tutto in linea con le analisi di varie pensatrici ecofemministe, o anche Mona Chollet, che parlano di quell’aspetto inconoscibile mediante la scienza razionale, ma che si sente, che si vive, che è qualcosa che gli esseri umani conoscono, con cui hanno un legame molto forte, e le pensatrici ecofemministe cercano di decostruire la nostra comprensione del mondo per scoprire che la razionalità potrebbe non essere dalla parte che pensiamo, forse non si tratta di sezionare tutto, di affrontare tutto nel modo più razionale. Forse c’è un insieme che ci sfugge completamente, un rapporto con la Terra, un rapporto con la vita, forse effettivamente un rapporto con l’oscurità, con il corpo, con tutte quelle cose che abbiamo denigrato, allontanato, schiacciato e che bisogna rivalutare o riscoprire.L.V.: Sì. Il mistero è molto importante, è molto prezioso. E veniamo dunque ai principi delle arti marziali: coltivare la propria sensibilità, la propria attenzione. Rimanere attenti alla velocità biologica, cosa che richiede un’intensità di attenzione. Questo l’ho preso dal suo libro. Quindi stavamo parlando dell’influenza del gyo su questo maestro…MS: Sì, allora, Itsuo Tsuda trova davvero nelle pratiche del corpo, nella fattispecie il seitai e l’aikido, questa incarnazione, questa possibilità di sentire. Scopre la dimensione del ki e della respirazione. Il gyo è un termine spesso tradotto con ascetismo. Ma la differenza nella versione occidentale dell’ascetismo è che si cerca di uscire dal proprio corpo mediante delle pratiche, di non sentire più, di sottrarsi dal corpo. Mentre nel gyo, nelle pratiche ascetiche dell’Asia o anche dell’India, per lo meno alcune branche, al contrario si cerca l’unità, la riunificazione tra lo spirito e il corpo attraverso pratiche ascetiche. Sono pratiche ascetiche che hanno influenzato in particolare il M° Ueshiba che ne ha trasmessa una parte attraverso l’aikido. Si può vedere attraverso l’aikido una possibilità di ritrovare questo legame, questa totalità dell’essere.LV: Ha parlato di nuovo del seitai, il movimento rigeneratore: magari potrebbe darci dei chiarimenti su questo.MS: Il Seitai è stato messo a punto dal Maestro Haruchika Noguchi a partire dagli anni ’50. Si interessa di ciò che rende ogni individuo unico e indivisibile e della sua capacità innata di equilibrarsi per mantenere la salute. È il movimento inconscio del corpo. Nel seitai, che è, si potrebbe dire, una filosofia, una comprensione dell’essere umano, ci sono diverse tecniche, diverse pratiche e c’è in particolare il Katsugen Undo che Itsuo Tsuda traduce con Movimento Rigeneratore, ed è proprio questo l’aspetto che interessa a Itsuo Tsuda, il movimento rigeneratore. È questo aspetto del seitai che sceglie di ritrasmettere negli anni ’70 in Francia; lo interessa proprio per il suo orientamento personale, la sua filosofia, la sua ricerca di libertà tanto per se stesso quanto per gli altri, questa ricerca di libertà, di autonomia: trova nel Katsugen Undo una possibilità di riattivare da sé le risorse del proprio corpo per ritrovare l’equilibrio. Di non dipendere più da un esperto, da una pratica esterna, dal parere di un maestro o altro. È per questo che lo avvicino a ciò che Ivan Illich chiamava cose conviviali, nel senso che sono strumenti che chiunque può utilizzare, non c’è bisogno di una competenza e questo è fondamentale per Itsuo Tsuda.LV: Sì, questo mi fa pensare che nel Qi Qong si lavora con questa dimensione. Si collabora con queste dimensioni di automedicazione proprie del corpo.MS: Il Maestro Noguchi diceva che non si finiva mai con i “si deve” e “non si deve”, con le indicazioni esterne e che, dagli anni ’50, questo non ha fatto che peggiorare. Oggi si devono mangiare 5 frutti e verdure al giorno, si deve bere un litro d’acqua, si deve mangiare ma muoversi, bisogna fare sport, ma non troppo, ? abbiamo ingiunzioni esterne permanenti?LV: È vero.MS: E si dimentica il proprio bisogno biologico che dipende dal giorno, dal momento, da tante cose e che non è uguale per noi, per il mio vicino, per mio figlio, ognuno ha un bisogno diverso e l’unica bussola siamo noi stessi. E ritrovare la capacità di sentire se si ha voglia di carote o di cioccolato, se si è mangiato abbastanza oppure no, è semplicemente l’inizio dell’autonomia.LV: Assolutamente. Ed ora parliamo un po’ di Ki, che in Cina si chiama Qi, per esempio. Lei scrive “Il Ki sfugge a qualsiasi tentativo di categorizzazione” diceva Itsuo Tsuda che ha spiegato questo molte volte. Qui in Occidente il Ki è molto difficile da spiegare perché non entra nel sistema delle categorie. Lei fa questo esempio: sentirsi osservati.MS: Il ki può essere tradotto a seconda delle circostanze con intuizione, ambiente, intenzione, vitalità, respirazione, azione, movimento, spontaneità? è qualcosa di fluido che non si può effettivamente definire. Itsuo Tsuda diceva anche che “il ki muore nella forma”. Ma è qualcosa che si può sentire. È un’esperienza concreta. Faceva questo esempio: si cammina per strada e all’improvviso si sente. Ci si sente osservati, ci si gira? magari si trova chi ci osserva da dietro una tenda. Forse è solo un gatto, ma l’abbiamo sentito comunque. Si sente l’intenzione. Ovviamente nelle arti marziali lo si usa piuttosto per sentire il ki di aggressione, il pericolo. È una delle forme. Ma si può benissimo percepire il ki del pericolo per altre ragioni. Al contrario, si può sentire un ki accogliente, si può sentire un ambiente. Ci si sente bene in certi posti. E in certi posti ci si sente estremamente a disagio.LV: E anche con delle persone. Per me ci sono delle amicizie, degli amori di ki.MS: Assolutamente. Ci sono persone che emanano qualcosa.LV: Ci si sente subito in confidenza, subito bene, perché quel qi – direi piuttosto qi o ki, beh, poco importa – parla al mio.MS: Certo. Assolutamente. Il problema è il fatto che si impara fin dall’infanzia, fin dalla primissima infanzia, a non ascoltare se stessi. A non ascoltare questa intuizione, questa cosa che ci parla. Allora, purtroppo, perdendo il contatto con se stessi si dimentica un po’ questa sensazione.LV: Va bene, pensiamoci mentre ascoltiamo Hot Hot Hot di Matthew E. White.LV: Ne abbiamo parlato abbastanza velocemente, perché bisogna dire che questo libro è molto molto ricco e ve lo raccomando, parliamo ora del suo insegnamento in senso stretto. E per cominciare le chiederò cosa lui ha trovato nella pratica dell’aikido del M° Ueshiba?MS: Ha conosciuto il M° Ueshiba negli ultimi anni della sua vita, gli ultimi dieci anni. Il M° Ueshiba alla fine di una vita intera di pratica, di ricerca ha proposto un’evoluzione della sua arte. L’ha chiamata una via dell’amore. Credo che sia un potente strumento per l’evoluzione umana. C’è effettivamente il gyo, le pratiche ascetiche, i misogi e diverse cose che l’hanno alimentato nella sua ricerca. Credo che quello che ha affascinato Itsuo Tsuda sia la libertà di movimento di questo maestro. Il M° Ueshiba aveva già ottant’anni eppure aveva una libertà di movimento che Itsuo Tsuda che aveva quarant’anni, non aveva, si sentiva già rigido. Attraverso la pratica dell’aikido, la pratica quotidiana della prima parte che Itsuo Tsuda chiamava pratica respiratoria, che è una pratica individuale con vari movimenti che ravvivano, che rimettono in moto il corpo, che approfondiscono la respirazione, è qualcosa che alimenta, che alimenta la vita in noi. Quel che è piuttosto strano o curioso è che per esempio troviamo anche tra i ribelli, i rivoluzionari come “il comitato invisibile” questa frase che dice “l’esaurimento delle risorse naturali è probabilmente molto meno avanzato dell’esaurimento delle risorse soggettive, delle risorse vitali che colpisce i nostri contemporanei”. Questo esaurimento è la questione, si tratta di rivitalizzare le risorse interne, questa radice. Itsuo Tsuda diceva che era lì per proporre la possibilità di ravvivare la radice. E penso che sia quello che ha trovato anche nell’aikido. In ogni caso, è quello che ha insegnato, è quello che ha dato come orientamento. Perché ancora una volta, come per il Seitai da cui ha preso il katsugen undo, nell’aikido c’erano anche aspetti più marziali e altri, che di fatto non lo interessavano, che altri allievi del M° Ueshiba hanno sviluppato, ognuno ha fatto il suo percorso. Ma ciò che lo interessava era questo aspetto della respirazione, della circolazione del ki, questa possibilità attraverso il corpo. Questo è ciò che lo ha segnato ed è ciò che ha trasmesso nella sua scuola.
A destra Itsuo Tsuda, al centro Régis Soavi negli anni ’80
LV: E’ vero che è una grande ricchezza l’aikido del M° Ueshiba e che alcuni hanno sviluppato la propria via. C’è anche il M° Noro che ha creato un movimento, un’arte del movimento.MS: Si, infatti.LS: Non è più un’arte marziale ma un’arte del movimento. Oltretutto erano amici.MS: Si, infatti. Conosceva piuttosto bene il M° Noro che ha creato il Ki no michi. C’era una grande differenza di età, perché il M° Noro è stato allievo del M° Ueshiba molto giovane, è stato un allievo interno, aveva 17, 18 anni, mentre di fatto Itsuo Tsuda ha iniziato l’aikido a quarantacinque anni. E nonostante questa grande differenza di età, avevano molti punti in comune, un’affinità che effettivamente era molto forte. Avere iniziato così tardi l’aikido, ha permesso a Itsuo Tsuda in qualche modo anche di avere un bagaglio intellettuale, perché aveva anche un bagaglio culturale in sinologia, e di cogliere quindi i riferimenti quando il M° Ueshiba parlava in modo poetico, letterario, riferendosi alla mitologia e alla cultura cinese. E Itsuo Tsuda aveva quel bagaglio, era veramente un intellettuale ed è quello che gli ha permesso di mettersi dentro. Inoltre, era il traduttore, anzi l’interprete all’inizio, ed ha continuato ad esserlo, degli Occidentali che venivano dal M° Ueshiba. Come il M° Nocquet, e altre persone. Quindi era anche un modo per lui di essere molto in contatto con i discorsi del M° Ueshiba, che doveva tradurre per renderli comprensibili a questi occidentali.LV: Molto bene. Allora c’è un altro aspetto che ho trovato interessante nel maestro Itsuo Tsuda, è la mnemotecnica che consiste nel dimenticare.MS: Ancora una volta, si tratta di trovare questa connessione con se stessi, come lui diceva. Questa capacità. E’ avere fiducia nella propria capacità interna, nelle proprie risorse e anche nel proprio inconscio, nel proprio subconscio. Abbiamo l’impressione di essere noi a decidere di fare questo o quello, ma nei fatti, il 90% delle nostre attività vitali, o addirittura il 100% è totalmente incosciente. Non si può accelerare il battito cardiaco o rallentarlo, a parte forse qualche Yogi ma la maggior parte del tempo non abbiamo alcun impatto sulle nostre funzioni vitali. Ed abbiamo l’illusione del controllo su noi stessi, sulla Natura, sugli altri? siamo completamente in un’illusione di controllo. Dunque, invece di irrigidirsi sul “non devo assolutamente dimenticare di comprare il latte rientrando a casa” – questa è una tensione, è il mentale che sta cercando di ricordarselo. E sappiamo tutti bene che la maggior parte delle volte tornati a casa, posate le chiavi ci diciamo “Ah! Il Latte! L’ho dimenticato…”. Mentre, al contrario, Itsuo Tsuda dice: “Visualizzate voi stessi mentre uscite dalla metropolitana, fate la deviazione per il piccolo supermercato accanto e prendete il latte”. Visualizzate questa azione, la vedete. Ok? E ora dimenticate, non pensateci più.LV: Grazie per questo consiglio che metterò subito in pratica. Allora, cosa succede nel dojo? Il dojo permette di riprendere il potere sul proprio corpo e questo si estende alla vita quotidiana. La cito: “Il dojo fa parte di quei luoghi unici in cui il tempo scorre diversamente, in cui il mondo si ferma per qualche istante”.MS: Nella nostra Scuola abbiamo diversi dojo e sono luoghi interamente dedicati all’aikido ed al katsugen undo. Non sono delle palestre, non sono delle sale sportive, non ci sono altre attività. Sono luoghi gestiti da associazioni. Dunque le persone si autogestiscono, si auto-organizzano. Tutti i membri sono responsabili del loro dojo. Non c’è da un lato il dojo e dall’altro dei clienti. Ciascuno è in qualche modo come a casa propria e in casa d’altri allo stesso tempo. Quindi è uno spazio un po’ fuori dal tempo, fuori dal mondo, grazie all’orientamento che ha dato Itsuo Tsuda, e l’orientamento con cui anche Régis Soavi, mio padre, ha continuato a lavorare per 50 anni, e che oggi io stessa provo a continuare. Continuare a dare questo impulso. Di far comprendere che si può vivere diversamente.LV: Sì, allora il dojo è il luogo in cui si viene a lavorare sulla Via. Torno un po’ su questa nozione di arte marziale – non può essere qualcosa di meccanico dove il corpo sarebbe un oggetto. Quindi è molto più connessa effettivamente con questa dimensione del soffio, con la spiritualità. Quindi suo padre recita un Norito al mattino.MS: Sì, non solo mio padre. Tutti iniziamo la seduta con questo Norito che è una recitazione. A dire il vero, non si sa nemmeno cosa voglia dire. E’ un momento, è un modo di mettersi in un’altra condizione, un’altra disponibilità. Certe volte mio padre fa questo esempio, parla di un Lied di Schubert che è in tedesco – e magari non capiamo il tedesco. Eppure quando lo ascoltiamo, c’è qualcosa in noi che risuona. Lo si percepisce, lo si sente, è inesplicabile.LV: Si. Ci sono vocali che sono sacre soprattutto in sanscrito e davvero il suono, la vibrazione ha un’azione. Quindi deriva dallo Shintoismo. È un’invocazione agli dei originari. Leggerò un brano in cui per l’appunto suo padre ne parla. “Régis Soavi dice: «Il norito non appartiene al mondo della religione ma certamente al mondo del sacro nel senso animista. Le vibrazioni e la risonanza portata dalla pronuncia di questo testo ci apportano a ogni seduta una sensazione di calma, di pienezza e a volte qualcosa che va al di là e resta inesprimibile. Il norito è un misogi. Per sua essenza, non è mai perfetto, cambia ed evolve. È il riflesso di un momento del nostro essere.»” Allora ci riflettiamo durante l’ascolto del brano Sure di Shannon Ley.
itsuo tsuda
Itsuo Tsuda
LV: Allora, parliamo del Maestro Itsuo Tsuda oggi. E parliamo di anarchia.MS: L’anarchia è una parola che è diventata tabù. Una parola piena di violenza e caos. E infatti si dimentica completamente, si dimentica e direi anche che sicuramente la parola è stata intenzionalmente separata da ciò che era, e da ciò che è sempre la filosofia anarchica. La filosofia anarchica è l’organizzazione fatta da sé, l’autogestione. E’ l’ordine senza il potere. E’ semplicemente un rifiuto del dominio degli uni sugli altri. E alla fine è qualcosa che non è così sconosciuto. Già prima della creazione degli Stati, comparsi intorno al 3000 o 4000 a.C., esistevano e sono esistite per molte migliaia di anni, società che si autogestivano. E anche dopo la creazione degli Stati ci sono stati molti luoghi sulla terra che hanno continuato ad autogestirsi, ad avere funzionamenti diversi. C’è un certo numero di storici, di ricercatori, Pierre Clastres e altri o David Graber ad esempio, che hanno fatto ricerche e dimostrato che esistono vari tipi di organizzazione sociale. Quello che è sicuro è che anche se c’è un leader, il ruolo del leader non è la coercizione, non è dirigere gli altri. Molto spesso è un ruolo di mediatore, di qualcuno che deve trovare il modo di organizzare le cose ma che non decide nulla da solo. Il leader non può dare ordini agli altri. L’anarchia è riscoprire questa potenza dell’individuo e qualcosa che si organizza con gli altri. I movimenti anarchici sono stati molto potenti. Ci sono stati effettivamente alcuni atti di violenza che sono stati esageratamente enfatizzati per screditare il movimento, per screditare tutto un pensiero ricco e complesso. Non c’è un’anarchia, ce ne sono molte. Ed è qualcosa che effettivamente ha molto segnato il pensiero di Itsuo Tsuda, e anche il pensiero di mio padre Régis Soavi. La ricerca di libertà, non soltanto la libertà interiore, certo, ma anche la libertà con gli altri. Nel Dojo si tratta difatti di farsi carico di tutti gli aspetti della propria esistenza. Quindi bisogna ben comprendere che non si tratta di una libertà separata dalla realtà. Aurélien Berlan si oppone alla fantasia di liberazione, dove si sarebbe liberati da tutte le contingenze materiali, ma evidentemente liberati con altre persone che sono schiave, che siano schiavi energetici, tecnologici o con altre persone dominate. Quindi, contro la fantasia della liberazione, parla della ricerca dell’autonomia. Riprendere in mano la propria capacità, in tutti gli aspetti della vita. Questo ovviamente accomuna anche le femministe della sussistenza, che parlano anche di questo aspetto molto importante, di riappropriarsi di tutti gli aspetti della propria vita. E’ questo che cerchiamo in un dojo. E in ogni caso nei nostri, c’è evidentemente l’aspetto pratico del corpo ma c’è anche l’aspetto fondamentale di questa organizzazione, di uscire da un rapporto in cui si arriva, si è clienti, si paga e si vuole avere qualcosa in cambio. Siamo tutti coinvolti, impegnati a far vivere questo dojo perché il luogo esista, per noi stessi. Non si tratta nemmeno di dirsi che lo si deve fare per gli altri, io mi sacrifico? assolutamente no. Ciascuno di noi lo fa per se stesso ma in collaborazione con gli altri.LV: Si allora quello che trovo veramente molto interessante in questo percorso – e qui troviamo, e ne parla nel suo libro, cose in comune in particolare con i Kogi – cioè che la vera morale nasce dall’interno. Questo lavoro, questo cambiamento interiore sfocerà in un cambiamento esteriore. E lei dice anche che la creazione di uno Stato ha determinato una deprivazione dei valori creativi dell’individuo.MS: La morale sorge dall’interno, l’anarchico Kropotkin ne parla, come pure Itsuo Tsuda, ed effettivamente i Kogi. Non si tratta di avere regole esterne, divieti, ancora una volta ingiunzioni, ma di ritrovare questa morale che fa sì che si collabori gli uni con gli altri. Si ritrova anche la nozione di attenzione. Fare a meno di un capo, i Kogi vivono così. Ma noi, noi viviamo con il dominio. Siamo sempre allo stesso tempo dominati e dominatori di qualcuno. Non possiamo semplicemente dire “ah sì, è la libertà, faremo a meno di un capo e tutto è facile”. Non è la realtà. La realtà è che va rifatta un’auto-educazione per comprendere l’attenzione, l’autodisciplina che ciò richiede. Riscoprire sia la propria potenza che la propria capacità di organizzazione. Alla fine c’è una presa di coscienza che si avvicina un po’ a ciò che Winona LaDuke dice sugli Amerindi, che sanno di essere oppressi ma non si sentono impotenti. I Bianchi invece non sanno di essere oppressi ma si sentono impotenti. Beh, è proprio così. Riscopriamo che alla fine siamo dominati, siamo dominanti ma che non siamo impotenti. Penso che fosse questo il senso della frase quando Itsuo Tsuda diceva: “L’utopia non esiste da nessuna parte se non dove siamo”. È ritrovare questa potenza oggi e ora. E sono qui per dire che è possibile.LV: Sicuramente.MS: Anche se questo richiede un cammino! Non è una bacchetta magica. È qualcosa su cui lavorare, da scoprire. Questo richiede un percorso nel proprio corpo, come effettivamente nello spirito. Ci sono strumenti filosofici, strumenti di comprensione intellettuale e strumenti per uscire da quello che abbiamo integrato totalmente fin dalla primissima infanzia. Fin dalla primissima infanzia si insegna ai bambini a non ascoltarsi, a non poter dire No, a non essere se stessi, ebbene in effetti si arriva ad avere delle persone che integrano il dominio e bisogna fare un lavoro per uscirne, ed è possibile. È possibile fare questo percorso, e camminare almeno un po’ più liberi.LV: Si, siamo in cammino in ogni caso. Quindi questa cultura della separazione, lei ne parla in particolare quando evoca il pianto dei bambini, dicendo che non è veramente normale che i bambini piangano in altre culture. In Kenya è piuttosto una cultura di prossimità, di attaccamento.MS: La cultura della separazione è un modo di separarci da noi stessi, dal nostro corpo, dalle nostre sensazioni, gli uni dagli altri evidentemente. E’ pensare che sia normale lasciar piangere un neonato, trascinare un bambino urlante per la strada perché non vuole andare a scuola, che è normale, che la vita è così, che in ogni caso bisogna “perdere la propria vita per guadagnarsela” come dicevano i sessantottini. Eppure è questa la vita? Non è possibile rifiutarsi completamente di giocare a questo gioco? Non possiamo riscoprire che dentro di noi siamo liberi? Allora di certo mi si dirà: “Sì, ma i soldi? Sì, ma ci sono i debiti? Sì, ma bisogna pagare questo, è così, nella vita bisogna soffrire..” Ma effettivamente chi l’ha detto? Ah sì? Perché? Magari semplicemente no! Forse ci sembra di avere tutte queste catene, e da qualche parte le abbiamo davvero, certo. Non cadono con un tocco di bacchetta magica. Ma si può fare un percorso che ci riunisca e in cui ci accorgeremo che effettivamente il pianto dei bambini esprime forse la cosa fondamentale: che non va affatto bene!LV: Trovo che questa sia una conclusione molto bella! Allora Manon Soavi, raccomando vivamente questo libro “Le maître anarchiste Itsuo Tsuda, savoir vivre l’utopie“.

Disequilibrare è destabilizzare

di Régis SoaviQuando si cerca di disequilibrare una persona, istintivamente si sa dove si deve toccarla, sia fisicamente che psicologicamente. Nella maggior parte dei casi è il suo centro che deve essere raggiunto in modo tale da renderlo fragile e quindi vulnerabile.

La visione del Seitai

È difficile giungere al centro della sfera del partner se la periferia è potente poiché tutte le azioni sembrano rimbalzare sulla superficie o scivolare come su uno strato liscio, elastico e capace di deformarsi senza diminuire di densità, dunque senza essere penetrata né essere raggiunta in nessun modo. Tutto dipende da come ciascuno dei partner saprà e riuscirà a utilizzare la propria energia centrale, il proprio ki, sia nel ruolo di Tori che in quello di Uke. Va da sé che altri fattori non meno importanti, come la determinazione, il bisogno di vincere, fanno parte integrante di questa sfera e possono cambiare la situazione, poiché il ki non è un’energia come l’occidente oggi è abituato a considerarla, cioè un certo tipo d’elettricità o di magnetismo. Il Ki è la risultante di componenti multifattoriali e, avendo preso una certa forma, diventa concreto, anche se è difficile da analizzare e quasi non misurabile se non attraverso i suoi effetti. In tutti i casi, uno degli elementi essenziali dell’azione sarà la postura, non soltanto presa in considerazione per la sua caratteristica fisica, ma anche per il suo equilibrio energetico, le sue tensioni, le sue coagulazioni, i luoghi dove si trovano bloccate, imprigionate, così come le sue relazioni, tanto positive che negative, con il resto del corpo e le conseguenze che queste determinano. Una scienza del comportamento umano basata sull’osservazione fisica, la sensibilità ai flussi che percorrono il corpo e la conoscenza anatomica, è di primaria importanza quando se ne ha bisogno per esercitare molte professioni. Ciò non toglie che anche per un dilettante, un appassionato, essa può anche aiutarci a comprendere il nostro entourage o permetterci di uscire dall’imbarazzo quando ciò è necessario. Uno degli obiettivi di questa scienza, il Seitai, è quello di comprendere meglio l’essere umano nel suo movimento in generale e nel suo movimento inconscio in particolare. È uno strumento di qualità che ha già dato prova del suo valore in Giappone come in Europa, e che difficilmente può essere trascurato quando si pratica un’arte marziale. Benché sia stato insegnato in Francia per una decina di anni da Tsuda sensei attraverso la pratica del Katsugen Undo, le sue conferenze, e la pubblicazione dei suoi libri, la scarsa conoscenza in occidente del lavoro del suo iniziatore Noguchi sensei ha penalizzato la sua diffusione. Chiede di essere oggi più conosciuto, più riconosciuto per permettere a chi vi si interessa di trovare gli elementi che lo porteranno ad una migliore comprensione, almeno teorica. È quindi importante che il Seitai si faccia conoscere per essere meglio compreso e ammesso, per questo di tanto in tanto do modestamente per le persone interessate alcune indicazioni soprattutto sui Taiheki che, se si può dire sicuramente in modo un po’ caricaturale, presentano come una sorta di cartografia del territorio umano, sia a livello della circolazione del ki, sia dei suoi passaggi, dei suoi ponti, dei suoi punti di uscita, di entrata, ecc. È possibile comprendere meglio i Taiheki e il Seitai praticando il Katsugen Undo, che è alla base del ritorno all’equilibrio fisico e alla sensibilità necessari per avvicinarsi in modo pratico a questa conoscenza. Si può anche, almeno intellettualmente, andare direttamente alla fonte delle informazioni, leggendo o rileggendo i libri che Tsuda sensei ha scritto in francese. Il principio di base è riassunto in questa “definizione” che egli stesso ha dato: «Lo scopo del Seitai è quello di regolarizzare il circuito dell’energia vitale, che è polarizzata in ogni individuo, e di normalizzare così la sua sensibilità. La filosofia che sottende il Seitai è il principio che l’uomo è un Tutto indivisibile, e ciò lo distingue ovviamente dalla scienza umana occidentale che è basata su un principio analitico.» (Itsuo Tsuda, Il Non fare, Yume. p.76).

destabiliser
Lasciar sorgere l’azione giusta.

Un corpo atletico

Alcune persone hanno un corpo dalle proporzioni armoniose, spalle larghe e squadrate, gambe lunghe, sembrano estremamente stabili, per molti rappresentano l’esempio dell’essere umano ideale, donna o uomo. Ma se si osserva il loro comportamento appena si muovono, hanno tendenza a piegarsi in avanti (è una delle caratteristiche del tipo 5 che fa parte del gruppo “avanti-indietro” chiamato anche antero-posteriore). Di conseguenza, quando devono inclinarsi, spingono il sedere all’indietro e talvolta appoggiano le mani sulle ginocchia per compensare. Si possono riconoscere facilmente perché spesso, anche se immobili, incrociano le mani dietro la schiena per rimanere in equilibrio, non è un’abitudine, è un bisogno di riequilibrio. Questo è un chiaro segno di un bacino che manca di equilibrio e solidità, nonostante tutti gli sforzi, il centro, l’Hara rimane vulnerabile. In occasione di un incontro o di un allenamento è sufficiente quindi, se si è preso il tempo sufficiente per osservarlo, approfittare del momento in cui il partner si muove e quindi si inclina in avanti, per entrare sotto il terzo punto del ventre, circa due dita sotto l’ombelico, e aspirarlo o lasciarlo scivolare sopra di noi, e questo, indipendentemente dalla tecnica che si è scelto di applicare. Sembra semplice quando lo si legge, ma sebbene si tratti solo di uno degli aspetti, la scoperta e la comprensione della postura sono senza dubbio tra gli elementi che hanno la maggiore importanza. All’inizio, nella fase di apprendimento delle arti marziali, per quanto riguarda la realizzazione più concreta delle tecniche, è necessaria una conoscenza, ma nonostante tutto è grazie ad un allenamento basato sulla sensazione e sulla respirazione, che si acquisisce la capacità di cogliere il momento giusto e di essere “dentro”. Del resto il lavoro di osservazione dei partner, se si possiede la conoscenza delle posture, non può che farci del bene, può essere quel qualcosa in più di decisivo nel caso di una competizione o se si debba determinare se si tratta di un pericolo reale o di un’intimidazione.

Sentire le linee di equilibrio.

I Sumotori

I Sumotori con la loro corpulenza, la loro postura molto bassa, il loro modo di muoversi, sembrano esempi ideali di stabilità e di equilibrio, almeno fisico. Anche se il loro addestramento accentua alcune tendenze già presenti e rafforza le loro capacità nella direzione della solidità, rischia di deformarne altre a beneficio del loro successo futuro in combattimento. Dal punto di vista dei Taiheki, nonostante tutto, non sfuggono alla propria tendenza di base. Ci sono Sumotori di tutti i tipi, ovviamente, ma alcune tendenze di Taiheki sono più rappresentate di altre. Nel caso dei Sumotori appartenenti ai gruppi dei verticali, ce ne sono pochi di tipo 1 perché questo tipo di deformazione provoca molto rapidamente la loro eliminazione. Ciò si spiega con il fatto che fin dalla più tenera età si rivelano piuttosto incompetenti, anche quando sono fisicamente forti, sono molto facilmente destabilizzati. Il motivo principale risiede nel modo in cui affrontano l’azione. Seguono sempre l’idea del combattimento pre-concepito o percepito man mano che si svolge, e quindi sono sempre in ritardo e sorpresi dalla mossa del loro avversario. Invece i tipi 2, se hanno osservato bene gli ultimi combattimenti dei loro avversari, se sono ben guidati, possono definire una strategia che, se non è disturbata da cose imponderabili, può portarli alla vittoria. Hanno un’ottima conoscenza della fisiologia e dell’anatomia del corpo sia immobile che in movimento, cosa che permette loro quando vogliono sbilanciare l’avversario, di farlo con la massima probabilità di successo, poiché il terreno è stato ben preparato almeno teoricamente. Si basano anche sulla logica e la riflessione derivate dai combattimenti precedenti poiché è questo che li guida, e raramente la sensazione o l’intuizione. Diventati Yokozuna, si ritirano e si dedicano alla scrittura di libri, di articoli sulla loro vita, sul loro allenamento o ancora utilizzano la loro reputazione per sostenere delle buone cause, ecc.

Sumo Foto di Yan Allegret, Dohyô, 2006. Série photographique autour du monde du sumo

Torcersi per vincere

Per alcuni, disequilibrare vuol dire vincere, precipitarsi e poi prendere il sopravvento con un attacco frontale, diretto. Questa sembra essere la soluzione migliore se non l’unica possibilità che viene loro in mente, e non possono in alcun modo resistervi. Queste persone sempre pronte a combattere, a reagire, hanno in generale reazioni molto fisiche. Quando reagiscono con attacchi o risposte di ordine psicologico, ad esempio piccole frasi insidiose, si può facilmente vedere che si torcono, il loro bacino non è più nella stessa direzione della linea centrale del loro viso. Si può anche notare che, allo scopo di prepararsi all’azione immediata, il loro corpo mostra una torsione che accentua i loro punti di appoggio. Questa torsione, quando è permanente, è un ostacolo ad un movimento libero per chi ce l’ha e deve sopportarla. La soluzione sarebbe, se non si riesce a normalizzarla, riuscire ad utilizzarla in un lavoro per esempio o grazie ad un’attività che richiede un buon senso della competizione. Le persone che hanno questo tipo di deformazione ne subiscono le conseguenze loro malgrado. Si può notare in loro una tensione che è quasi permanente e quindi una grande difficoltà a rilassarsi, a prendersi il proprio tempo, questo porta a relazioni difficili con gli altri perché si sentono eternamente in competizione.Quando si conosce il Seitai e più precisamente i Taiheki, si capisce meglio questo tipo di tendenze comportamentali. Questo permette di sapere quando e come agire senza cadere nella trappola della rivalità che queste persone cercano di mettere in atto intorno a loro per prepararsi a difendersi e di conseguenza per attaccare. Gli individui di questo tipo fanno parte del gruppo “Torsione” e tutto si basa sul fatto che inconsciamente hanno una sensazione di grande debolezza che non riconosceranno mai. Fondamentalmente si sentono in pericolo in modo permanente, motivo per cui considerano che la miglior difesa è l’attacco immediato perché sorprende l’avversario e dovrebbe non dargli l’opportunità di replicare.

Morihei Ueshiba O Sensei. Destabilizzare con lo sguardo.

Un archetipo dell’essere umano

A volte, una piccola frase, o una parola al momento giusto, possono cambiare una situazione, sia nel bene che nel male. Se si è capaci di respirare profondamente e di concentrare il ki nel basso ventre, si può, agendo al momento opportuno, far crollare un intero edificio e trasformare quella che sembrava essere una fortezza inespugnabile in una decorazione di carta-pesta per luna park. La respirazione addominale fa parte dei segreti che sono accessibili a tutti i praticanti a condizione che rivolgano la propria attenzione in questa direzione e che vi si esercitino. Le persone la cui energia si concentra naturalmente nella parte inferiore del corpo, a rischio di coagulazione se non c’è normalizzazione, sono classificate, dal punto di vista Seitai, sia nel gruppo detto di “torsione” (tipo 7 principalmente), sia nel gruppo bacino. Vorrei soffermarmi su coloro che all’interno di questo gruppo hanno una tendenza alla chiusura del bacino, cioè a livello delle ossa iliache (tipo 9), perché per Tsuda sensei rappresentano una tendenza che si trova all’origine dell’umanità. In questi tempi storicamente molto lontani, l’aspetto della sopravvivenza dal punto di vista fisico era primordiale, ma la sensibilità come anche l’intuizione erano qualità indispensabili. Sono proprio queste qualità che permettono al tipo 9 di essere un passo avanti agli altri in caso di pericolo, perché sente intuitivamente se deve rispondere a un gesto di minaccia o se si tratta di una semplice provocazione, inoltre sa se questa provocazione sarà seguita da un atto o se finirà in un nonnulla. “L’intuizione non può essere sostituita dalla conoscenza né dall’intelligenza. L’intuizione non si generalizza. In molti casi, sono la conoscenza e l’intelligenza che falsano l’intuizione.” (ibid. p.98) La presenza di una persona di questo tipo in un gruppo umano non lascia mai indifferenti, anche se si è incapaci di conoscerne la ragione né di percepirla con facilità. Queste persone hanno un comportamento che a volte sorprende la maggior parte della gente, sia a causa della loro rigidità, perché possono chiudersi molto facilmente, sia a causa del potere della loro concentrazione molto insolita nel nostro mondo dove la dispersione e la superficialità sono la norma. “Quando si concentra, non concentra solo una parte delle sue funzioni fisico-mentali. Concentra tutto il suo essere.” (ibid. p.98). La loro concentrazione è percepibile attraverso l’intensità del loro sguardo, il che è già estremamente destabilizzante, basta per esserne persuasi rivedere i pochi film che conosciamo su O Sensei, lui stesso del tipo 9.La postura dei Sumotori al momento del combattimento è una postura che si adatta particolarmente bene a una persona di tipo 9 dato che “lo scarto tra l’apertura e la chiusura del bacino è molto grande in lui. Può accovacciarsi completamente, senza sollevare i talloni e rimanere a lungo in questa posizione, poiché è la sua posizione di distensione. Quando si alza, il suo peso si sposta dal lato esterno dei piedi alla base degli alluci. Questa è la sua posizione di tensione.” (ibid.95)

Sensibilità e intuizione

L’Aikido ci guida verso la stabilità e l’equilibrio, il Seitai si presenta anch’esso come una via che va nella stessa direzione, anche se lo fa grazie ad altri esercizi; la coniugazione delle due tecniche, Aikido come arte marziale e il Seitai attraverso il Katsugen Undo come proponeva Tsuda sensei, ha permesso alla nostra Scuola di continuare nella direzione del ritorno verso una sensibilità semplice ma indispensabile, in un mondo che mira piuttosto all’insensibilità e alla rigidificazione che si pretendono protettrici. L’intuizione ritrovata, la ricettività di nuovo attiva ci sono indispensabili per essere attori della nostra vita.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 11 nel mese di ottobre del 2022. 

In piena autonomia – il dojo Yuki Ho

Quando Itsuo Tsuda torna in Francia all’inizio degli anni ’70, vuole creare un ponte tra Oriente e Occidente, far conoscere a questa cultura così diversa dalla sua ciò che lui stesso ha scoperto attraverso le sue ricerche sul “ki”: dei mezzi per risvegliare la sensibilità e per ritrovare la libertà interiore. Vede nell’Aikido che ha praticato con Ueshiba Morihei sensei e nel Katsugen Undo che ha scoperto presso Noguchi sensei degli strumenti concreti per lavorare in questa direzione. Per trasmettere queste pratiche, egli vuole che «[il suo] dojo sia un dojo, e non un club con un padrone e i suoi habitué, per non disturbare la sincerità dei praticanti» (I.Tsuda, Cuore di Cielo Puro, Le courrier du Livre). Riunisce quindi i suoi allievi in un luogo dedicato esclusivamente a queste due pratiche e che funziona su base associativa, in modo indipendente e autogestito. Così Katsugen Kai è stata creata a Parigi nel 1971.All’inizio degli anni ’80, il suo allievo Régis Soavi si trasferisce a Tolosa e, con l’accordo del suo maestro, apre un primo dojo al numero 10 di rue Dalmatie. Sarà il primo dojo della Scuola Itsuo Tsuda. Allora il luogo, che ospitava varie attività professionali, non aveva per niente un aspetto estetico – accanto alla stazione Matabiau, un cortile con un garage, un capannone e, in fondo, una casetta – ma c’era “qualcosa”?Bisognava fare tutto. Un piccolo gruppo che praticava già l’Aikido e il Katsugen Undo con Régis Soavi si lanciò in un immenso cantiere per trasformare una vecchia officina meccanica in dojo. Muratura, posa di finestre e porte, opere di consolidamento, elettricità, pittura? senza soldi ma con entusiasmo e determinazione, a volte con un aiuto inatteso. Pochi mesi dopo vengono messi i tatami e si tengono le prime sedute. E da allora non ha mai chiuso…

1983, un hangar où tout était à faire - autonomie
1983, un capannone dove c’era tutto da fare
1983, primo stage d’estate
Oggi, quasi quarant’anni dopo, il dojo Yuki Ho è aperto tutti i giorni: per l’Aikido, ogni mattina e la sera due volte alla settimana, per il Katsugen Undo tre volte alla settimana. I praticanti più anziani conducono le sessioni quotidiane e l’insieme degli iscritti si occupa del luogo e delle attività in uno spirito che deriva sia da quello dei dojo tradizionali che da quello dell’autogestione. Accolgono Régis Soavi Sensei quando viene a condurre ogni due mesi gli stage, gestiscono la contabilità, le mansioni amministrative, organizzano pulizie e grossi lavori? individualmente e collettivamente responsabili del luogo e “a casa loro”. Quello che era formato solo da qualche tatami ora è diventato uno spazio di 100 metri quadrati con un tokonoma al centro che ospita una calligrafia di Itsuo Tsuda montata su kakémono.
Il dojo
Vue sur la cours
C’è anche un piano con spogliatoi, una cucina e uno spazio dove condividere i piccoli caffè quotidiani e pranzi di stage e ci sono stati molti altri lavori che ora lo rendono un dojo pieno di una storia, della pratica quotidiana… di questa atmosfera speciale che rende un locale un dojo.
Il primo piano: gli spogliatoi, una cucina, una zona lettura, la zona ufficio…
Questo luogo non è solo un dojo in un cortile con un magnifico pino parasole, ma anche un collettivo di associazioni, tra cui un luogo di educazione alternativa, un laboratorio di pittura Arno Stern e un centro culturale di condivisione di conoscenze e saperi pratici. Perché gli iscritti del dojo, nutriti dalla pratica e dalla vitalità che permette di ritrovare, hanno lavorato a questo progetto comune con l’obiettivo di continuare a condividere ciò che hanno scoperto. Tsuda Sensei utilizzava l’Aikido e il Katsugen Undo come vie per ritrovare “la propria forza interiore”, per molti Yuki Ho è un luogo che ha offerto e offre ancora questa possibilità. È così che è possibile lasciare da parte le perturbazioni della vita quotidiana, respirare, ritrovare “Tenshin, il cuore di cielo puro” come diceva Itsuo Tsuda.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 19 nel mese di april del 2022.Foto di Elio ScintuInformazioni:Dojo Yuki Ho (École Itsuo Tsuda)10 rue Dalmatie, 31500 Toulouse.www.dojo-yukiho.org

Misticismo o Mistificazione

Di Régis SoaviLa mistificazione è il risultato ottenuto da chi utilizza il mistero per ingannare gli altri.La mistica o misticismo è ciò che riguarda i misteri, le cose nascoste o segrete. Il termine rientra principalmente nell’ambito spirituale, ed è usato per qualificare o designare esperienze interiori di contatto o comunicazione con una realtà trascendente non discernibile dal senso comune.

O Sensei un mistico!

Nessuno può negare che O sensei fosse un mistico, ma fu per questo un mistificatore? La sua vita, la sua fama già da vivo, i suoi combattimenti divenuti storici – in particolare contro un Sumotori, o maestri di arti marziali – il suo insegnamento, le testimonianze dei suoi allievi, tutto questo tende a dimostrare il contrario. Molti Uchi-Deshi hanno raccontato come O sensei riuscisse a intrufolarsi tra la folla delle stazioni giapponesi sovraffollate, come ad esempio a Tokyo durante l’ora di punta. Qual era il suo segreto nonostante la sua età avanzata? La pratica di un’arte come la nostra non porta solo potenza e resistenza, queste si ottengono dopo qualche anno di impegno, e direi anche che durano solo un certo tempo, perché con l’età diventa difficile fare affidamento solo su di esse. C’è, tuttavia, un ambito che mi sembra importante da comprendere e sperimentare, è il lavoro tramite ciò che viene vissuto e sentito direttamente, e questo fin dall’inizio. Lo spazio, il Ma, deve diventare qualcosa di tangibile, perché è una realtà che non è teorica, tecnica o mentale. È piuttosto come una sfera di protezione adattabile a tutte le circostanze, lungi dall’essere un mantello dell’invisibilità o una corazza indistruttibile, si muove insieme a noi, è allo stesso tempo fluida e molto resistente, si contrae, si espande o si ritrae secondo necessità e indipendentemente dalla nostra capacità cosciente o volontaria. Non è una sicurezza infallibile, ma in molti casi può salvarci la vita o almeno evitare il peggio. Troppo spesso è stata trasformata in un valore mistico, mentre è solo il risultato di un lavoro appassionato e appassionante. È una realtà a cui non si deve mai rinunciare, fin dall’inizio, anche se può sembrare irraggiungibile. Se c’è un orientamento essenziale che l’Aikido ci insegna, è quello di non opporsi frontalmente, di evitare il confronto diretto quando possibile e di usarlo solo in ultima istanza.

Mysticisme ou mystification
Il lavoro che deve essere fatto, sta a ciascuno di noi compierlo, fisico o filosofico che sia.

Yin e Yang una truffa?

Il Tao non è solo una comprensione orientale del mondo, ma piuttosto un’intelligenza intuitiva ancestrale. È intimamente conosciuto da molti popoli, e artisti, poeti, pittori o altri hanno talvolta saputo comunicarci a modo loro l’essenza delle forze che lo animano. Il pittore Kandinskij, pur essendo un artista moderno ed europeo, ha saputo trovare le parole che, anche se riferite ad un’opera d’arte, ci parlano come praticanti e ci permettono una visualizzazione dello Yin e dello Yang: “Ogni forma ha un contenuto interiore. La forma è quindi l’esteriorizzazione del contenuto interiore. […] È chiaro che l’armonia delle forme è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima” (Kandinskij Lo spirituale nell’arte (1954), p. 49, SE editore 2005)È attraverso la comprensione dello Yin e dello Yang che si possono vedere più chiaramente certi meccanismi del corpo e del suo movimento, per dirla semplicemente, capire come funziona. Ecco un approccio che dovrebbe chiarire il mio punto di vista: l’involucro esterno del nostro corpo nel suo insieme è Yang e quindi l’interno è Yin, anch’esso nel suo insieme. L’aspetto corporeo, il lato luminoso delle persone, il loro aspetto sociale così come il modo in cui si presentano, la comunicazione, il rapporto con gli altri, tutto questo, se non ci sono deformazioni, è piuttosto di tendenza Yang. L’interno, inteso non solo dal punto di vista organico ma anche psichico ed energetico, è Yin. Evidentemente non c’è una reale separazione tra l’uno e l’altro ma l’aspetto della complementarietà porta a osservare che è lo Yin che alimenta lo Yang, così come è l’inspirazione che permette l’espirazione e quindi l’azione. Lo Yin sostiene lo Yang, gli conferisce pienezza, la forza del corpo deriva dalla forza dello Yin e si manifesta attraverso lo Yang. Tutta la forza dello Yin ha bisogno di un involucro, per quanto malleabile possa essere dall’interno, questo deve anche avere la possibilità di indurirsi per contenere questa forza e allo stesso tempo prepararla a reagire, ad agire. Se la potenza dello Yin non è contenuta, se non ha la possibilità di centrarsi – perché allora sarebbe senza limiti e quindi senza punti di riferimento – rischia di disperdersi senza dare alcun frutto. Se lo Yang è sottoalimentato a causa della povertà dello Yin che fatica a rigenerarsi, o di una separazione tra Yin e Yang causata dall’indurimento interno della “parete” che al contempo li separa e li unisce, allora l’azione diventa impossibile. Come sempre è l’equilibrio tra i due che ne fa una forza unica, il disequilibrio a favore dell’uno o dell’altro crea le condizioni per un disequilibrio generale, all’origine di molteplici patologie più o meno gravi, e dell’incapacità di dare risposte corrette e rapide a tutti i problemi fisici, psichici o semplicemente energetici e quindi funzionali.

regis soavi yin yang
“Ogni forma ha un contenuto interiore. La forma è quindi l’esteriorizzazione del contenuto interiore”. Kandinsky

Una mente sana in un corpo sano

Un organismo che reagisce in ogni circostanza, con flessibilità ed efficienza, di fronte ad un’aggressione umana come pure una microbica, è un ideale a cui si può aderire, o comunque qualcosa che merita di essere perseguito. L’Aikido nella nostra Scuola, per la qualità della preparazione all’inizio della seduta, basata sulla respirazione, così come per il modo in cui si svolgono le cose durante una seduta, permette di risvegliare il corpo nel suo insieme. Già il semplice fatto di respirare più profondamente, di concentrare il respiro nel basso ventre, e di lasciare che questa facoltà naturale si sviluppi al proprio ritmo, permette, tra l’altro, un aumento dell’ossigenazione del cervello e quindi un miglioramento del funzionamento delle cellule, come pure una migliore comunicazione tra di esse. Da qui a dire che diventiamo più intelligenti c’è un limite che non voglio oltrepassare, perché l’intelligenza dipende da molteplici fattori ed è difficilmente quantificabile, anche con i metodi scientifici attuali. Preferirei classificare l’intelligenza come una qualità del cervello umano il cui uso a volte è sorprendente. Ma se semplicemente ci si accorge che ci si muove meglio, si ragiona meglio e più velocemente, che diventa più difficile venire imbrogliati o che qualcuno si approfitti di noi con proposte allettanti, o argomentazioni basate su ragionamenti fallaci per mancanza di riflessione, è già un grande passo. Può anche essere in parte un’uscita, anche relativa, dal mondo della stupidità e della falsità che governa il nostro pianeta.

Scoprire da sé; esperienza piuttosto che credenza

Quando si tratta di forza, tendiamo a vedere la cosa e a parlarne in termini di quantità, piuttosto che di qualità. Da appassionati di arti marziali, ricordo che proprio all’inizio dell’entusiasmo che ha attraversato la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, consultavamo avidamente articoli che spiegavano come ottenere la massima efficacia con il minimo di forza muscolare. Come, grazie alla velocità, al posizionamento, alla postura, alla tecnicità, e anche ad una potenza muscolare che, pur non essendo la cosa più importante, doveva essere presente e soprattutto ben direzionata, si arrivava a risultati che potevano essere sorprendenti. Nel Karate, nel Kung-fu, nel Jiu-jitsu o in qualsiasi altra arte marziale, gli esempi non mancavano. In altri articoli si menzionavano meditazioni orientali di ogni sorta, in grado di far acquisire abilità incredibili a chi le praticava. Sebbene molto spesso grossolanamente esagerato, il fondo di verità delle tecniche, delle posture o delle meditazioni è oggi riconosciuto, analizzato e teorizzato dai ricercatori di matematica, scienze umane o scienze cognitive. Questo riconoscimento, anche se ha l’interesse di rendere giustizia a queste pratiche, resta puramente intellettuale. Invece di portare ad una concreta ricerca fisica e permettere a tutti di beneficiarne, provoca un affaticamento, o un surriscaldamento mentale, che rischia di rendere inutili gli sforzi che alcuni praticanti fanno per intraprendere un percorso leggermente diverso con l’aiuto di insegnanti competenti e informati. È attraverso l’esperienza nella pratica, che si scopre ciò che nessun testo avrebbe potuto apportarci. I testi antichi, o anche talvolta più recenti, hanno un valore innegabile e spesso ci sono serviti da guida o sono stati a posteriori i rivelatori delle nostre scoperte. La loro capacità di esprimere a parole, di esplicitare ciò che abbiamo provato, di rivelare un’esperienza che ci “parla”, può dimostrarsi un aiuto prezioso. Cosa avrei fatto se non fossi stato guidato dai libri e dalle calligrafie, delle sorte di Koan, del mio maestro Itsuo Tsuda.

regis soavi
Fare “UNO” con la massima semplicità.

Privilegiare la qualità rispetto alla quantità

Viviamo in un mondo in cui l’accumulo di beni, merci, conoscenze e sicurezze è la regola. Ci viene proposto un “essere umano potenziato”, come nel progetto transumanista, grazie all’Intelligenza Artificiale (detta I.A.). È perché oggi l’essere umano non trova più il suo posto perché i valori sono cambiati? O perché deluso dal suo ambiente, sia di prossimità che globale, non ha più gusto per nient’altro che per il superficiale e perde sia il senso, sia l’interesse per ciò che è lento e profondo. Già alla fine del secolo scorso, negli anni ’80, il direttore d’orchestra Sergiu Celibidache, durante un corso di direzione d’orchestra a Parigi a cui ebbi la fortuna di assistere, si lamentava del fatto che non esistevano più grandi movimenti sinfonici scritti in un tempo “largo”: «Tutto si è accelerato», diceva. L’Aikido ha saputo conservare dal passato, valori di umanità, di rispetto per l’altro, di sensibilità, che ne fanno uno strumento di qualità per ritrovare ciò che rende l’uomo un essere sensibile e non un robot. Per quanto perfezionato sia, questo “umano potenziato” sarà nel migliore dei casi solo una pallida imitazione, un surrogato di ciò che ciascuno di noi può essere e soprattutto di ciò che può diventare.

La ribellione non è negazione

La ribellione è un atto di salute del nostro organismo fisico come della nostra mente. Soprattutto non va trascurata la sua salutare importanza. Se pratichiamo un’arte come la nostra non è affatto un caso. Se abbiamo percepito l’intelligenza di questa “disciplina” è perché qualcosa in noi era pronto, e questo anche se non lo sapevamo, cioè anche se non ne eravamo consapevoli. Se ci fidiamo delle reazioni del corpo fisico invece di averne paura, possiamo ricominciare a capire la logica delle sue reazioni. Anche qui non si tratta di credenza popolare, di tornare indietro, di oscurantismo. Si tratta di un’altra conoscenza, allo stesso tempo nota a tutti, e non riconosciuta nella sua pienezza perché perturbante.Quando c’è un’infezione, un malessere, o qualsiasi altra disfunzione che ovviamente ci infastidisce, il corpo si ribella spontaneamente, cerca in tutti i modi di risolvere il problema, di ritrovare l’equilibrio perduto. Aumenta la temperatura, si avvale delle proprie armi di riserva come anticorpi di ogni tipo, così come dei suoi amici, con i quali è in simbiosi, batteri che producono antibiotici, virus macrofagi, ecc. Questa sana rivolta può rivelarsi a volte violenta e rapida, ma in realtà il più delle volte inizia molto dolcemente, lentamente, all’inizio potremmo anche non accorgercene. Altre volte si risolve prima di diventare consapevoli di questa risposta, anche in questo caso tutto dipende dallo stato del corpo e nonostante tutto può essere necessario sostenere la natura che opera in noi. Ognuno si assume le proprie responsabilità. Se abbiamo saputo conservare il nostro organismo lasciandolo lavorare quando abbiamo avuto piccoli disturbi senza costringerlo, lasciandolo libero nelle sue manifestazioni, ci vorrà poco per dargli una mano, a volte basterà un po’ di riposo, o un aiuto occasionale da persone competenti. È a monte che bisogna considerare ciò che accade nel nostro corpo, e una sana riflessione sulla vita, il suo movimento e la sua natura non può che fare del bene.

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O sensei. Norito, invocazione degli dei. Foto pubblicata in La via della spoliazione, Itsuo Tsuda.

Seguire le tracce

Ciò che è appassionante nell’Aikido è ritrovare le tracce lasciate dai nostri antichi maestri, vedere come ciascuno di loro si è appropriato di quest’arte per creare, per realizzare la propria vita. Inutile copiarli, meglio imparare, dalla loro postura, dai loro scritti. Trovare dei compagni per una pratica sana, dove il nostro intuito si risveglia, dove il nostro corpo ridiventa come nell’infanzia, flessibile, agile, intrepido, e dove troviamo ciò che esso non avrebbe mai dovuto perdere, una certa audacia. L’Aikido non è un trampolino su cui ci si sfinisce saltando, perfezionando costantemente la tecnica, ma ricadendo sempre nello stesso punto per gravità. È una via formidabile in cui le difficoltà sono bilanciate dalla natura stessa del percorso, dalle nostre capacità del momento, dalla nostra perseveranza e dalla nostra sincerità. Sono porte che si aprono, portandoci ad una coscienza più fine e talvolta anche ad uno stato di giubilo quando le sensazioni che ci attraversano sono “UNO” con la nostra prestazione fisica priva di ogni pretesa ma vicina alla massima semplicità. È perché ho visto il piacere e la facilità nella pratica che avevano alcuni insegnanti, e i risultati della ricerca come la semplicità che manifestavano molti maestri che ho conosciuto, che è cresciuto in me il desiderio di raggiungere il loro livello, o almeno avvicinarmi ad esso in questa vita. I vecchi maestri, ciascuno con il proprio metodo, ci hanno guidato verso ciò che siamo nel profondo di noi stessi. Ma il lavoro che deve essere fatto, sta a ciascuno di noi compierlo, fisico o filosofico che sia. Tutto dipende sempre da noi, anche se siamo stati ingannati da falsi profeti o ciarlatani boriosi pronti a tutto per le briciole di potere che riescono ad ottenere dai loro inganni. Se si osservano le conquiste che i nostri predecessori su questa via hanno lasciato, se si sa usare il loro insegnamento, se li si sa riconoscere senza farne degli idoli o dei santi, ci si renderà conto che il cammino, anche se arduo e oscuro, non è così difficile. Per scoprirlo non basta una vita, ma la vita basta a se stessa finché la si vive pienamente.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 10 nel mese di luglio del 2022.

Dojo, un movimento perpetuo

Di Manon Soavi.L’apertura di un nuovo luogo di pratica è sempre una gioia ed è per questo che siamo felici che un nuovo dojo veda la luce a Pescara, una città situata nella regione Abruzzo sul mare Adriatico. Manola DP che insieme ad altre persone ha fatto nascere il dojo Bodai a Roma, apre oggi questo secondo luogo, dopo 18 anni di viaggi in cui ha percorso i circa duecento chilometri che separano Pescara da Roma per praticare e far vivere il dojo.Così, ci è venuta voglia di condividere con voi alcune riflessioni e alcune foto che mettono in prospettiva la storia dei dojo della nostra scuola. Con una selezione di foto che illustrano come i dojo siano allo stesso tempo luoghi, spazi concreti, carichi di anni di pratiche quotidiane. Luoghi supportati dall’energia e dalla direzione data dal nostro Sensei Régis Soavi da più di quarant’anni. E allo stesso tempo luoghi che si costruiscono per volontà propria dei praticanti, da loro stessi e per loro stessi.Iniziamo guardando com’è ora il locale a Pescara, e anche se  può sembrare scoraggiante, guardando più in basso com’erano i dojo prima dei lavori dei praticanti, vedrete che va tutto bene!

Per accompagnare questo sguardo sui dojo che hanno già attraversato la fase della creazione, ecco alcune riflessioni tratte dal mio libro “Le maître anarchiste, Itsuo Tsuda“.Estratti dal capitolo 8 Creare delle situazioni: “Itsuo Tsuda, anche lui, come Chuang-tzu, il mamá kogui e i situazionisti, creerà “situazioni” che permettono e favoriscono la scoperta della filosofia del Non-Fare. Non è proprio certo che l’abbia pensata in questi termini, ma mi sembra interessante segnalare il suo attaccamento a certe cose che mostra l’importanza che attribuiva,il potere che dava a queste possibilità, a queste situazioni, motivo per cui ne racconterò alcune per metterle in evidenza.” […]”Quando arriva a Parigi, Itsuo Tsuda vuole subito creare un dojo. Per il lavoro che viene a fare in Occidente ha bisogno di questo strumento, di questo luogo: un dojo, non una palestra o un circolo. Potremmo fermarci all’idea che Itsuo Tsuda, un giapponese di quasi sessant’anni, sia un tradizionalista e che il dojo sia un concetto culturale giapponese, ci sono dojo per il kyudo, il kendo, il karate, ecc., tuttavia, Tsuda non crea dojo giapponesi nel senso stretto del termine. Infonde in questi luoghi una funzione di autoemancipazione.” [?]

Yuki Ho Tolosa, dal 1983

“Il dojo non è un luogo di consumo, e nemmeno solo di pratica personale. In Giappone è inseparabile dalla nozione di uchideshi, allievi interni che vivono in loco e si occupano di tutto, spazzano, preparano il bagno del maestro, cucinano, fanno giardinaggio, ecc. Questo insegnamento per impregnazione, attraverso la condivisione di una vita collettiva con la famiglia del maestro ma anche con gli altri uchideshi è un elemento forte della cultura giapponese. Il principio di base è che è lo studente che vuole imparare e non l’insegnante che cerca di trasmettere. Si parla in Giappone di “rubare l’insegnamento”: l’intero posizionamento è quindi ribaltato.”

Tenshin Parigi, dal 1985

“Di questa cultura, Itsuo Tsuda manterrà l’aspetto “insegnamento totale” dell’esperienza vissuta e del lavoro comune. Ovviamente non ci saranno uchideshi, Tsuda non desidera certo scimmiottare le tradizioni, fare del giapponesismo. Al contrario, estrae l’essenza di queste tradizioni e, sebbene spogliate dei loro colori locali, cerca come riutilizzarle nel mondo contemporaneo. Il dojo è aperto tutti i giorni, una seduta si svolge alle 6:30 del mattino e due sere a settimana. Per tutto l’anno, senza alcuna interruzione, le sedute sono assicurate da Tsuda e dai praticanti stessi.”

Scuola della respirazione Milano, dal 1983

“Poiché il dojo è un luogo di sperimentazione individuale e collettiva, di pratica dell’autonomia, dove, come gli uchideshi, ognuno si fa carico dei diversi aspetti della vita quotidiana nel dojo: discutere, decidere, fare piccoli lavori, fare giardinaggio, riparare, condurre delle sedute. Si tratta di uscire dalla logica dell’assistenzialismo e dalla “facilità” ad affidarsi agli esperti. Come sottolinea il filosofo Ivan Illich, gli individui hanno disimparato a riconoscere i propri bisogni e, “intossicati dal credere in un migliore processo decisionale, hanno difficoltà a decidere da soli e presto perdono fiducia nel proprio potere di farlo. (Ivan Illich, La convivialità, Red Edizioni, 2013)”Bodai Roma, dal 2004“Il dojo non accoglie clienti. Tsuda rifiuta qualsiasi presa in carico delle persone, ogni passo deve essere un atto individuale di presa in carico di se stessi.Così, tutti  al dojo sono allo stesso tempo a casa propria e a casa d’altri. È il luogo dell’individuo e del collettivo”.

Akitsu Blois, dal 2007

Estratto dal capitolo Coltivare la propria sensibilità e attenzione “Per fare a meno di regole, leggi e leader, occorre una grande attenzione, rivolta tanto verso se stessi quanto verso la collettività. Come hanno riassunto perfettamente gli insorti del Comitato Invisibile: “Improvvisamente, la vita cessa di essere suddivisa in sezioni collegate. Dormire, lottare, mangiare, curarsi, divertirsi, cospirare, discutere, fanno parte di un unico movimento vitale. Non è tutto organizzato, tutto si organizza. La differenza è evidente. Uno richiede la direzione, l’altro l’attenzione.” Questo stato di deconcentrazione e insensibilità che porta alla mancanza di attenzione è, molto spesso, ciò che fa fallire molte esperienze comunitarie. Siamo così abituati a seguire gli ordini, regole e di essere assistiti in tutti gli aspetti della nostra vita che non ci rendiamo nemmeno conto del grado di sensibilità e attenzione necessari per vivere “l’ordine meno il potere” come proposto dall’anarchismo.” (estratto da “Le Maître anarchiste, Itsuo Tsuda”)Il Dojo, così pensato, è un ottimo strumento per riscoprire le nostre capacità di attenzione, sensibilità e organizzazione.

Ryokan Ancona, dal 2005

Nella nostra scuola ci sono altri due dojo che hanno richiesto meno lavoro ma che meritano di essere presenti in questo articolo 

Zensei, Torino dal 2013
Katsugen kaï, Amsterdam dal 2005

 

L’arte dell’insoddisfazione

Di Manon SoaviLa maestra di Ikebana Ando Keiko Mei racconta come, quando era ancora una bambina, osservava la nonna praticare la sua arte: “La vidi prendere due foglie della pianta e posarle, davanti al tokonoma, su un lenzuolo bianco perfettamente stirato insieme a pochi altri materiali. Poi, cercò nella dispensa una ciotola scura di fattura rustica e, sedutasi alla giapponese sul pavimento di tatami, vi sistemò un kenzan e versò dell’acqua da un piccolo annaffiatoio. Con grande calma prese quindi un ramo e incominciò ad osservarlo con sguardo attento, muovendo le mani in modo lento e amorevole. All’atto di tagliare, per accorciare la misura o togliere delle foglie, non aveva esitazioni.Io, per non disturbarla, mi ero seduta alle sue spalle poco distante e la osservavo maneggiare con cura quei materiali così semplici e modesti. Alla fine, il suo Ikebana risultò ancora una volta essenziale e colmo di fascino e da dentro mi salì un profondo sospiro di ammirazione.[?] Un giorno esclamai: ‘Vorrei essere capace di disporre i fiori in modo simile alle tue composizioni!’ e lei con semplicità mi rispose ‘anch’io vorrei riuscire a fare i miei Ikebana un pochino meglio!’.Questa affermazione mi colpì perché, fino a quel momento, avevo pensato che lei, arrivata al culmine della Via, si sentisse sempre soddisfatta delle sue composizioni.Compresi, però, che quella risposta non nasceva da un sentimento di falsa modestia né conteneva un giudizio sulle sue capacità. Era la sincera espressione di un senso di incompiutezza che solo lei, nel suo cuore, poteva conoscere. [?]Con quelle semplici parole mia nonna, senza volerlo, mi aveva già rivelato tutta la profondità e la bellezza [della Via].” (K.A. Mei, Ikebana, Arte Zen)Questa sensazione di qualcosa di incompiuto o di un’insoddisfazione che è come un pungolo è molto tipica dei maestri giapponesi nelle loro arti. Ma penso che questa sensazione sia molto lontana dalla frustrazione e dall’insoddisfazione profonda che conoscono molte persone nella nostra epoca. Nei nostri dojo, nelle nostre pratiche, a volte ci troviamo di fronte alla difficoltà di prospettare Vie che richiedono perseveranza e continuità mentre cerchiamo sempre di più di ottenere rapidamente soddisfazioni. La nozione stessa di sforzo non è più molto di moda, o se c’è sforzo ci devono essere risultati, redditività di questo sforzo. Il problema è che la ricerca di un risultato, uno scopo a priori, condiziona l’azione e quindi questo risultato.Osservo due tendenze che sembrano abbastanza diffuse: una dove si vede tutto in nero, senza futuro, senza speranza, è uno stato depressivo. L’altra nella quale si prova a concentrarsi su ciò che ci procura della soddisfazione e del piacere. È abbastanza ovvio che stati depressivi o pensieri suicidi non sono condizioni molto sopportabili per l’essere umano, ma desidero interrogare qui l’altra posizione: la ricerca dello stato di soddisfazione. E ovviamente esaminare la posizione del budo e cosa può portarci a capire. Non cerco di opporre due posizioni ma di approfondire una questione. Siamo più realizzati perché siamo soddisfatti? O piuttosto, di quale tipo di soddisfazione parliamo?La ricerca della soddisfazione si è accresciuta in questi ultimi anni; alcuni tengono diari di gratitudine dove annotano ciò che di positivo è successo nel corso delle loro giornate. Altri cambiano lavoro o città per essere in un contesto più in sintonia con le loro visioni, i loro valori. Infine il benessere e la realizzazione sono preoccupazioni costanti per molte persone. Alcuni indicano il paradosso di un’umanità che non ha mai conosciuto tale livello di benessere materiale e che continua a stare male con se stessa. Immersi nella comodità materiale e tuttavia eccoci ancora insoddisfatti. Come bambini viziati?Inoltre sappiamo che la soddisfazione di tutti i nostri desideri non ci darebbe nemmeno una soddisfazione reale, profonda. Alla fine, siamo un po’ come cantava Johnny Hallyday nella canzone L’envie (La voglia) “Mi hanno dato troppo, molto prima della voglia. Ho dimenticato i sogni e i grazie. Tutte queste cose che avevano un prezzo. Che fanno la voglia di vivere ed il desiderio”.Ben prima, le favole antiche ci mettevano in guardia contro la dimenticanza, contro la dissoluzione del Sé che procura la realizzazione di tutti i desideri. Come quei racconti in cui si entra in una locanda per non uscirne più, catturati da una vita di piacere e di soddisfazione immediata che ci conduce anche a volte alla morte. Ciò vuole dire che dobbiamo seguire una morale austera o una vita di duro lavoro? Coloro che hanno meno di noi non aspirano a questa comodità? Bisogna continuare un lavoro che non è adatto a noi, che ci annoia? O vicino a persone tossiche? A priori no, certamente; allora dobbiamo seguire i nostri sogni?

Insoddisfazione, un motore potente

Le nostre azioni hanno motivazioni inconsce che giustifichiamo a posteriori, ma ciò che fa scattare l’azione in noi è indefinibile. Ci piace suonare il piano, fare composizioni floreali, cucinare o praticare arti marziali ma perché, in definitiva, non lo sappiamo. La pratica di queste arti ci procura allo stesso tempo una soddisfazione profonda ed allo stesso tempo un’insoddisfazione. È per questo che ci rimettiamo all’opera ancora ed ancora.Nella cultura giapponese c’è una nozione interessante, che coltiva come motore quest’insoddisfazione leggera. Ad esempio nel Seitai si consiglia ai genitori di non dare da mangiare ai propri bambini al 100%. Itsuo Tsuda parla di “il cucchiaio in meno”. Se i genitori sono molto attenti e concentrati possono smettere di imboccare il bambino poco prima del “troppo pieno”. Solo un cucchiaino prima. Certo, se il bambino piange è perché ha ancora fame e ha bisogno di essere nutrito, ma quando il ritmo dei bocconi diminuisce, se si è molto attenti, si percepisce il momento giusto in cui un cucchiaio in meno non manca nemmeno. Questa lievissima insoddisfazione stimola l’appetito del bambino invece di “riempirlo fino all’orlo”, invece di arrivare ad una totale, beata sazietà. Mantiene viva anche la sensibilità del bambino che sa, fin quasi al singolo boccone, di cosa ha bisogno o meno, senza che venga disturbato da altri messaggi come sentimenti, convenienze, finire il piatto, compiacere la mamma, ecc. Lo stesso vale nel Bagno caldo Seitai (vedi Yashima n. 13 ottobre 2021), in cui si esce dal bagno pochi secondi prima del completo rilassamento, appena prima di essere come una verdura bollita, quindi il corpo ha approfittato del rilassamento e questa uscita gli dà “una spinta”, una sferzata di energia.Il maestro di karate Shimabukuro Yukinobu allude a hara hachibu, un principio delle isole di Okinawa, che consiste nello smettere di mangiare quando si raggiunge l’80% di sazietà. (Yashima n. 11 marzo 2021) Penso che si tratti un po’ della stessa idea.Inoltre, noteremo che è l’insoddisfazione che spinge un bambino a camminare, parlare, saltare, correre, ecc. Se cercasse solo la sensazione di beatitudine rimarrebbe allo stesso stadio: coccolato dai suoi genitori! Certo, non si tratta in alcun modo di giustificare il maltrattamento, ma piuttosto di far notare che, anche qui, a volte il meglio è nemico del bene. Non è abbondando che si nutre meglio. Tutto dipende dalla prospettiva che abbiamo, ha rimarcato Itsuo Tsuda “Ho avuto la fortuna di conoscere alcuni aspetti della tradizione giapponese. La mia esperienza può forse essere ancora superficiale, ma il contrasto che essa presenta nei confronti del pensiero moderno è impressionante. Non si tratta di soddisfazione materiale, ma dell’approfondimento della sensibilità.” (I.Tsuda, Non-fare, p.75-76)Ben utilizzato, il pungolo dell’insoddisfazione ci spinge alla continuità e alla perseveranza. Parlando della sua pratica dell’Aikido Tsuda senseï scriveva: “Per me, imparare a sedermi e ad alzarmi, è già enorme. Non smetto di scoprirne nuovi aspetti. Sono ben lungi dall’essere soddisfatto di quello che faccio. Quest’insoddisfazione mi spinge sempre in avanti, verso la soddisfazione completa.” (I.Tsuda, La via della spoliazione, p. 178)”In compenso, conosco un miliardario suo malgrado, scontento come pochi. È giovane, bello, intelligente. Non gli manca niente. Può avere tutto dall’oggi al domani. Ma è proprio questa facilità che lo esaspera. Non sa come trovare una vera soddisfazione.Ciò che è spontaneo, si sente. È il ki. È l’invisibile, l’imponderabile che cerca di prendere una forma tangibile. Se la forma è soddisfacente, lo spontaneo si spegne.Il ki muore quando prende forma, ecco il punto comune che ho trovato nei Maestri Ueshiba e Noguchi. Intendiamo qui: ki come impulso.Si ha fame. Si mangia. Si è sazi. Non si vuol più sentir parlare di cibo.Ma il valore dell’uomo sta nella possibilità di trovare il ki che non è mai soddisfatto. Il Maestro Ueshiba mi ha parlato di come sarebbe stato il suo Aikido quando avesse avuto centocinquant’anni. È morto a metà strada.” (I.Tsuda, Ibidem, p.89) Itsuo Tsuda respiration

Sogni o illusioni

Il problema dell’insoddisfazione arriva quando ci schiaccia. Lavoro, famiglia, noia, metro, macchina, non poterne più, è quando il mondo si rimpicciolisce intorno a noi, che cerchiamo una via di fuga. Allora si sogna. E un’altra trappola si chiude su di noi perché l’ingiunzione “vivi i tuoi sogni” è diventata fin troppo un fenomeno di compensazione. Paradossalmente si invitano le persone a correre dietro i loro sogni ma ciò diventa un’illusione, un miraggio che li mantiene nel posto che occupano già. Come analizzò il filosofo H. Lefebvre negli anni ’50, “L’insoddisfazione, il soffocamento, obbligano l’individuo che si sente morire senza aver vissuto a rivendicare follemente la ‘ripetizione’ della vita che non ha mai vissuto [?]. Nel lavoro, così come nella vita privata e nel tempo libero, la maggior parte rimane prigioniera di strutture anguste o obsolete. Anche ansiosi o insoddisfatti, anche se vogliono la rottura di questi quadri sociali, scorgono male le possibilità.” (H. Lefebvre, Critica della vita quotidiana, p.162) Abituati fin dall’infanzia, è difficile uscire dalla relazione di consumo-compensazione dello svago, del turismo, uscire dalla compensazione per ritornare ad una relazione vissuta, diretta, ad un piacere dell’atto come proponevano i Situazionisti, per i quali Lefebvre è stato una fonte d’ispirazione.Penso che la pratica intensa, approfondita, di un’arte possa aiutarci a riscoprire il contatto con la realtà. Nel caso dell’Aikido, quest’arte ci mette in presenza dell’atto interamente vissuto, del momento presente. Non la realtà assurda (derealizzata) della nostra quotidianità ma la realtà della sensazione, del contatto con l’altro, la realtà del corpo. Quando si pratica Aikido non si è più nel quadro del lavoro, né del tempo libero, è una pratica che richiede la totalità dell’individuo. Non si tratta solo del numero di ore di pratica. Ovviamente, quando la pratica è quotidiana, aiuta ma non è necessariamente così. Dopo un po’, qualunque cosa facciamo nella vita, l’Aikido, e nella nostra scuola anche il Katsugen undo, diventano assi che articolano le nostre esistenze. Infine parafrasando un autore che parla dell’atto di ribellarsi, la pratica in un dojo è una situazione in cui “dandosi interamente ad esso, si trova sempre più di ciò che vi si porta o di ciò che vi si cerca: vi si trova con sorpresa la propria forza, una resistenza e un’inventiva che non si conoscevano, e la felicità che c’è nel vivere strategicamente e quotidianamente in una situazione eccezionale.” (Comitato invisibile, Ai nostri amici.)Così, a poco a poco, tutta la nostra vita “diventa” Aikido. E ci troviamo a “vivere quotidianamente in una situazione eccezionale”.D’altronde è quello che spesso emana dai maestri, le loro vite sono totali. Le loro vite intere sono un cammino permanente ed una ricerca per andare oltre ciò che ancora non li soddisfaceva.Itsuo Tsuda, come sempre, riportava ciascuno alla propria decisione dicendo: “La mia formula è: ‘Vivo, vado, faccio’. Non è per conformarmi ad un obiettivo morale, sociale o politico che faccio qualcosa. Faccio ciò che sento in me, ciò che posso fare senza rimpianti. Non cerco l’utopia all’esterno. Cerco la soddisfazione interiore, incondizionata.È nella respirazione calma e profonda che trovo la mia vera soddisfazione. Questo, nonostante le tante contrarietà della vita moderna. Ho superato e supererò difficoltà finché vivrò. È così che trovo il piacere di vivere.La vita, tutta dipinta di rosa, no grazie.Si dirà che sono egoista, perché parlo solo di quello che succede dentro di me. È vero che non dico come tanti filantropi: ‘Non preoccupatevi. Farò tutto per voi. Mangerò per voi, digerirò per voi, evacuerò per voi, respirerò per voi.’Dico freddamente:’Non farò nulla per voi, finché non deciderete di farlo da soli.'” (I.Tsuda, La Voie des dieux, p. 32-33)Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Manon Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 9 nel mese di appril del 2022.

Trasmettere

di Régis SoaviInsegnare, in un dojo, è trasmettere. È anche al contempo riunire e servire. Non si tratta di rafforzare il proprio Ego, né di essere un animatore al servizio dei voleri delle persone che frequentano le sedute, ma di permettere lo schiudersi di ciò che è allo stato di bocciolo e che attende in ciascuno di noi.

Una vocazione?

Non credo veramente alla vocazione perché il termine vocazione si riferisce troppo facilmente a ciò che è religioso, campo semantico da cui è necessario allontanarla il più possibile, perché la nostra società ha da tempo intorpidito le acque. Se parliamo di vocazione, deve essere primaria, materialista e pragmatica, sarà quindi piuttosto un’attitudine, un talento. Atteggiamenti del tipo “salvare persone che non hanno capito nulla, portarle alla luce” ecc., non sono assolutamente adatti all’insegnamento di un’arte come l’Aikido, senza per questo doverne fare un’arte comune o addirittura prosaica, una specie di “difesa personale”. Il fatto di insegnare deve scaturire naturalmente dalla ricerca che si è stati in grado di fare nel corso della propria pratica, ed è in questo senso che si tratta di una trasmissione. Spesso inizia con il desiderio di far conoscere ciò che si è scoperto, ciò che si è compreso, o creduto di comprendere e anche se non è una vocazione, ci sono persone che hanno talento per spiegare, per far vedere. Persone a cui piace prendersi cura degli altri, di permettere loro di progredire in un’arte o in un mestiere, che “sanno” farlo perché capiscono gli altri, perché hanno una sensibilità che è orientata in questa direzione, e un’affinità con questo percorso.

Trasmettere la postura.

La pedagogia

La pedagogia nell’istruzione scolastica il più delle volte consiste nel far ingoiare la pillola, perché sia l’allievo che l’insegnante sono tenuti ad ottenere un risultato.Nell’Aikido direi che non ci sono metodi pedagogici buoni o cattivi, ci sono insegnanti buoni, meno buoni, anche cattivi, e per di più, tra questi, colui che è perfetto per uno può essere deplorevole per un altro e viceversa, anche, e forse soprattutto, quando si tratta di trasmissione. Le persone che iniziano a praticare, spesso arrivano con delle idee o delle immagini sulle arti marziali. O perché hanno visto dei video o dei film d’azione e sono rimasti entusiasti dello spettacolo, o a causa della loro vita personale in cui hanno incontrato difficoltà, subìto costrizioni, molestie, e vogliono uscire da questo stato di paura che queste situazioni hanno generato. Alcuni scoprono l’Aikido attraverso testi filosofici, a volte antichi come quelli sul Taoismo o sul Bushido. Nessuno comincia per caso, c’è quasi sempre un motivo, consapevole o meno, sempre un filo conduttore. Bisogna quindi adattare le risposte, dare forma alle parole senza tradire il loro significato profondo, far vedere, dimostrare grazie ad una tecnicità affinata come far circolare la nostra energia, cosa che permette la scoperta dello strumento “Respirazione” come la intendeva Tsuda sensei, cioè l’uso del ki attraverso la tecnica, i movimenti, gli spostamenti, l’istinto, ecc.

Il mio percorso

L’Aikido che il mio maestro Itsuo Tsuda mi ha insegnato è un po’ come una danza marziale, con la differenza che non ha, come la Capoeira, una forma che nasce dalla necessità di nascondere le sue origini o la sua efficacia. Della danza ha la bellezza, la finezza, la flessibilità di reazione. Della musica, ha la capacità di improvvisare su una base e la solidità dei temi suonati. Della marzialità ha la forza, l’intuizione, la ricerca delle linee fisiche tracciate dal corpo umano. La ricchezza dell’insegnamento che ho ricevuto è incommensurabile. Guidato da Tsuda sensei, attraverso le sue parole come i suoi gesti, ho potuto crescere, assetato com’ero di vivere pienamente, di andare oltre le ideologie proposte dal mondo “spettacolare e commerciale” in cui viviamo. Essendo un bambino del dopoguerra, mi sono scoperto pieno di speranza durante gli eventi di quel periodo storico che furono gli anni ’68 e ’69. È stato come un risveglio alla vita.Questa rinascita aveva fatto maturare il frutto della mia comprensione del mondo. In così poco tempo ero cresciuto talmente che mancava solo lo sbocciare di ciò che ero veramente. L’incontro con il mio maestro non deve nulla al caso. Attirato dal ki che emanava, non potevo che incontrarlo. “Quando l’allievo è pronto, il maestro arriva”, dicono in Giappone; non ero pronto per quello che mi sarebbe successo, ma ero pronto a riceverlo. Turbato, sconvolto da ciò che vedevo, da ciò che sentivo, da ciò che emanava da lui, abbordavo tuttavia nuovi territori, dove si estendeva una giungla che mi sembrava inestricabile, tanto era grande la mia fragilità rispetto a questo nuovo mondo. Dieci anni con lui non sono bastati, il lavoro di “districare” continua, anche se oggi, a distanza di quasi quarant’anni, ho potuto tracciare dei sentieri grazie alle sue indicazioni, questi “segnali indicatori” come diceva spesso, che ci ha lasciato.

La posizione di Uke permette di esporre vari aspetti della tecnica e il modo di mantenere il centro.

La continuità

Ogni mattina inizia un nuovo giorno. Insegnare per un’ora, un’ora e mezza due volte a settimana non corrisponde alla mia regola di vita, né d’altronde al mio credo. Ho bisogno di più, molto di più, per questo il dojo è aperto tutti i giorni, non per motivi pecuniari (anche se l’associazione che lo gestisce ne avrebbe bisogno) ma per permettere la continuità di tutti quelli che possono venire regolarmente. Come tutti, ho iniziato tenendo corsi in diversi dojo, pubblici (palestre) o privati. Prima di conoscere seriamente il mio maestro, ho persino tenuto corsi di Aikido nel retrobottega del negozio di un esperto di tappeti orientali, e ho addestrato un giovane investigatore privato all’autodifesa. Avevo vent’anni all’epoca, e un po’ come nei film della Pantera rosa con l’ispettore Clouseau, interpretavo il ruolo di Kato, cercando di attaccarlo a sorpresa a casa sua per testare le sue tecniche di combattimento e i suoi riflessi. Andare più in là a tutti i livelli, non ristagnare mai, avanzare sempre. Scoprire e far scoprire, e grazie a questo comprendere sia fisicamente che intellettualmente, insomma essere vivi.Per me è sempre stato importante non dipendere dalla mia arte per mantenermi nella vita quotidiana. Economicamente, questo mi ha portato ad essere in difficoltà per tanti, tanti anni, a stare attento ai centesimi nella vita di tutti i giorni, a non condurre una vita da consumatore “soddisfatto di se stesso”, ma forse è per questo che ho potuto approfondire la ricerca, e quindi insegnare.

La libertà

Senza libertà, nessun insegnamento di qualità è possibile! L’insegnante è responsabile di ciò che porta ai suoi allievi, della qualità, nonché delle basi e dell’essenza dei suoi corsi. Oggi tutte le discipline sono inquadrate da regole definite dalle strutture dello Stato, e questo provoca una corruzione del valore di un’arte, perché ciò che fa la ricchezza di una seduta di Aikido non può nascere da un contenuto banalizzato, edulcorato, “pedagogizzato”, ma molto di più dall’impegno di chi la conduce. Se i nostri maestri sono stati i nostri Maestri, lo devono più alla loro personalità che alla tecnica che insegnavano. È per questo che si riconoscevano fra loro, per il valore di ciascuno di essi, qualunque fosse la loro arte, il carisma, la personalità. Gli allievi avevano le proprie preferenze, secondo le proprie capacità, i propri gusti per questa o quella tendenza che pensavano di trovare qua o là.

TAO stile sigillare: piccolo sigillo. Calligrafia su tela di Tsuda Sensei.

Una relazione reciproca e asimmetrica

Ogni apprendimento deve basarsi sulla fiducia tra chi fornisce la conoscenza e chi la riceve, ma come suggeriva già Dante Alighieri nel XIII secolo, la relazione come la stima che intercorre tra il “maestro” e l’allievo devono essere “reciproche e asimmetriche” (V. Sermonti, L’Inferno di Dante, Emons Audiolibri – Canto XV). L’importante è che ci sia accettazione da entrambe le parti, non c’è un diritto o un dovere all’inizio, nessun obbligo di imparare, nessun obbligo di insegnare. La ricerca dell’uno e il beneplacito dell’altro creano questa asimmetria. Allo stesso tempo, vi è il riconoscimento reciproco dell’uno verso l’altro in relazione al valore di ciascuno. L’insegnamento non è un prodotto finito da acquistare e consumare senza moderazione. Impegna chi lo elargisce come chi lo riceve. È importante che colui che lo fornisce non sia nella rigidità di chi “sa”, ma nella fluidità di chi comprende e si adatta, senza ovviamente perdere il senso di ciò che dovrebbe comunicare e valorizzare. Il destinatario non è mai una pagina bianca su cui imprimere l’insegnamento e i propri valori; a seconda dell’epoca o anche più semplicemente delle generazioni, possono sorgere distorsioni e possono essere necessari degli adattamenti. È la fiducia reciproca che permette l’approfondimento in un’arte. Se sono solo le tecniche che dobbiamo affinare, pochi mesi o pochi anni sono sufficienti, poi possiamo passare ad altro. Ma potremmo ottenere una vera soddisfazione con un programma del genere?

La mnemotecnica che consiste nel dimenticare¹

Nell’Aikido come altrove in molti apprendistati, si richiede ai principianti di ricordare, se possibile con precisione, la tecnica, il suo nome, la forma da adottare in tali o talaltre circostanze. C’è ovviamente una certa logica in questo processo educativo, ma è diventata una condizione indispensabile nelle federazioni durante i passaggi di grado, di Dan e anche per i passaggi di Kyu. Questo sovraccarico del conscio è profondamente dannoso per il risveglio della spontaneità. Dopo un po’, l’apprendimento diventa non solo noioso, ma a volte anche controproducente, non si ha più voglia di imparare. Se ci si preoccupa del conscio, è perché è più facile da manipolare, specialmente quando è stato abituato a rispondere “presente” da anni di scolarizzazione e di manipolazioni. Ma se invece ci si accontenta di guidare il subconscio, si rimarrà stupiti nel vedere l’individuo svilupparsi in armonia con se stesso e quindi con chi lo circonda, senza bisogno di nascondere la propria natura con maschere sociali che turbano così tanto sia l’organismo che la psiche. Questo passaggio del libro di Tsuda Sensei “Anche se non penso SONO” fa luce sul lavoro del subconscio:”La nostra attività mentale non inizia solo con lo sviluppo della materia grigia, di quella parte cosciente che ci permette di percepire, ragionare e ricordare. Il conscio risulta dall’accumulazione delle esperienze che abbiamo avuto dalla nascita. Impariamo a parlare, a maneggiare utensili, a cominciare dal cucchiaio, per esempio. Il conscio non costituisce la totalità della nostra attività mentale. Ci sono strade, perché c’è la terra. Senza la terra non ci sarebbero strade. Chiamiamo ‘subconscio’ quella parte della mente che preesiste al conscio. Il subconscio lavora non solo dalla nascita fino alla morte, ma anche durante la gestazione, sentendo e reagendo nel grembo materno, cercando ciò che è piacevole e respingendo ciò che è sgradevole. E così il bambino scalcia quando si sente a disagio. Una volta che una sensazione o un sentimento penetra nel subconscio, controlla tutto il comportamento involontario dell’individuo che non può combattere efficacemente contro di esso con sforzi volontari.”

Regis Soavi aikido ma ai
Il “MA-AI” uno spazio inespugnabile e senza tempo.

Il ruolo del sensei

Il maestro, il sensei non è perfetto, e non ha la vocazione ad esserlo o a pretenderlo. È inutile e perfino dannoso, per lui come per certi allievi, che questi ultimi, nonostante la loro buona fede e senza volerlo, proiettino una tale immagine di perfezione, che non può che essere falsa, sulla sua persona come sul suo lavoro. Imperfetto ma solido, è l’anello di una lunga catena di insegnamento e realizzazione di vita, che, se spezzata, andrà perduta per sempre. Il suo ruolo non è quello di rinchiudere gli allievi in una Scuola, di costringerli, a volte insidiosamente, a una dottrina, ma di permettere a tutti di liberarsi dalla routine per sentire il flusso vitale che percorre questa catena immensa, come un canale di irrigazione capace di irrigare grandi spazi così come piccoli giardini. Occorre inoltre che il terreno sia stato lavorato, reso permeabile e pronto a far crescere in seguito quanto seminato nel corso della vita. Non riproducibile e non industrializzabile, l’insegnamento non potrà mai servire a far fruttare ciò per cui è stato concepito se non è compreso nella sua essenza o assimilato in profondità, dal successore o dai successori e posto al centro della propria vita.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 9 nel mese di appril del 2022.¹ Tsuda Itsuo, Même si je ne pense pas JE SUIS, Le Courrier du Livre, 1981, p. 59

Tra sottomissione e rabbia: la paura

di Manon SoaviTutti conoscono la paura a diversi gradi, ma non conosciamo tutti le stesse paure e quando si parla di un soggetto in modo generale, se ne parla al maschile. Se avere paura non è ovviamente appannaggio delle donne, ci sono specificità della paura al femminile nel nostro mondo ed è l’angolazione che ho scelto per riflettere su questo tema. La situazione delle donne è sempre una duplice o triplice pena. Se siete un uomo povero sarà difficile, ma se siete una donna povera, sarà peggio. Se siete immigrato, sarà difficile, ma donna immigrata sarà peggio e così via. C’è sempre un accumularsi, perché essere donna è già percepito come un “handicap”. L’argomento della paura e il suo rapporto con le arti marziali già in sé non è un argomento facile, al maschile. Ma al femminile è un’altra cosa. Al femminile, la paura è molto spesso una compagna quotidiana, dalle molteplici facce. C’è una vera e propria educazione alla paura nell’educazione delle ragazze. Allora se non è forse peggio che per gli uomini, credo che sia assolutamente necessario sentire anche questo punto di vista, perché come dice Howard Zinn “Finché i conigli non avranno degli storici, la storia sarà raccontata dai cacciatori…”. Le donne devono raccontare da sole il proprio vissuto. Raccontare ciò che la paura induce come rapporto con il mondo e ciò che fa al corpo.Per cominciare, come propone la filosofa Elsa Dorlin, bisogna guardare

“ciò che fa essere una donna”

Le donne hanno particolarmente familiarità con la paura perché crescono in un mondo che è loro piuttosto ostile. Il grado di ostilità dipende dalla regione del globo dove nascete. Ben inteso per ogni donna dipenderà dalla sua educazione e dal suo vissuto. Ciononostante si possono delineare delle grandi linee, delle tendenze delle società.Come si sa, è dall’infanzia che i ragazzi potranno sviluppare e sperimentare la propria agilità, la propria forza, il proprio corpo, il proprio potere? Invece lo spazio delle ragazze è molto spesso ridotto a giochi statici e a giocattolini carini. Le loro menti sono accaparrate da questa preoccupazione sull’apparenza, che devia e consuma la loro energia. I loro corpi non dispiegano le proprie potenzialità e non conosceranno la propria potenza, o raramente. Su questo s’innesta un intero mito della superpotenza maschile che alimenta una cultura di sottomissione e una norma, quella di una “femminilità senza difesa”. La filosofa Elsa Dorlin, che studia come i dominanti “disarmano” a tutti i livelli le popolazioni dominate, spiega la politica che consiste nel rendere impossibile, impensabile la possibilità di difendersi. Chiama questo fenomeno “la fabbrica dei corpi disarmati”. O ancora spiega come “si tratta qui di condurre alcuni soggetti ad annientarsi come soggetti […] Produrre degli esseri che più si difendono più si rovinano” (Elsa Dorlin Difendersi, 2020). È così che la paura è trasmessa in modo secolare. Essere donna è, talmente spesso, avere paura. Una paura che si sconnette dalle situazioni reali, che diventa un background, come una preda che s’ignora. Certo è talmente insopportabile che molte donne lottano contro questa paura. Alcune riescono più o meno a tirarsene fuori. Ciononostante, benché non sia molto piacevole da guardare, né da riconoscere, credo che sia necessario approfondire un po’ di più su questa posizione di preda.Elsa Dorlin analizza attentamente questo posizionamento culturale di preda che si applica alle donne da troppo tempo. Attraverso l’analisi di un romanzo (1) ne fa una dimostrazione flagrante di cui non posso che citare dei lunghi passaggi per farne comprendere il senso. Il personaggio del romanzo di chiama Bella. “Come milioni di altre, Bella è una giovane ragazza senza storia, di cui nessuno dovrebbe ricordarsi. Nella vita, lei non ha né ambizioni né pretese, neanche la felicità più semplice, la più stereotipata. [?] Bella è un’antieroina, un personaggio anonimo, una donna che passa via veloce, un’ombra tra la folla. E, Bella è comune a un punto tale che può rappresentare tutte le donne. [?] Chi non ha, almeno una volta, sentito la mediocrità esistenziale di Bella, il suo anonimato, la paura così familiare che l’accompagna, le speranze abortite, lo sfinimento rivendicativo, la claustrofobia di vivere in quello spazio striminzito, di sopravvivere nel suo corpo, nel suo genere, la sua umiltà nel sopportare le grane sociali, la sua unica esigenza di vivere tranquilla? Perché quasi tutti i giorni facciamo, in modo diverso e ripetitivo, l’esperienza di tutta questa miriade di violenze insignificanti che ci intossicano la vita, che mettono continuamente alla prova il nostro consenso. [?]Le prime pagine che descrivono la vita di Bella fanno emergere in filigrana qualcosa che potremmo definire fenomenologia della preda. Un’esperienza vissuta che proviamo in tutti i modi a sopportare, a normalizzare attraverso un’ermeneutica della negazione, tentando di dare un senso a questa esperienza svuotandola del suo aspetto invivibile, insopportabile. [?] Prova a vivere come sempre, a rassicurarsi facendo finta che vada tutto bene, a proteggersi facendo come se non fosse successo nulla, de-realizzando la propria percezione della realtà – in strada, proprio davanti a lei, un uomo la guarda dalla sua finestra giorno e notte, ma forse è lei a pensare che un uomo la guardi. Bella vive in questo sforzo costante che consiste nel dare pochissima importanza a sé: a ciò che prova, alle sue emozioni, al suo malessere, alla sua paura, alla sua angoscia, al suo terrore. Questo scetticismo esistenziale della vittima mostra una perdita di fiducia generalizzata che tocca tutto quello che è vissuto, percepito in prima persona. Poi, quando la negazione diventa impossibile, Bella sopporta: ripiegandosi su se stessa, nascondendosi nel suo appartamento, restringendo il suo spazio vitale che, nonostante i suoi sforzi, è violato. Vive nella banalità quotidiana di una preda che vuole ignorarsi, occupandosi dell’organizzazione della sua vita per salvarne il senso [?]” (ibid)Elsa Dorlin dimostra in questo passaggio questa fabbrica in azione sulle donne. Certo si tratta di un romanzo ma a volte è attraverso la fiction che si esprime meglio una realtà: questa paura paralizzante, più o meno permanente che si cerca di negare per continuare a vivere. Una paura inculcata, culturale, che impedisce di agire e che fa delle donne, ancora e sempre, dei corpi di vittime. L’abbiamo tutte più o meno fortemente sentita. Abbiamo tutte lottato contro questa paura per vivere malgrado tutto. Per rientrare tardi, per andare in viaggio da sole, per accettare un invito, per lavorare. Siamo obbligate a passare sopra questa paura altrimenti non facciamo niente.Sfortunatamente e paradossalmente questa paura inculcata e i nostri sforzi per passare al di là e cortocircuitano l’istinto, che include il timore necessario, quello che ci permette di sentire il pericolo e di reagire, in un modo o in un altro.

Fenomenologia della preda

La vera preda, l’animale cacciato da un predatore esterno alla propria specie, ha una grande attenzione per se stessa e accorda un’immensa fiducia a tutti i segnali di paura istintiva. Rifiutando di accordare quest’attenzione a sé, le donne si mettono ancora maggiormente in pericolo. Seguendo sempre l’analisi del romanzo Dorlin prosegue “La storia di Bella è anche la storia di un vicino, un uomo qualunque che abita nel palazzo di fronte e che un giorno ha deciso di violentarla. Perché? Perché Bella sembra così patetica, così fragile, così già ‘vittima’. E, se siamo tutte un po’ Bella, è anche perché, come Bella, abbiamo dapprima cominciato a non uscire più a una certa ora, in certe vie, a sorridere quando uno sconosciuto ci parla, ad abbassare lo sguardo, a non rispondere, ad accelerare il passo quando rientriamo a casa; ci siamo assicurate di aver chiuso bene a chiave le porte, tirato le tende, di non muoverci più, di non rispondere più al telefono. E, come Bella, abbiamo speso molte energie a credere che la nostra percezione di questa situazione non fosse degna di senso, che non avesse valore, realtà: a dissimulare le nostre intuizioni ed emozioni, a far finta che non stesse succedendo niente di rivoltante o, al contrario, che forse, sì, era inaccettabile essere spiata, molestata o minacciata, ma che eravamo noi a essere di cattivo umore, che stavamo diventando intolleranti, paranoiche, o che eravamo sfortunate, che questa “roba” poteva capitare solo a noi. Precisamente, l’esperienza di Bella è una somma di briciole di esperienze generalmente condivise ma anche la descrizione minuziosa di tutte queste tattiche prosaiche, di tutto questo fenomenale lavoro (percettivo, affettivo, cognitivo, gnoseologico, ermeneutico) che facciamo ogni giorno per vivere “in modo normale”, che dipende dalla negazione, dallo scetticismo e che rende indegno tutto ciò che ci riguarda. ” (ibid)Questa mancanza di attenzione a sé, al proprio sentire, comincia nell’infanzia, è allora che si opera la distorsione della percezione. Quante bambine sentiranno “Ti maltratta/ti picchia perché ti ama molto. È un maschio, è normale.” Esplicitamente o implicitamente si insegna alle bambine a non ascoltarsi. Che induce nelle donne adulte questa situazione paradossale, sentirsi preda, aver paura, ma dovendone negare senza sosta i segnali. Perché il predatore, il nemico non è di un’altra specie! Un coniglio non avrà mai il minimo dubbio sulle intenzioni di una volpe. Ma per noi che siamo della stessa famiglia, egli è nello stesso tempo un potenziale nemico ma può essere invece un amico, un amante, un marito, un padre, un padrone, un collega? Come mantenere il discernimento? Queste ingiunzioni paradossali avvelenano costantemente la vita della maggior parte delle donne. Allora lottiamo contro la paura con l’energia della disperazione. Cerchiamo bene o male di affermarci in questo mondo. E un giorno scoppia, allora la rabbia rimpiazza la sottomissione. A volte ci permette di reagire ma spesso distrugge tutto intorno.

Cosa può l’Aikido in questo stato di cose?

Credo che sia possibile camminare verso un cambiamento di questo stato di cose attraverso il corpo. Perché bisogna precisare che quest’atto di dominazione agisce molto profondamente a livello dei corpi, «L’oggetto di quest’arte di governare è l’impulso nervoso, la contrazione muscolare, la tensione del corpo cinesico, la scarica dei fluidi ormonali; opera su ciò che lo eccita o lo inibisce, lo lascia agire o lo contrasta, lo ritiene o lo provoca, lo rassicura o lo fa tremare, quello che lo fa colpire o meno” (ibid)Nell’educazione delle ragazze, come per le donne adulte, la pratica dell’Aikido sul lungo termine apre una prospettiva inedita. Un giorno, in occasione di una seduta di Aikido che conduceva mio padre, Régis Soavi, insegnante a Parigi da cinquant’anni, egli ha detto: “Prima di affermarsi, bisogna posizionarsi.” Questa frase mi ha colpito come la definizione perfetta di ciò che poteva essere l’Aikido per le donne. Invece di tentare di affermarsi, di rivendicare di fronte a una società che non ci ascolta o che rifiuta la nostra percezione, imparare prima a posizionarsi. Posizionarsi nel senso marziale del termine, quindi una questione di Shisei. Alla fine non essere una preda è una posizione, una postura. Non si tratta di essere un coniglio che si arma per difendersi ma, tramite la propria postura interiore, di dire “puoi essere una volpe, ma guarda, anch’io sono volpe e non coniglio”. Quando siamo posizionati, l’affermazione è là.

Posizionarsi prima di affermarsi

L’Aikido permette di creare delle nuove pratiche di sé che trasformano la nostra realtà e i nostro rapporti.La prima tappa è ritrovare, non il neutro illusorio, ma l’indeterminato, la sensazione della vita, prima delle separazioni. Nella nostra scuola, la Scuola Itsuo Tsuda, cominciamo con una meditazione, poi per una ventina di minuti pratichiamo dei movimenti e degli esercizi di respirazione che, benché possano assomigliare a un riscaldamento, non lo sono. Si potrebbe dire che si tratta di una comunione con lo spazio, con la vita che ci circonda. È un momento in cui ognuno è in sé e con gli altri in una respirazione comune indeterminata. Ueshiba O sensei diceva “Io mi posiziono all’inizio dell’universo”. Quest’indicazione, sebbene possa apparire strana, ci dà in effetti una prospettiva molto più vasta che un semplice esercizio. Dimenticare chi siamo, dove siamo e semplicemente respirare. Progressivamente la respirazione si approfondisce e la calma nasce, si comincia a ritrovare l’individuo, prima delle categorizzazioni, delle separazioni, della cultura. È un po’ come soffiare sulle braci per rianimare un fuoco che si spegne.Man mano che si pratica soli-e o a due, i corpi si liberano, i movimenti si dispiegano. Una pratica regolare, quotidiana se possibile, su un certo tempo, è necessaria per rimodellare il nostro rapporto con il mondo, poco a poco. Per ritrovare un corpo che abita il proprio spazio, che occupa la strada, che instaura un altro modo di essere. Come ho detto non si tratta di diventare delle superdonne, capaci di difendersi come delle eroine. Di rendere colpo su colpo. Si tratta di rieducare il nostro corpo e la nostra mente per avere un Shisei, un posizionamento diverso nelle nostre vite. Si tratta appunto di non ritrovarsi più “preda” ignorando i segnali d’allerta.Il ruolo dell’insegnante è di fare Uke il più possibile per aiutare i-le praticanti a sentire tutte le possibilità che si offrono loro, gli Atemi, il Ma-ai, il Hyoshi, tutto quello che farà la differenza prima di essere completamente bloccati-e. Se la paura ci sommerge si sovrastimerà l’attaccante e, pietrificati-e, la situazione peggiorerà. A forza di praticare si riesce a mantenere una respirazione più calma e, senza sovrastimare se stessi-e, a posizionarsi. È per questo che l’attacco deve essere ben portato, rappresentare un certo pericolo senza bloccare totalmente.Ciò ci permetterà anche di non ristagnare in una situazione prima di reagire, che sia famigliare, al lavoro, o altrove. E nello stesso tempo di non essere più intossicati-e da paure inutili, da angosce che non corrispondono alle situazioni che ci fanno ripiegare su noi stessi-e. Attenzione, non dico che le vittime di aggressioni avrebbero dovuto reagire, sappiamo che il restare paralizzati è una strategia di protezione dell’essere umano e che a volte la miglior cosa da fare è non battersi per non morire. Il mio discorso non riguarda per forza le situazioni estreme, di grande violenza, ma piuttosto quelle banali, cosiddette “poco gravi”, di cui abbiamo una paura inculcata e che per accumulazione sono devastanti.Non è semplice cambiare, uscire dal dualismo della sottomissione o della rabbia. È per questo che è tramite la pratica che il corpo si riscopre capace e che la mente si placa, si tranquillizza. Nella storia che ho citato, quella di Bella, il romanzo non comincia veramente che nel momento in cui per Bella la situazione si ribalta, il momento in cui infine, considera che finalmente basta così. Allora prenderà un martello. È stupita di aver finalmente la forza di sollevarlo, stupita che fosse sempre stato lì, a portata di mano. E il gioco al massacro comincia, al punto che questo romanzo farà scandalo in Inghilterra per la violenza della seconda parte.Per me non si tratta di legittimare la violenza di questo romanzo; questo detto, quante grandi opere, dal romanzo storico al western, da Ben Hur al Conte di Montecristo hanno fatto della vendetta la forza d’azione per degli uomini? Ma lasciamo stare. Credo che possiamo avere questa rivelazione della nostra potenza molto prima di arrivare agli estremi della distruzione di sé o degli altri.Man mano che si pratica un Aikido che ci riconcilia con noi stessi-e, si può ritrovare la sensazione della potenza. Non una potenza che schiaccia gli altri, ma la potenza che viene dall’hara, dal centro dell’umano. È un percorso centripeto che chiamiamo a volte empowerment quando delle persone s’impossessano di modi di essere, di pratiche di sé per smantellare le dominazioni che vengono esercitate su di loro e riprendere il potere sulla propria vita. Negli anni 60/70, delle femministe americane hanno usato questo termine per mettere in risalto una liberazione non dettata dall’esterno, in cui verrebbe detto ancora una volta alle donne ciò che devono essere, ciò che è “una libera donna occidentale”, ma piuttosto un’emancipazione centripeta, che si basi sui mezzi di cui ognuna dispone per rispondere da sola alle situazioni problematiche. In questa prospettiva l’Aikido può essere un processo di empowerment che permette di ravvivare le proprie risorse interne e di minimizzare il “disturbo radio” della paura culturale. Allora il nostro Shisei, il nostro atteggiamento sarà come quello dell’uccello del proverbio: “L’uccello non teme che il ramo ceda, perché non ha fiducia nel ramo, ma nelle proprie ali”.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Manon Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 8 nel mese di gennaio del 2022. Note:1) Elsa Dorlin Difendersi, Fandango, 2020, traduzione italiana di Se défendre, La Découverte, 2019. Analisi del romanzo d’Helen Zahavi. Dirty Week-end, del 1991.

La paura, un’origine acquisita congenitamente?

di Régis SoaviLa paura ha una doppia origine, è prima di tutto una risposta primitiva, atavica, già perfettamente nota, ma ha anche un’origine acquisita congenitamente, ed è quindi proprio per questo una conseguenza della civiltà.Sebbene possa essere uno dei mezzi di difesa per la sopravvivenza, troppo spesso è diventata un handicap nelle nostre società industrializzate.La paura nel mondo di oggi tende a precedere quasi ogni azione per un gran numero di persone e non compare per caso, si presenta sotto forma di – ho trovato trentadue sinonimi per questa emozione – timore, apprensione, inquietudine, angoscia, ecc., questi ultimi intersecandosi si demoltiplicano(1) Ogni volta essa annulla l’atto, il gesto, l’iniziativa, o li distoglie dall’obiettivo prefissato, presentandosi come se fosse “la” risposta indispensabile ad ogni problema che si pone.

La respirazione, il suo meccanismo

Il blocco della respirazione e le difficoltà respiratorie di molti nostri contemporanei in caso di aggressione o, soprattutto, di minaccia di un conflitto possono essere spiegati con un meccanismo selvatico involontario, cioè primitivo, che si è irrigidito. Si tratta più di un’abitudine che è nata proprio dalla paura piuttosto che di una mancanza di allenamento a combatterla o a superarla. Blocchiamo l’aria, la comprimiamo, per rispondere nel modo più adatto a ciò che potrebbe accadere. Tratteniamo il respiro, “il fiato” per essere pronti ad agire, immagazziniamo aria con una rapida inspirazione perché per agire, per difenderci, per fuggire, o anche semplicemente per gridare, bisogna espirare. È l’espirazione che permette l’azione aggressiva o difensiva e quindi è l’ispirazione che, precedendola, ci rassicura perché ci posiziona in modo vantaggioso rispetto agli atti che sembrano inesorabilmente seguire. Istintivamente agiamo in questo modo ogni volta che pensiamo di doverci difendere, e questo fin dall’infanzia. In realtà, a prescindere dall’intenzione, non sempre possiamo difenderci, la società non lo permette, ci sono delle regole. In molti casi siamo costretti a rimanere in ansia, bloccati, con il fiato corto senza riuscire a liberarci. Basta ricordarsi della propria infanzia o adolescenza, delle proprie reazioni fisiche durante gli esami o semplicemente di quando uno dei nostri insegnanti interrogava a sorpresa o ci faceva una domanda su un argomento che non avevamo studiato abbastanza, o che avevamo saltato. Ci sono troppe persone per le quali la scuola ha rappresentato un percorso tragico durante il quale l’ansia, per quanto interiorizzata, è stata una delle loro più fedeli compagne nell’avversità. Non è così sicuro che, parafrasando l’aforisma di Nietzsche, “ciò che non ci uccide ci rende più forti”. Dipende troppo dall’individuo, dal momento e dalla situazione, tra le altre cose. Le difficoltà nell’infanzia non sono sempre all’origine di facoltà di resistenza o di resilienza come qualcuno potrebbe pensare, ma possono causare debolezze o handicap e questo spesso deriva in gran parte dal punto di partenza, dalla nascita, dall’ambiente familiare, ecc. Ma essendo la paura divenuta una reazione primaria abituale, un a priori che sorge in ogni circostanza, la soluzione adottata dal corpo attraverso un sistema involontario perturbato rimane sistematicamente la stessa: bloccare la respirazione. Quella che era la risposta corretta, diventa il suo opposto. “La soluzione diventa il problema”(2). Il corpo non riesce più ad espirare o a muoversi, nemmeno a parlare, tanto meno ad urlare. Se qualcosa si sblocca per qualsiasi motivo, allora arriva l’espirazione e con essa l’azione si rivela, il bisogno trova una risposta alla situazione, la paura passa in secondo piano e lascia il posto a reazioni che a volte verranno considerate anche come coraggio o incoscienza, codardia o buon senso a seconda del momento o dell’idea che se ne ha.

Régis Soavi - Essere istintivi
Essere istintivi

Una preesistenza alla nascita

È soprattutto dalla metà del XX secolo che nacque l’ideologia della conservazione della specie umana tramite la protezione delle manifestazioni della vita. Questo concetto di protezione impegnò la società occidentale in una corsa alla medicalizzazione dei corpi che non era mai stata nemmeno immaginata fino a quel momento. Questa profilassi, che poteva essere intesa come una risposta moderna e salvifica, è stata purtroppo effettuata facendo suonare campanelli d’allarme per semplici rischi che prima erano considerati normali e che erano intrinseci alla vita. Provocando così, tramite la paura che hanno generato, un effetto nocebo di un’ampiezza senza eguali in passato.La prevenzione in gravidanza è diventata negli anni una iper-medicalizzazione che si è banalizzata, e che ha privato in primis la donna, ma anche il padre, seppur in misura minore e per ripercussione, di un rapporto semplice con il corpo, con il proprio corpo. La gioia di portare in grembo un bambino, e la forza che ne deriva, si è trasformata in angoscia per ciò che accadrà, e anche per il suo presente nell’utero, la vita del futuro bambino che subisce il trauma della contrazione che sente, e che è causata dall’inquietudine dei suoi genitori. Purtroppo, l’inquietudine viene trasmessa più di quanto si pensi. Nonostante il desiderio del contrario, della serenità che vorremmo assicurare al bambino, questa preoccupazione si trasforma rapidamente in paura, timore del movimento, dei cambiamenti, e più in generale in apprensione di fronte all’ignoto. Le conseguenze sono facilmente prevedibili: rischi di shock emotivi e fragilità di fronte alle difficoltà che possono persistere nella vita futura del bambino. Durante il parto, se manca la tranquillità, se viene sostituita dall’agitazione o dall’ansia, si creano una tensione e una contrazione che bloccano la respirazione del neonato che non capisce cosa sta succedendo ma ne soffre visceralmente senza poter far nulla. A poco a poco, durante la crescita, la mancanza di risposta a questa incomprensione genererà inizialmente pianti e grida, poi una certa forma di apatia, di rinuncia, con l’abbandono della lotta se non si trova una soluzione soddisfacente a questa richiesta.

Taiheki uno strumento per la comprensione

Ho già avuto modo di spiegare su “Dragon Magazine”(Dragon Magazine Spécial Aîkido, n° 23, janvier 2019.) come la conoscenza dei Taiheki può essere uno strumento di qualità in particolari circostanze per comprendere le reazioni delle persone. La classificazione dei Taiheki sviluppata da Haruchika Noguchi sensei(3) si basa sul movimento involontario umano. Non si tratta di una tipologia che consente di inserire gli individui in piccole caselle, ma di identificare le tendenze comportamentali abituali, tenendo conto delle compenetrazioni che possono esserci tra di loro. Itsuo Tsuda sensei ce ne dà una rapida descrizione in questo estratto di uno dei suoi libri:«I 12 tipi di Taiheki sono i seguenti:1. cerebrale attivo 5. polmonare attivo 9. bacino chiuso2. cerebrale passivo 6. polmonare passivo 10. bacino aperto3. digestivo attivo 7. urinario attivo 11. ipersensibile4. digestivo passivo 8. urinario passivo 12. apaticoDa 1 a 10 si vedono le regioni di polarizzazione che sono 5:cervello, organi digestivi, polmoni, organi urinari, bacino.11 e 12 sono un po’ speciali, perché corrispondono a delle condizioni più che a delle regioni.Per una stessa regione, si ha un numero dispari e un numero pari. I numeri dispari si applicano alle persone che agiscono per eccesso di energia, a seconda della regione interessata. I numeri pari sono per quelle persone che subiscono l’influenza esterna a causa di una carenza di energia.» (Itsuo Tsuda, Il Non-Fare, Yume Editions, 2014, p. 79.)Di fronte al pericolo quando si ha paura le risposte saranno molteplici, ma non lo saranno solo in base all’allenamento o alle capacità, ma anche, e soprattutto, a causa della circolazione del ki nel corpo, di questa energia che può essere coagulata in un punto o in un altro, portando a ristagni specifici e quindi risultati e risposte differenti.no

Régis Soavi - Non lasciarsi sopraffare
Non lasciarsi sopraffare
Gruppo verticalePerché l’azione si attivi, il ki deve andare al koshi ma quando c’è una coagulazione a livello della prima vertebra lombare, l’energia sale al cervello e ha difficoltà a ridiscendere. Ecco perché le persone di tipo uno, cerebrale attivo, tenderanno a sublimare la paura, a oggettivarla, a farne un oggetto da contemplare per analizzarla, e trovare una soluzione che soddisfi l’intelletto, perché l’azione, soprattutto un’azione immediata, non è la loro principale ambizione. Spesso fraintendiamo questo tipo di posizioni che possono sembrare stupide. Ci si chiede perché la persona non ha reagito in tali o tali circostanze, si troverà forse grazie ai Taiheki una risposta alle domande che ci si può porre sul mistero di certi comportamenti umani.Le persone di tipo due, cerebrale passivo, sono del tutto consapevoli di ciò che sta accadendo, ma il loro corpo non reagisce come aveva pensato il cervello, sebbene non ci sia nulla di imprevedibile. Non possono controllare la propria energia, che in questo caso scende, ma provoca reazioni fisiche incontrollabili come dolori di pancia o tremori che rendono difficile una risposta adeguata.Gruppo lateraleIn questo gruppo la coagulazione è localizzata a livello della seconda lombare e interessa l’apparato digerente. Ecco perché il tipo tre, digestivo attivo, va in panico mentre cerca di placare la paura, sgranocchia velocemente qualcosina che ha sempre a portata di mano in caso di necessità. Se ha un po’ più di tempo, mangia qualcosa di più sostanzioso, un panino, un pasticcino, l’importante è avere lo stomaco pieno; è grazie a questo che il suo plesso solare si ammorbidisce e la paura diminuisce o addirittura svanisce. Allora diventa diplomatico e cerca di sistemare le cose; se non ci riesce, allora si arrabbia e si lancia in modo disordinato, senza pensare alle conseguenze.Il tipo quattro, digestivo passivo, rimane inerte di fronte alla paura, incapace di reazioni. È una persona affabile e sembra quasi che la cosa non lo riguardi. Dall’esterno si vede molto poco della sua natura perché ha difficoltà ad esprimere le sensazioni o i sentimenti. Dal punto di vista dell’azione si presenterà come una persona premurosa, cortese, che cerca di appianare le cose, di sdrammatizzare la situazione.Gruppo avanti-indietroIl tipo cinque, polmonare attivo, ha tendenza ad inclinarsi in avanti, il che facilita l’azione energica; la regolazione o la coagulazione, o anche il blocco della sua energia si trovano a livello della quinta lombare.Quando si trova di fronte ad un pericolo, e quindi di fronte alla paura, lo vede come un faccia a faccia. Agisce spesso in modo estroverso, ma è anche uno che ragiona, che calcola; se la paura che prova è logica, la affronterà in modo metodico e si tirerà indietro solo se entra in gioco il suo interesse, cioè, se rischia di rimetterci le penne. Agisce a sangue freddo perché si è preparato, per lui l’allenamento ha sempre una ragione di esistere, al di fuori da ogni sentimento.Il tipo sei, polmonare passivo, invece, è introverso, inibito, ha un senso di frustrazione, ma d’altro canto si infiamma velocemente, soprattutto a livello verbale; di fronte alla paura si irrigidisce ancora più del solito ma può o esplodere come durante una crisi di isteria o rinchiudersi come un’ostrica, tenere il broncio e aspettare.
Régis Soavi - La postura è essenziale
La postura è essenziale
Gruppo torsioneIn questo caso la vertebra interessata è la terza lombare, è quella più in avanti rispetto all’asse della colonna vertebrale, è anche il perno a partire dal quale il corpo si muove dal punto di vista della rotazione. Senza rotazione di questa vertebra e senza curvatura lombare c’è poca possibilità di azione del koshi.Il tipo sette, urinario attivo, si torce in modo tale da proteggere i propri punti deboli, sia fisici che psichici, non vuol sapere nulla della paura, vuole ignorarla, e funziona. Sa che non può combatterla se non a rischio che essa si rafforzi e lo blocchi nella sua azione, ritiene che bisogna soprattutto non pensare, bisogna tirar dritto, costi quel che costi. Viene spesso considerato come un eroe o un incosciente, se ne frega, semplicemente non può resistere a ciò che lo spinge in avanti, l’azione è la sua ragione di vita e il suo modus operandi.Il tipo otto, urinario passivo, ha il koshi che diventa duro e il suo spirito combattivo si tende interiormente. D’altra parte, tende a fare il gradasso e si offende per un nonnulla. Affronta la propria paura se c’è un pubblico, o se viene messo in competizione, se un avversario lo sfida. Anche se non può vincere, si ostina in modo da non perdere, mentre il tipo sette vuole assolutamente trionfare. Esagera le condizioni che lo hanno portato ad avere paura e poiché ha una voce forte, a volte può imporsi con i suoi soli schiamazzi.Gruppo bacinoNel caso delle persone di tipo nove o dieci, la polarizzazione avviene in tutto il corpo. Si potrebbe dire che c’è una tendenza alla tensione, alla concentrazione, per gli uni e al rilassamento, o addirittura alla lassità permanente, per gli altri.Nel tipo nove, bacino chiuso, è la tensione a prevalere. Non ha paura facilmente perché il suo intuito gli permette di percepire il pericolo prima che si manifesti. In ogni caso, la paura, anche se presente in un dato momento, non lo ferma mai nelle sue iniziative. È una persona per la quale l’intuizione è più importante della riflessione. È vigoroso ma d’altra parte estremamente ripetitivo, è tenace e piuttosto introverso. La sua energia è interiorizzata a livello del bacino. Rappresenta un esempio per chi vuole osservare la continuità negli esseri umani.Il tipo dieci, bacino aperto, è il più capace di dissipare energia. Di fronte alla paura trova più forza per proteggere gli altri che per la sua protezione personale; si pensa che agisca per gentilezza, di fatto agendo così dimentica la propria paura e le proprie difficoltà. In caso di pericolo, se è solo, lungi dal cercare di combattere può cercare di fuggire, perché ciò che conta è rimanere in vita e quindi può facilmente essere considerato un codardo, mentre se sono in gioco altre vite è il suo istinto primordiale per la sopravvivenza che scaturisce in modo involontario “per assicurare il futuro della specie umana”. Rischia di soffrire a causa dell’opinione degli altri che ovviamente non lo capiscono in questo genere di casi, e che per questo reagiscono secondo la morale o idee inculcate sul coraggio.Tipo undici detto “ipersensibile”Reagisce molto rapidamente difronte alla paura perché vi è abituato, ma questa reazione non produce un’azione, essa sembra piuttosto avere un carattere emotivo ed egli ha una forte tendenza ad esagerarla. Anche se non succede quasi nulla, egli drammatizza perché si produce in lui un’accelerazione del cuore non appena il suo Kokoro viene turbato, può facilmente svenire o sviluppare un attacco d’asma. A causa della sua sensibilità esacerbata, è il candidato ideale per ogni tipo di derisioni, anche se vi sfugge, sa che può diventare un capro espiatorio e subire vessazioni alle quali non saprebbe come rispondere.Tipo dodici detto “apatico”Affinché possa reagire di fronte alla paura, ha bisogno di ricevere ordini chiari. Anche se si presenta con un corpo robusto e squadrato, questa è solo un’apparenza in quanto non sa come reagire, a volte lo fa in modo troppo forte, o lascia perdere. Ha tendenza a seguire la massa, ad agire se gli altri intorno a lui agiscono, a fare come tutti o ad aspettare subendo.Poiché la società tende a iperproteggere i cittadini, negando loro anche il diritto di difendersi da soli, salvo in determinate circostanze molto inquadrate dalla legge, si produce un intorpidimento degli individui che rischia di favorire una direzione che plasma corpi di tipo dodici qualunque sia il Taiheki di partenza.
Senza incidenti, così va l'uomo dabbene, calligrafia di Itsuo Tsuda
Senza incidenti, così va l’uomo dabbene, calligrafia di Itsuo Tsuda

Aikido, una speranza

La normalizzazione del terreno non avviene combattendo la paura. Se questo qualcosa che continua a vivere in noi, che aspira a una maggiore libertà, non si risveglia, è una lotta che rischia di essere solo superficiale. L’insegnamento dell’Aikido mira a rendere gli individui indipendenti e autonomi e non a formare combattenti, ciò non toglie nulla al fatto che si tratta dell’apprendimento di un’arte marziale. Si può imparare perfettamente la falegnameria o la musica senza voler diventare un professionista, ma essendo un appassionato capace di fabbricare un tavolo, o un armadio, capace di apprezzare una sinfonia, come pure un quartetto o un lied. Se si ha una buona formazione, si saprà reagire in modo corretto in ogni circostanza, si saprà valutare la situazione, si sentirà quando bisogna intervenire e come, o se ci si deve astenere da qualsiasi intervento. La pratica dell’Aikido trasforma le persone indipendentemente dal loro passato, dalle loro tendenze, ma solo a condizione che accettino di fermarsi nella loro folle corsa all’acquisizione di tecniche psichiche o fisiche che dovrebbero fornire la soluzione a tutti i problemi, a tutte le paure. La liberazione se è necessaria, a volte può anche venire dall’atto che consiste in un “indietro tutta”, per ritrovare l’equilibrio e la forza che ognuno di noi possiede e che aspettano solo di sorgere, di dispiegarsiVolete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 8 nel mese di gennaio del 2022.Notes :

  1. In francese “démultiplier” significa “aumentare la potenza di qualcosa moltiplicando i mezzi utilizzati”, esiste però anche un senso figurato che in italiano manca.
  2. Paul Watzlawick, teoria di Palo Alto.
  3. Haruchika Noguchi, ideatore del Seitai (1911-1976).

 

La Pratica Respiratoria

di Régis SoaviÈ consuetudine in quasi tutti i dojo chiamare i pochi esercizi che precedono un corso, “preparazione” o “riscaldamento”. E se non si trattasse di ginnastica o educazione fisica, ma di qualcos’altro! Tsuda sensei scriveva(1) che il suo maestro Morihei Ueshiba era furioso quando, già all’epoca, e sebbene non le avesse mai dato un nome, i suoi giovani allievi chiamavano questa parte esercizi preparatori o riscaldamento.

Una prima parte!

Per O sensei questa prima parte della seduta era indispensabile e inseparabile dall’insieme della sua pratica; per questo Tsuda sensei da parte sua, in mancanza d’altro, quando doveva parlarne ai suoi allievi o descriverla, le aveva dato il nome di “Pratica Respiratoria”. Spiega la sua scelta della parola “respirazione” – che per lui sarà una parola chiave per trasmettere un messaggio agli occidentali – fin dal primo capitolo del suo primo libro Il Non Fare: «Quando uso la parola respirazione, non parlo di una semplice operazione biochimica di combinazione ossigeno-emoglobina. La respirazione è allo stesso tempo vitalità, azione, amore, spirito di comunione, intuizione, premonizione, movimento.L’Oriente conserva ancora questi aspetti sotto il nome di prana o di quello di ki.Anche l’Occidente sembra averli conosciuti: ne sono testimoni la parola psyché, anima-soffio, o anima, da cui derivano parole come anima, animare, animale, animosità o spiro, da cui abbiamo tratto parole come spirito, ispirazione, aspirazione, respirazione.»(2) Questi esercizi di respirazione, di circolazione della nostra “energia vitale”, del nostro ki, sono ancora oggi di fondamentale importanza per me.

La ripetizione

Non posso davvero descrivere cosa c’è di diverso nella nostra Scuola rispetto a quanto si fa in altri luoghi, né farne l’apologia, perché sta ad ognuno farsi un’idea su ciò che riceve, su ciò che sente. Ogni insegnante di ogni Scuola o gruppo, per l’insegnamento che ha ricevuto, per il suo percorso, i suoi studi, avrà il proprio metodo, la propria pedagogia, adatta tanto a se stesso quanto ai suoi allievi. Alcuni usano nuove tecniche, attingono ad altre culture, cercano altri metodi di educazione, utilizzano una psicologia dell’apprendimento più moderna. Nulla è da denigrare, tutto è possibile e tutto è giustificato a priori per fare in modo di far vivere al meglio la nostra pratica, di trasmettere l’essenziale: “l’universalità del messaggio di pace di O sensei”. Una delle critiche che si possono fare alla “Scuola Itsuo Tsuda” è che è piuttosto ripetitiva e conservatrice. In effetti, questa prima parte che facciamo ogni mattina, non è cambiata da quando il mio maestro ha iniziato a insegnarla all’inizio degli anni settanta. Quanto a me, non essendone mai stanco, non ho mai, in più di cinquant’anni di pratica quotidiana, sentito il bisogno di cambiare qualcosa, né per me, né per i miei allievi. È anche questa ripetizione che permette un approfondimento della nostra respirazione e di conseguenza una scoperta dei princìpi che governano tutti i movimenti della nostra pratica.

Norito
Norito

I fondamenti di questo lavoro

Questa prima parte segue un ordine logico che le è proprio, e mi sembra inutile dettagliarne tutti i movimenti. Tuttavia, alcuni punti devono essere chiariti e in particolare che cosa la rende qualcosa di diverso da ciò che la maggior parte degli aikidoka generalmente conosce. Dopo il saluto verso il Kamiza, c’è una meditazione in seiza di qualche minuto, e la recitazione del Norito “Misogi no harae” da parte di colui che conduce la seduta. Si inizia quindi con un esercizio volto a liberare la regione del plesso solare da tutte le tensioni accumulate. Questo movimento deriva dal Katsugen undo, fu introdotto da Tsuda sensei e deriva dall’insegnamento del suo maestro di Seitai Haruchika Noguchi sensei. Per il resto, tutti gli esercizi che seguono sono stati insegnati per anni da O sensei. Non rivendico un ritorno alle origini, un’autenticità unica e nascosta fino ad oggi, di fronte alle distorsioni che sarebbero state causate da cattivi insegnamenti, perché è noto che O sensei variava gli esercizi di questa prima parte. Eppure, per quanto ne sappiamo, ce n’erano alcuni che non cambiavano mai. Il Saluto alle otto direzioni, o Funakogi undo(3) e Tama-no-hireburi(4) sono tra questi. Gli ultimi due hanno ritmi specifici, una respirazione precisa e un protocollo particolare rispetto alla direzione verso cui girarsi o quante volte eseguirli. Sarebbe noioso e forse anche azzardato descriverli in un articolo, perché vanno insegnati direttamente da maestro ad allievo sui tatami. Per quel che riguarda gli altri esercizi, ciò che più conta in tutti questi gesti non è il numero di volte che vengono eseguiti, né la velocità, né la forza, ma piuttosto l’intensità della vibrazione percepita da tutto il corpo in quel momento. Vale lo stesso discorso per il Kiai che la persona che conduce la seduta emette alla fine della Prima parte. Anche in questo caso, non è né la potenza del grido, del suono, né la sua intensità, ma sono la natura dell’atto, la profondità della respirazione, l’esattezza del momento e la concentrazione richiesta, legati alla correttezza della sua esecuzione, che trascendono l’azione per farne una risposta adeguata, un processo di normalizzazione del corpo. Ogni esercizio durante questa parte deve essere eseguito in uno stato di coscienza specifico. Bisogna concatenarli con la stessa concentrazione che impiegheremmo se da essa dipendesse la nostra vita, o almeno la nostra salute; e nello stesso tempo il rilassamento è indispensabile per la loro buona esecuzione. Il miglior atteggiamento possibile è quello di essere raccolti e allo stesso tempo senza pensieri, il che richiede alcuni anni di apprendimento, ma soprattutto, perseveranza.

La necessità di un contesto adeguato

Non posso non insistere sull’importanza dell’ambiente quando si intende fare la Pratica respiratoria in uno stile simile a quello che facciamo nella nostra Scuola. L’atmosfera che si respira in un dojo dedicato è di tutt’altra natura se la paragoniamo a quella che si trova in un club o in una palestra. Se inoltre in questo luogo dedicato siamo riusciti a creare un Tokonoma(5) in cui sono posti un Kakejiku(6) e un’Ikebana(7), la qualità della concentrazione, il rispetto del silenzio saranno più facili. Sarà così più agevole impregnarsi, immergersi in un ambiente che favorisce questa ricerca. Grazie a questo ambiente potremo trovare il modo di eseguire i gesti, le sequenze, che, un po’ come una coreografia che non ha mai nulla di superficiale, fanno muovere il corpo in modo da renderlo più permeabile alla percezione dei flussi interiori, rendendolo più morbido, oltre che più reattivo. Si tratta semplicemente di ritrovare il cammino intrapreso dai sensei del passato, di capire perché chi ci ha guidato, tutti quelli che ho conosciuto o talvolta semplicemente incrociato durante stage, o incontri, seguivano molti di questi “riti” senza porre domande in gioventù, ma cercando poi le risposte dentro di sé.

Funakogi undo
Funakogi undo

La scoperta dello Yin e dello Yang

È ne La via degli dei che Tsuda sensei riporta questo avvertimento di Madame Nakanishi(8), grande maestra nell’arte del Kotodama(9) :«”Dopo la scomparsa dell’iniziatore, i kata, le forme, cominciano a decomporsi perché i successori non sono in grado di capire cosa abbia motivato l’iniziatore nel profondo. Si ereditano le forme, le si semplifica, le forme degenerano”, ha detto la signora Nakanishi.L’Aikido, concepito come movimento sacralizzato dal Maestro Ueshiba, sta scomparendo per lasciare il posto all’Aikido atletico, sport di combattimento, più conforme alle esigenze dei civilizzati.»(10)Queste osservazioni di due grandissimi maestri, Nakanishi sensei e Tsuda sensei, avrebbero potuto scoraggiarmi del tutto, eppure è proprio questo tipo di frasi che mi ha stimolato e spinto in avanti. La scoperta dello Yin e dello Yang, è proprio in questa prima parte che possiamo farla perché è una pratica “solitaria”. Niente può turbarci finché rimaniamo concentrati sulla percezione di ciò che sentiamo, è come una corrente interiore che a poco a poco si traduce in termini di Yin e Yang. È un approccio empirico fondamentalmente non mentale e l’intero corpo ne percepisce immediatamente gli effetti. Allora il nostro Aikido si trasforma, si entra in un’altra dimensione, con una prospettiva psicofisica di maggiore ampiezza, vale a dire il fatto di sentire concretamente nelle proprie membra, in tutta la propria postura, la circolazione del Ki come flussi differenti che hanno una natura precisa, positiva o negativa, Yin o Yang. Correnti che si trasformano e si alternano a volte passando dallo Yin allo Yang, circolano da un lato all’altro, girano o si fermano inaspettatamente e alla fine ci guidano in tutti i nostri movimenti nonostante ne abbiamo a malapena coscienza. Ciò non avviene dall’oggi al domani, ma ha dato un senso alla mia pratica dell’Aikido, mi ha permesso di perseverare, e di superare i momenti di scoraggiamento, i passaggi difficili, quelli in cui ci si sente bloccati, senza slancio. È anche grazie a queste ripetizioni quotidiane, a tutti questi gesti, che il nostro corpo si rigenera e percepisce gli altri non solo attraverso il loro aspetto fisico o sociale, ma piuttosto attraverso quello che emanano nel profondo, che non è soltanto psicologico ma di tutt’altro ordine, di altra natura.

Dalla pratica solitaria all’osmosi

Si tratta di una metamorfosi qualitativa importante che non è fatta per far sognare, perché è fuori dall’ordinario, e perché questa trasformazione apre delle possibilità per percepire il nostro universo, la nostra umanità in tutta la sua complessità. All’opposto dei mondi virtuali che ci vengono proposti tramite la tecnologia e i rapporti sociali nel nostro quotidiano, si inizia a percepire l’universo del reale, la sua natura profonda. Allo stesso tempo non così diversa dalla nostra vita di tutti i giorni e tuttavia di tutt’altro genere. Ogni esercizio di questa prima parte è legato al nostro respiro, ogni movimento è in relazione con l’inspirare o l’espirare. Tsuda sensei pronunciava ad alta voce Ka all’inspirazione e Mi all’espirazione, ci spiegava che quando si unisce la respirazione si realizza Ka e Mi che diventano Kami che si può tradurre con Dio. Non si tratta di un dio in senso religioso e neanche in senso mistico ma più concretamente della vita in tutte le sue manifestazioni. La marzialità non scompare, ma viene solo trascesa. Si comprenderà meglio perché Tsuda sensei scriveva «L’Aikido, la via di coordinazione del ki, è un’arte di “fondere il ki” dunque una forma marziale di osmosi.»(11)

L’Aikido, religione o filosofia?

Dal momento in cui si ritualizza tutta o una parte della pratica in un’arte marziale, si viene accusati di religiosità o di misticismo. Il Reishiki, i saluti, la concentrazione, le diverse meditazioni, tutto diventa sospetto, come tutto ciò che ne fa un’arte pacifica, rispettosa dell’essere umano. È difficile spiegare alla luce del materialismo scientifico e delle attuali conoscenze quale sia l’interesse di una pratica ritualizzata poiché sfugge dall’idea di progresso. Eppure il mondo della ricerca malgrado tutto va avanti con gli studi attuali per comprendere in maniera più accurata come funziona il nostro ambiente. Ma gli studi devono avere un che di scientismo per essere accettati. Per esempio si può arrivare a collegare dei sensori, fabbricati a partire da rivelatori di menzogne, a delle piante per comprenderne il linguaggio, quando non si è ancora in grado di spiegare perché certe persone abbiano il “pollice verde”. Si cerca con qualsiasi mezzo di riprodurre la natura per i benefici che apporta all’essere umano, senza comprendere come questa stessa natura faccia questo lavoro. Si analizza, si divide, si taglia, per trovare l’elemento attivo di una sostanza senza rendersi conto che è l’insieme a creare questo composto. Se manca una sola parte, un solo elemento, o se il ritmo non è rispettato, il risultato sarà completamente diverso, e può anche essere contrario a ciò che si era sperato di trovare o a ciò che si era scoperto prima. Se non abbiamo bisogno di religioni che ci incatenino a dei dogmi, non abbiamo neanche bisogno di ideologie che limitino le nostre libertà o peggio ci asserviscano. Anche se alcune di queste nuove credenze o di queste dottrine, a volte con presunto valore scientifico, sono state concepite per il nostro “bene”, per la nostra “felicità” presente o futura, non valgono ai miei occhi più delle chimere del passato. Un’alienazione vale l’altra. La ricerca dell’unità dell’essere resta per molti di noi il valore ultimo; per trovarla, la Pratica respiratoria rimane uno strumento di qualità, a nostra disposizione. Gli dei antichi sono morti come rappresentazioni, come immagini proiettate dall’umanità, ma quest’energia che era loro attribuita e che ci anima c’è sempre, possiamo sentirla, riscoprirla e utilizzarla in noi.

Tama-no-hireburi
Tama-no-hireburi

Mantenere la salute

“La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non consiste soltanto in un’assenza di malattia o infermità”(12). Questa è la definizione dell’OMS, e noi in Occidente l’accettiamo come fosse scontata. Viene spesso compresa alla lettera così come il suo corollario con le sue implicazioni: bisogna combattere la malattia, eliminare i microbi, i virus, bisogna correggere la natura che è così imperfetta, bisogna sostenere, proteggere l’essere umano, ecc. La dottrina diventa così assoluta che finisce per dare risultati contrari a quanto si sperava, e in particolare questo: “le persone s’indeboliscono”. Invece di dare la possibilità al corpo di svilupparsi in modo naturale, lo si obbliga a preservarsi da tutto quello che potrebbe eventualmente essere pericoloso o lo si blinda. Si forza, e lo si forza in nome di imperativi concettuali sulla salute, cosiddetti scientifici o medici. Si rinforza l’educazione teorica sul funzionamento del corpo così come sull’igiene senza comprenderne i fondamenti, si norma l’estetica dei giovani ragazzi e ragazze, a scapito della loro reale salute. Il risultato è lungi dall’essere all’altezza delle speranze che la nostra società vi ha riposto ma il condizionamento c’è, e per molto tempo. La Pratica respiratoria, questa prima parte accessibile a tutti qualunque sia il nostro passato o il nostro stato fisico, è forse la risposta a ciò che si sente quando si scopre il peso dell’oppressione che si esercita sul corpo, il nostro corpo, e la sua influenza sulla nostra mente, la nostra riflessione e di conseguenza sui nostri atti.

Dei gesti semplici

È un processo di decontaminazione che può cominciare. Come per il pianeta quando bisogna disinquinare la natura, è importante interrompere un processo, smettere di utilizzare gli stessi funzionamenti, di “fare un po’ di più della stessa cosa”(13). I gesti semplici associati alla respirazione, la “circolazione del ki” portano, fin dall’inizio di questo lento lavoro di ricostruzione, risultati visibili che stupiscono spesso chi è vicino alle persone che praticano, qualunque sia la loro età o la loro condizione fisica. La vera difficoltà sta nella continuità molto più che negli sforzi che sono in realtà estremamente modesti. È anche possibile limitarsi a questa prima parte se lo si desidera o se delle condizioni imperative ci obbligano a farlo, il benessere che ne risulterà non sarà minore, perché l’unità “corpo-spirito” che verrà ritrovata è il vero regalo che la nostra natura profonda ha sempre cercato.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 7 nel mese di ottobre del 2021.Note :1) Itsuo Tsuda, La scienza del particolare, Yume Editions, 2019, p. 148.2) Itsuo Tsuda, Il Non-Fare, Yume Editions, 2014, p. 18.3) Spesso tradotto come “movimento del remo”.4) Tsuda sensei lo traduceva con “Vibrazione dell’anima”.5) Rientranza della parete utilizzata per esporre un Kakejiku.6) Incorniciatura in forma di rotolo per una calligrafia o un dipinto.7) Composizione floreale giapponese.8) La signora Nakanishi, sacerdotessa Shinto, insegnò il Kotodama al maestro Ueshiba.9) Il Kotodama è la conoscenza del potere spirituale attribuito ai suoni.10) Itsuo Tsuda, La voie des dieux, Le Courrier du Livre, 1982, p. 128.11) Itsuo Tsuda, Il Non Fare, Yume Editions, 2014, pp. 70 e 71.12) Primo principio enunciato del preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) adottata dalla Conferenza internazionale della Salute, firmata dai rappresentanti di 61 stati nel luglio 1946 ed entrata in vigore il 7 aprile 1948.13) Paul Watzlawick, teorico della Scuola di Palo Alto.

Una Scuola della sensazione

di Manon SoaviAl giorno d’oggi, alcuni di noi non vogliono più sentire. Non sentire più il caldo, il freddo, il dolore o la stanchezza. A mano a mano che l’individuo si piega agli imperativi sociali, alle norme e ai consigli, trascurando i bisogni specifici del corpo, diventa insensibile. Molto spesso allora non si sente più con precisione se si ha fame o meno, se si ha voglia di finocchio, formaggio o carne. Alcuni non sanno più se i loro piedi sono caldi o freddi. E in fondo sentire fa paura…Sempre di più, a causa delle condizioni in cui viviamo, perdiamo la nostra facoltà di sentire. Sentire l’ambiente, gli altri e soprattutto sentire noi stessi. Eppure come autodeterminarsi, orientarsi nella propria vita se non ci si sente? O in modo non abbastanza fine? Nell’insegnamento di Tsuda Sensei questa domanda era essenziale e egli utilizzava le pratiche dell’Aikido e del Seitai come strumenti per ritrovare la sensibilità, questa capacità tanto denigrata perché confusa con il sentimentalismo. Il primo dojo di mio padre, Régis Soavi, aperto nel 1984, si chiamava École de la Sensation, (Scuola della Sensazione), per dire fino a che punto sia un asse importante nella nostra Scuola.Per Tsuda Sensei inizia un processo di ritrovamento della sensibilità grazie al fatto di prestare regolarmente attenzione a fenomeni che il più delle volte trascuriamo. Lo scrisse con il suo stile inimitabile “Non sta a me dire che un sistema è migliore di un altro. È il campo della politica, o quello del riformatore. Mi accontento di annusare frammenti di informazioni qua e là, e di chiedermi se un tale odore non provenga dal vino di Bordeaux, dalla birra belga o dalla zuppa di cipolle. E aspetto la conferma.Le mie osservazioni non sono scientifiche, sono solo sensazioni. Le mie sensazioni sono più o meno attenuate come quelle di tutti i civilizzati che sono formati secondo l’educazione moderna, vale a dire sotto la pressione dei vari sistemi.Cerco però di ravvivare le mie sensazioni, di purificarle per non confondere il vino con la birra.”(1)Ma a che serve ravvivare le proprie sensazioni? Per molte persone la sensazione è piuttosto imbarazzante. Oppure si dovrebbero sentire solo le cose buone, le cose divertenti e belle. Purtroppo (o per fortuna?) la sensazione è un tutto, inscindibile e necessario per l’essere umano. “La sensazione è un’attività vitale che assicura un aggancio al mondo reale”(2) diceva Tsuda Sensei.Attraverso la sua ricerca filosofica e la sua doppia formazione (giapponese per le pratiche del corpo, occidentale per l’antropologia e la sociologia), Itsuo Tsuda ha cercato di far vedere ciò che perdiamo diventando insensibili. Far vedere che, nonostante gli apparenti vantaggi a breve termine di non sentire più, ne usciamo sminuiti, indeboliti. Il suo percorso lo ha portato a capire che più ci circondiamo di oggetti e tecnologie che ci aiutano, ci sostengono, più ci affidiamo ad esse per fare le cose, e più gradualmente perdiamo la capacità di fare noi stessi. Questo non è grave di per sé e fa parte delle capacità evolutive. Scrive a questo proposito il paleoantropologo Pascal Picq: “Le innovazioni tecniche e culturali sono in realtà le cause delle nostre trasformazioni biologiche. [?] Da Erectus, i fattori comportamentali e culturali sono diventati essi stessi motori di trasformazioni evolutive: biologia e cultura intrecciano interazioni sempre più complesse, anche negli aspetti più fondamentali che costituiscono gli esseri umani [?].(3) I problemi sorgono quando siamo talmente supportati da ogni parte che diventiamo incapaci di fare le cose da soli. Non si tratta di rifiutare qualsiasi evoluzione tecnologica ma di tener conto nell’equazione di ciò che si perde con ogni dipendenza. Tsuda Sensei si rammaricava di essere stato “inondato da queste paccottiglie scientifiche che ci tolgono ogni possibilità di esercitare la nostra facoltà di concentrare l’attenzione e di sentire.”(4)

Sei, vita, calligrafia di Itsuo Tsuda. La sensation de la vie
Sei, vita, calligrafia di Itsuo Tsuda.

Sentire la vita in ogni cosa

Itsuo Tsuda come giapponese e con il suo sguardo da antropologo faceva emergere le differenze di approccio tra Oriente e Occidente. Non per classificarle o contrapporle, ma al contrario, perché potessero arricchirsi a vicenda. Tra le caratteristiche principali della visione tradizionale giapponese, Hiroyuki Noguchi (dalla famiglia di Haruchika Noguchi, creatore del Seitai) parla della nozione di Sentire la vita in ogni cosa come di un asse essenziale della concezione della vita dei giapponesi. Il riconoscimento dell’onnipresenza della vita era la chiave di volta dell’esperienza umana giapponese e portava a tutti la certezza di una corrispondenza tra tutte le cose. Possiamo dire che la società occidentale che si è composta dall’età dell’Illuminismo si è basata su parametri di riferimento esterni all’uomo, movimento dei pianeti per il suo calendario, divisione del tempo basata su un calcolo matematico, misurazione delle temperature su scala centesimale, ecc. Il carattere predominante è dell’ordine dell’astrazione e dell’oggettività.Eppure sappiamo tutti che un’ora in buona compagnia passa più velocemente di un’ora in metropolitana o in ufficio, se lì ci si annoia. O addirittura passa più velocemente di quindici minuti di attesa di un autobus. Il punto è il sistema di riferimento: per essere organizzati nella società abbiamo bisogno di un sistema di riferimento esterno, ma la percezione umana si basa sui nostri stessi sistemi di riferimento che sono le nostre sensazioni, che sono totalmente soggettive e dipendono dal nostro stato, dalla situazione, ecc.Al contrario, la società giapponese, più di un secolo fa, era interamente fondata sull’esperienza diretta e sul rapporto sensibile dell’uomo con il suo ambiente e con se stesso. Il punto di riferimento era la sensazione. Ad esempio, il calendario tradizionale era calcolato secondo il ritmo delle stagioni e dei cicli di vita degli animali. Così, cambiava ogni anno e dava più importanza al modo in cui gli uomini vivevano le stagioni piuttosto che alle date. Nella musica, era il ritmo della marcia a stabilire il tempo e non il metronomo. Allo stesso modo in tutti i campi dell’artigianato, i maestri (tintori, vasai, fabbri, falegnami…) consideravano vivi i materiali che usavano. Ciò che contava di più era la sensibilità esercitata nel rapporto tra l’uomo e il materiale con cui lavorava.Si può anche notare che tutte le culture antiche avevano questo tipo di approccio basato sull’individuo fino a che non venivano organizzate in maniera sistematica da un sapere ufficiale, spesso scollegato dalla realtà mutevole e territoriale. Queste conoscenze del territorio, in contatto con la realtà delle persone, sono chiamate conoscenze vernacolari. L’antropologo James Scott fa un esempio: “[?] il consiglio dato dal nativo americano Squanto ai coloni bianchi del New England su quale fosse il momento migliore per seminare una pianta che non conoscevano ancora: il mais. Stando a quel che si dice, suggerì loro ‘di piantarlo quando le foglie di quercia sono della misura di un orecchio di scoiattolo.'(5) James Scott fa notare che un almanacco contadino avrebbe indicato una data, o un periodo, ma che una data non avrebbe tenuto conto delle differenze tra ogni anno, le differenze tra un campo al nord o un campo che beneficia più a lungo dei raggi del sole. La singola prescrizione si adatta male al contesto, mentre un’indicazione vernacolare si basa sulla persona che può fare questa osservazione rigorosa degli eventi primaverili, che si verificano ogni anno, ma ogni volta in modo diverso, più precocemente o più tardi. La conoscenza vernacolare non è né trasponibile né universale, ma è verissima e reale per chi la vive direttamente.

Il Seitai

La stessa questione si ritrova nel rapporto con il corpo. Stessa inversione anche del sistema di riferimento, perché piuttosto che partire dalle conoscenze mediche generali, che hanno un valore innegabile ma che difficilmente si adattano a una realtà mutevole, unica per ogni individuo, il Seitai non prende come base riferimenti esterni di peso, temperatura o analisi, per quanto sofisticate e precise, ma il campo dell’individuo, nella sua globalità. Sono le sensazioni interne che saranno le guide dell’equilibrio e della salute.La nozione di Seitai creata da Haruchika Noguchi Sensei negli anni ’50 si distingue quindi molto chiaramente dai consueti approcci terapeutici. Il suo modo di considerare l’attività del corpo si basa sulla constatazione che il corpo ha una naturale capacità di riequilibrarsi per assicurare il suo corretto funzionamento. E che se si ascolta il proprio bisogno di equilibrio, se si è abbastanza sensibili ai segnali, il corpo mantiene il suo equilibrio da solo nella maggior parte dei casi.La salute non è quindi considerata come assenza di malattia, essendo la malattia solo il sintomo di un corpo che lavora per ristabilire il suo equilibrio. È durante i suoi anni di intensa attività come professionista che Haruchika Noguchi si rende conto che a forza di cercare di facilitarsi la vita o di proteggersi per rimanere in salute, il corpo si indebolisce, con conseguente bisogno di nuovo supporto. E allo stesso tempo, se il corpo si indurisce al punto da diventare insensibile, è anche debole perché manca la flessibilità che consente la reattività: “Le persone impazienti immaginano di essere in buona salute perché non sono mai ammalate. Ma se il corpo è sensibile a un cattivo stimolo, gli resiste, lo supera e si normalizza: la valvola di sicurezza del corpo sta funzionando e attraversate la malattia. […] Se un lebbroso è ferito, non sente dolore. Se il corpo non sente che qualcosa non va, le sue capacità di rigenerarsi non vengono stimolate. Il corpo reagisce solo se è in grado di sentire che c’è qualcosa di anormale. [?] È necessario rendere il sistema extrapiramidale sensibile, in modo che le capacità di recupero dell’organismo sorgano naturalmente per correggere anche piccole anomalie. È in quest’ottica che inizio le persone al Katsugen undo.”(6) Il Katsugen undo – una pratica del Seitai – tradotto come Movimento rigeneratore da Tsuda Sensei, ha quindi in particolare questa funzione di sensibilizzare il corpo. Diventeremo più sensibili, le nostre sensazioni si affinano. Ciò non significa che non avremo mai bisogno di assistenza, tutto dipenderà dalle capacità del nostro corpo, ancora una volta nessuna verità assoluta, solo la sensazione che ci guida per sapere se abbiamo bisogno di aiuto o se il nostro corpo reagisce a una perturbazione in modo normale.Col tempo, la sensazione dei nostri stati fisici e mentali diventa più raffinata e più precisa. Allo stesso modo la nostra percezione degli stati degli altri diventa molto più chiara. Praticando lo Yuki a due nel Katsugen undo si è portati a non intervenire sugli altri, ma semplicemente a fondersi attraverso un leggero tocco sulla schiena e l’attenzione alla respirazione. A poco a poco la nostra sensazione degli altri diventa molto più penetrante, non ci accontentiamo delle parole che ci dicono, delle maschere sociali che mostrano. Non si tratta di cadere nell’interpretazione o nell’analisi. Si rimane semplici di fronte a queste sensazioni naturali sebbene spesso dimenticate.

Esercizio di sensibilità con il contatto della mano.
Esercizio di sensibilità con il contatto della mano.

L’Aikido

L’altro strumento di sensibilizzazione del corpo utilizzato nella nostra Scuola è l’Aikido. Le persone che praticano lo fanno per una serie di motivi ovviamente, ma una delle conseguenze della pratica dell’Aikido può essere una maggiore sensibilità se ci si orienta verso una certa direzione. La Scuola del maestro Sunadomari, ad esempio, accorda una grande importanza a tre principi: Ki no nagare (circolazione/flusso del ki), Kokyu Ryoku (respirazione/ritmo) e Sesshoken Ten (contatto con il partner attraverso il ki). Possiamo dire che questi principi sono anche i fondamenti della Scuola Itsuo Tsuda e che richiedono un affinamento delle nostre sensazioni per essere scoperti e messi in pratica. Non sorprende che un’attenzione costante a determinate sensazioni li sviluppi. I ricercatori che studiano la propriocezione sono colpiti dalle capacità di ciò che per loro è un senso a tutti gli effetti, e un senso che può essere addestrato. Ora stanno facendo studi per vedere come, ad esempio, in certi mestieri, sviluppiamo un acuto senso della propriocezione che abbraccia il nostro ambiente e gli altri. Lo vediamo in modo spettacolare con i piloti della Pattuglia Acrobatica Nazionale che praticano un rituale di preparazione prima di ogni volo. Questo rituale si chiama “musica”. Seduto su una sedia, ogni membro del team imita i gesti di pilotaggio della sequenza secondo gli ordini del leader. È così che le menti dei piloti provano la coreografia di una presentazione aerea mozzafiato. Una performance durante la quale, lo dicono loro stessi, non avranno tempo per pensare, saranno guidati dalle loro sensazioni interne, che allenano quotidianamente.È nella stessa disposizione di spirito che pratichiamo tutte le mattine, abbastanza lentamente. Ci sono momenti più dinamici in una seduta ovviamente, ma molto lavoro lento che richiede una certa concentrazione e attenzione alle nostre sensazioni. È necessaria anche un’attenzione a ciò che l’altro ci comunica in risposta: essa ci confermerà o meno che siamo nella giusta linea, nella giusta angolazione. Non sarà questione di misurazioni oggettive, millimetriche o altro, sarà la sensazione dell’altro, Uke o Tori, che determinerà se abbiamo fatto un Kuzushi corretto, o un Tenkan sufficiente, in quell’istante. Nell’ultima parte della seduta facciamo sempre ciò che chiamiamo movimento libero, un lavoro libero in cui il/i partner attaccano un Tori come meglio credono. Ogni Tori deve gestire gli attacchi del suo Uke, reagendo spontaneamente, perché è impossibile prevedere il movimento, non ci sono istruzioni. Siccome eseguiamo questo esercizio in ogni seduta quotidiana, tutti vi partecipano senza distinzione di livello. Spesso i principianti si tendono, la paura sale, allora bisogna che uke rallenti, che faccia degli attacchi più prevedibili in modo che Tori abbia il tempo di sentire. Perché l’obiettivo non è applicare a tutti i costi la propria tecnica o bloccare Tori. L’obiettivo è ancora esercitare la nostra sensazione, quella che ci fa reagire all’attacco in corso e deviarlo, muovendosi allo stesso tempo senza calcoli. A poco a poco, a forza di praticare lentamente, si può accelerare sempre di più, e la reazione avviene più spontaneamente. Allora la velocità dell’attacco, la sua messa in atto, o renderlo meno prevedibile, non sarà più un problema, perché saremo nel tempo. Ricordo benissimo che i miei maestri di pianoforte facevano tutti la differenza tra quando, per avere il tempo giusto, suonavo veloce e, scontenti, mi dicevano “è veloce, precipitoso, frettoloso”, e quando, a furia di esercitarmi, riuscivo a suonare veloce, ma sembrava che lo padroneggiassi. Allora non era più veloce. Era il tempo giusto eppure era la stessa velocità oggettiva con il metronomo, o addirittura più veloce, lo constatavo con rabbia! La sensazione di velocità dipende dalla padronanza del musicista e dalla percezione dell’ascoltatore. In breve, la sensazione dell’istante unico.Il grande direttore d’orchestra Sergiu Celibidache rifiutava le registrazioni dei concerti perché per lui catturavano un momento pienamente adeguato alla realtà, per farne un momento congelato, riproducibile, che diventava falso una volta tolto dal contesto. Per lui il tempo non era dell’ordine del tempo fisico, non era un dato metronomico ma una condizione che fa sì che le manifestazioni musicali si esprimano.

Il tatto

In molte arti marziali l’ottenimento di capacità particolari di percepire gli attacchi prima che accadano è stato oggetto di ricerca e di fascino. Yomi, Hy?shi, Metsuke, Yi, ecc., tutti questi “concetti” parlano di questo, di sensibilità smisurate, necessarie per il vero combattimento ovviamente. Ma c’è un senso ancora più banale che la nostra società sta sempre più dimenticando, arrivando oggi al culmine: il semplice tatto. Eppure, questo senso primario, banale, è vitale per noi.Può essere triste dover aspettare che i ricercatori confermino ciò che sappiamo intuitivamente, ma il tatto è letteralmente un senso vitale. È il primo senso a svilupparsi nel neonato ed è l’ultimo alla fine della vita, mentre gli altri sensi declinano, le fibre nervose cutanee che reagiscono al tatto rimangono vitali la maggior parte del tempo fino alla fine. È la prima e l’ultima modalità di comunicazione tra gli esseri umani. Ancora più importante, il contatto fisico rappresenta un bisogno vitale: essere toccati è indispensabile per un buono sviluppo fisico, immunitario e cerebrale. In assenza di un contatto fisico regolare nell’infanzia, i disturbi sono molteplici e catastrofici. Anche per un adulto, essere privato del contatto fisico per troppo tempo porta a problemi fisici e psicologici. Per Francis Mcglone, uno dei più importanti neuroscienziati che studia il tatto, “Per noi il tatto è indispensabile tanto quanto l’aria che respiriamo e il cibo che mangiamo. […] Il rischio di morte prematura dovuto al consumo di tabacco, al diabete o all’inquinamento è di circa il 40%. Quello dovuto alla solitudine è del 45%. Ma nessuno si è ancora davvero reso conto che ciò che manca alle persone sole è proprio il contatto fisico”.(7)Inoltre, secondo questa ricerca, il corpo si disabitua e quindi tollera sempre meno di essere toccato, sebbene i danni causati da questa assenza si facciano sentire. C’è un processo di desensibilizzazione. Questo è in linea con il punto di vista di Tsuda Sensei per il quale “L’organismo si difende indurendosi. Si diventa insensibili alle sensazioni esterne e interne. Non ci viene neanche il raffreddore. Si è robusti. […] L’indurimento ci procura una parvenza di salute che fa invidia alla gente che soffre continuamente di piccoli malanni. […] Si perde a poco a poco la finezza nell’espressione e si diventa rigidi. La robustezza ha il proprio rovescio della medaglia: la fragilità. […] Mubyo-byo, malattia senza malattia, è così che il Maestro Noguchi definisce questo stato di desensibilizzazione che isola l’uomo dal proprio ambiente.”(8)Fortunatamente questo processo non è irreversibile e si può iniziare il cammino inverso, per risensibilizzare il corpo. Le arti marziali con il contatto sono fra le ultime roccaforti, insieme alla danza probabilmente, dove toccarsi è ancora possibile, dove sono le informazioni trasmesse dal tocco che saranno decisive per la nostra reazione. Per conservare o ritrovare la sensibilità che si ricollega con le nostre capacità umane.Note:1) Itsuo Tsuda, La Voie des Dieux, Le Courrier du Livre, 1982, p. 12.2) Itsuo Tsuda, Uno, Yume Editions, 2020, pp. 37 e 38.3) Pascal Picq, Et l’évolution créa la femme, Odile Jacob, 2020, p. 243.4) Itsuo Tsuda, Uno, Yume Editions, 2020, p. 105.5) James C.Scott, Elogio dell’anarchismo, Elèuthera, 2014, p. 60.6) Haruchika Noguchi, Order, Spontaneity and the Body, Zensei, 1984, traduzione della Scuola Itsuo Tsuda.7) Francis Mcglone, dans Le pouvoir des caresses, documentaire de D.Kaden, Allemagne, 2020, production Arte.8) Itsuo Tsuda, La Scienza del Particolare, Yume Editions, 2019, p. 25.

Armonia o Coercizione e Scappatoia

Di Régis Soavi. Coercizione: l’atto di costringere qualcuno, per forzarlo ad agire.Scappatoia: modo abile e indiretto per uscire dall’imbarazzo.Queste sono le definizioni del dizionario. Nei sinonimi di scappatoia troviamo: schivata, scampo, evasione e anche via d’uscita. Non sarebbe piuttosto questo il significato da dare agli Ukemi che, di fatto, nell’Aikido, non sono che risposte intelligenti alle proiezioni?

Una via d’uscita

Come abbiamo visto nello Speciale Aikido N°22 di Dragon Magazine riguardante gli Ukemi, la caduta nella nostra arte non è mai considerata come una sconfitta ma piuttosto come un andare oltre. È anche, a volte, semplicemente un mezzo per uscire da una situazione che nella realtà potrebbe essere pericolosa, anche fatale se accompagnata da certi Atemi, o se cadendo viene toccato un punto vitale. Allo stesso modo, la proiezione, se sembra effettivamente una costrizione durante una seduta, lascia sempre una via d’uscita per Uke, un modo per lui di ritrovare la propria integrità, l’Ukemi è lì per questo. Durante gli anni di apprendimento, una delle condizioni essenziali per ognuno è perfezionare le proprie cadute, poiché serviranno a migliorare le risposte alle tecniche di proiezione di Tori. Non dobbiamo confondere l’allenamento e il combattimento; senza cadute controllate è pericoloso proiettare qualcuno senza rischiare un incidente e le sue possibili conseguenze, ciò non è affatto l’obiettivo della pratica sui tatami. Sia che le proiezioni siano corte come nei Koshi-nage, o più lunghe come nei Kokyu-nage, lasciano sempre la possibilità a Uke di uscire indenne dalla tecnica. Solo le proiezioni con un controllo severo, ad esempio fino a terra, non lasciano dubbi quanto al fatto di non poterne sfuggire, ma se si lavora solo in questa direzione tanto vale praticare il Jiu-jitsu per il quale è la regola, e che è perfettamente adatto al combattimento tra guerrieri. A mio parere, la vocazione dell’Aikido non è la ricerca dell’efficacia ma piuttosto l’approfondimento delle capacità, sia fisiche che psico-sensoriali, umane, al fine di ritrovare la pienezza del corpo e le sue complete capacità.

Proiettare è allontanare

Quando una persona ha questa brutta abitudine di “appiccicarsi” agli altri, di essere così vicina durante una discussione, che ci si sente oppressi, si ha un solo desiderio, e cioè allontanarla con tutti i mezzi; solo il nostro lato sociale, se non la buona educazione, a volte ci impediscono di farlo. Se non l’allontaniamo, cerchiamo di allontanarci noi, prendiamo una certa distanza. Allo stesso modo, proiettare è allontanare l’altro, è permettersi di riconquistare lo spazio che è stato invaso, o persino rubato, o distrutto, durante un’incursione nella nostra sfera vitale, a maggior ragione durante un confronto. Ritrovare il Ma-ai, questa percezione dello spazio-tempo la cui comprensione e soprattutto la sensazione fisica è alla base del nostro insegnamento, è essenziale per l’esercizio della nostra libertà di movimento, per la nostra libertà di essere. È recuperare un soffio, una respirazione forse più calma, possibilmente ritrovare una mente riorganizzata, una lucidità che è stata disturbata da un’aggressione che ha innescato una tecnica di risposta che è diventata istintiva e intuitiva grazie all’allenamento. È anche la possibilità ovviamente di rendere consapevole l’aggressore dell’inutilità, della pericolosità di proseguire nella stessa direzione.nage waza

Curare la malattia

L’Aikido ci porta ad avere un rapporto diverso con il combattimento, relativo più alla lucidità sulla situazione, che alla risposta violenta e immediata per azione riflessa ad un’aggressione. Questa attitudine che può essere chiamata saggezza, acquisita in anni di lavoro sul corpo, ne è il risultato.Chi aggredisce è in un certo senso visto come un individuo che ha perso il controllo di se stesso, spesso semplicemente per ragioni sociali o educative. Un disgraziato, uno squilibrato, un malato dal punto di vista psichico, che purtroppo può rivelarsi dannoso per la società, per chi gli sta intorno, e che, come minimo, disturba l’armonia relazionale tra le persone, e, al peggio, provoca danni incommensurabili agli altri. Non si tratta di punire il “malato”, né di scusare la malattia che si giustificherebbe in nome del principio della contaminazione da parte della società, ma di trovare il modo per uscire dalla situazione senza essere noi stessi contaminati. L’Aikido è una formazione per tutti e il suo ruolo è più ampio di quanto molte persone generalmente pensino. Spesso porta sollievo, anche pacificazione, alle proprie difficoltà o abitudini di natura psicologica, permette attraverso una formazione allo stesso tempo rigorosa e piacevole, di ritrovare la forza interiore e la via giusta per poter affrontare questo tipo di problema.Durante l’allenamento, se la proiezione arriva alla fine della tecnica, non è mai fine a se stessa. A volte potrebbe essere vista come una firma, e come una liberazione di Tori ed anche di Uke.Una buona proiezione richiede un’ottima tecnicità ma soprattutto una buona coordinazione della respirazione tra i partner. È importante non forzare mai un praticante a cadere ad ogni costo. Dobbiamo essere in grado di sentire, anche all’ultimo momento, se il nostro partner è in grado di eseguire una caduta corretta o meno, altrimenti si provocherà un incidente e ne saremo responsabili. Tutto dipende dal livello del partner, dal suo stato “qui e ora”; se la minima tensione o la minima paura si manifesta all’ultimo momento, è imperativo sentirla, percepirla e permettere che il nostro Uke si rilassi per poter fare la caduta senza pericolo. A volte sarà meglio abbandonare l’idea della proiezione e proporre di scendere fino a terra accompagnando, cosa efficace e tuttavia delicata, anche se l’ego di alcuni rimarrà sempre insoddisfatto di non aver potuto mostrarsi così brillante come avrebbe desiderato. Ma è agendo così che avremo permesso ai principianti di continuare senza paura. È grazie alla fiducia che avranno acquisito con i loro partner che saranno portati a perseverare. Avranno constatato di essere stati presi in considerazione per come sono, che le loro difficoltà e il loro livello sono rispettati, che la paura che hanno avuto non è un handicap per la pratica, anzi, permette loro di andare al di là di quelle che credevano essere le loro incapacità, i loro limiti. Constatano con piacere di non essere cavie al servizio dei più avanzati, ma che con qualche sforzo potranno raggiungerli o addirittura sorpassarli se ne hanno il desiderio.I più avanzati devono essere lì per permettere ai più nuovi di constatare che la caduta è un piacere quando la proiezione è fatta da qualcuno tecnicamente capace di condurla in modo da coniugare morbidezza e armonia, e quindi in modo sicuro. Tsuda Sensei racconta come si comportava O Sensei Morihei Ueshiba durante le sedute da lui condotte:”Se, all’età di più di ottant’anni, piccolo di statura, proiettava una banda di assalitori giovani e vigorosi, così facilmente, come se fossero pacchetti di sigarette, questa forza straordinaria non era affatto la forza, ma la respirazione. Domandava, carezzandosi la barba bianca e chinandosi con sollecitudine verso di loro, se non avesse fatto loro male. Gli assalitori non si rendevano conto di quello che era loro accaduto. Di colpo, erano stati trasportati da un cuscino d’aria, avevano visto la terra in alto e il cielo in basso, prima di atterrare. Si aveva una fiducia assoluta in lui, sapendo che non avrebbe mai fatto del male a nessuno.”(1) Questo comportamento di O Sensei nei confronti dei suoi allievi deve servire da esempio a ciascuno secondo il proprio livello perché ci conduce non alla abnegazione o al farsi da parte, ma alla saggezza come esprimeva Lao Tseu: “Il saggio è giusto senza essere rigido, incisivo senza lacerare, diretto senza essere arrogante, brillante senza abbagliare”.(2)nage waza régis soavi

Proiezione o brutalità

L’Aikido di oggi sembra oscillare tra due tendenze principali, una vorrebbe andare verso la competizione e una visione sportiva, l’altra cerca un modo per rafforzarsi, per attingere da antiche tecniche di combattimento come il Jiu-jitsu un’efficacia che non gli è più riconosciuta.E se l’Aikido fosse sufficiente a se stesso! Nulla impedisce di praticare altre arti, di fare Teatro o Danza, Iaido o Boxe, ma questo non sarà in alcun modo complementare. È piuttosto un arricchimento per l’individuo stesso, per il proprio sviluppo. Forse si capirà più in là, di nuovo, cosa fa la ricchezza della nostra Arte.Perché rendere i dojo di Aikido luoghi di allenamento al combattimento di strada dove l’efficacia diventa il punto di riferimento ultimo? Il dojo è un altro mondo in cui bisogna penetrare come se fosse tutta un’altra dimensione, poiché è proprio di questo che si tratta, anche se pochi allievi ne sono consapevoli. Se le proiezioni sono diventate solo delle costrizioni, dov’è il rapporto di armonizzazione messo in evidenza dal fondatore e dai suoi allievi più vicini, e che rivendichiamo ancora oggi? Troppo spesso ho visto praticanti affermare il proprio ego schiacciando Uke alla fine di una tecnica, benché il partner non avesse opposto quasi alcuna resistenza fino a quel momento. O altri, opporre una resistenza ulteriore allorché la tecnica è già finita da un punto di vista tattico, sia nel posizionamento che nella postura dell’uno come dell’altro, obbligando Tori ad applicare in modo severo e inutile una proiezione che, per questo, diventa molto rischiosa per Uke se non ha un livello sufficiente.Che dire delle dimostrazioni preparate sotto gli auspici di maestri autoproclamati, di cui Internet ci satura, con una quantità di contorsioni e salti mortali, il tutto decorato dai commenti di chi le visualizza?Non è una totale assurdità vivere nella costrizione quotidiana esercitata dai comportamenti generati dal tipo di società in cui viviamo, e praticare le arti marziali per imparare a “subirle senza batter ciglio”, o imparare a costringere gli altri per recuperare le poche briciole di potere che ci hanno lasciato, quando invece il progetto sostenuto dalla pratica dell’Aikido è di tutt’altra natura?nage waza régis soavi

Un tappo di champagne

Come spesso fa nei suoi libri Tsuda Sensei ci racconta la sua esperienza e la sua pratica con O Sensei Ueshiba Morihei, ecco ancora un passaggio: “C’è un esercizio che consiste nel lasciarsi prendere un polso dal proprio avversario che lo afferra e lo blocca con due mani. A questo punto lo si ribalta all’indietro con la respirazione che viene dal ventre. Quando il polso viene bloccato da qualcuno molto forte, è impossibile muoversi. Questo esercizio ha per scopo quello di aumentare la potenza della respirazione.Un giorno il Maestro Ueshiba sorridendo mi ha presentato due dita della mano sinistra per fare questo esercizio. Non avevo mai visto nessuno farlo con due dita. Le ho afferrate con tutte le mie forze. E allora, pof, sono stato proiettato in aria come un tappo di champagne. Non si trattava di forza, perché non ho sentito alcuna resistenza fisica. Sono stato semplicemente portato via da una ventata d’aria. Era veramente gradevole e non aveva niente di paragonabile a quello che facevano gli altri praticanti.” “Un’altra volta era in piedi e mi fece segno di venire. Mi posi davanti a lui ma egli continuava a parlare a tutti. La cosa durò piuttosto a lungo, mi chiedevo se avessi dovuto rimanere lì o ritirarmi quando, di colpo, sono stato portato via da un cuscino d’aria e mi sono ritrovato a terra dopo una bella caduta. Tutto ciò che avevo potuto constatare era stato il suo kiai potente e la sua mano destra che, dopo aver descritto un cerchio, si era diretta verso il mio viso. Non ero stato toccato. A questo si potrebbero dare spiegazioni psicologiche o parapsicologiche di ogni tipo, ma sarebbero tutte false. Prima che avessi avuto il tempo di reagire con un qualsiasi riflesso, ero già stato proiettato. Questo famoso cuscino d’aria, è l’unica spiegazione. “(3)”Parlare di decontrazione quando si parla di Aikido sembra sconcertare molte persone. Sono sufficientemente contratte in partenza e hanno bisogno di contrarsi ancor di più per sentirsi bene. Quello che cercano sono il dispendio di energie fisiche e nient’altro. Il mio Aikido è definito come un Aikido dolce. Ci sono persone a cui piace. Altri preferiscono l’Aikido duro. Ho sentito fare degli apprezzamenti. Qualcuno ha detto: «Il vero Aikido, è l’Aikido duro». Questi ha avuto un polso rotto ed è stato bloccato per un mese. Ognuno ha i suoi gusti. Io mi fermo quando sento che l’avversario è troppo rigido per poter cadere adeguatamente. So riparare i polsi rotti, e anche le costole rotte. Se so riparare è perché ho rispetto per l’organismo vivente. Evito di rompere. Se si preferisce rompere, gli insegnanti si trovano facilmente.”(4)La potenza della respirazione è paragonabile alla forza della coercizione? Quale dovrebbe essere l’orientazione da prendere? A ognuno spetta di decidere la direzione che vuole seguire, nessuno ci deve forzare, qualsiasi siano le buone ragioni invocate.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 6 nel mese di luglio del 2021.Note:1) Itsuo Tsuda, Il Non-Fare, Yume Editions, 2014, pag. 23.2) Lao Tseu, Le classique du tao et de ses vertus, Moundarren, 1993, p. 77.3) Itsuo Tsuda, La via della spoliazione, Yume Editions, 2016, pag. 151-152.4) Ibidem, pag. 160-161.

“Un’estinzione biologica e culturale in corso?”

Marc-André Selosse è biologo e professore del Museo di storia naturale e insegna in diverse università in Francia e altrove. Le sue ricerche si concentrano sulle associazioni a vantaggio reciproco (simbiosi), e i suoi insegnamenti riguardano i microbi, l’ecologia e l’evoluzione. Nel 2020, poco tempo prima del primo confinamento, il dojo Tenshin doveva accoglierlo per una conferenza sul microbiota. A causa della situazione questa conferenza non si è potuta tenere, ma speriamo di poter concretizzare questo invito appena possibile. Nell’attesa vi invitiamo a scoprire le sue appassionanti ricerche, tramite due video e l’articolo che avevamo scritto a proposito del suo libro « Jamais seul » e dei punti di convergenza con il Seitai.

Marc-André Selosse : “Un’estinzione biologica e culturale in corso?”

Estratto “Il microbiota biologico che è in noi sta male, sta svanendo e colpisce direttamente la nostra salute: soffriamo di queste “malattie della modernità”, che toccano il nostro sistema immunitario (allergie, asma, malattie auto-immuni?), il nostro sistema nervoso (Alzheimer, Parkinson, autismo?), il nostro metabolismo (diabete, obesità?). Constatiamo che il microbiota è meno diversificato negli individui malati che negli individui sani. Nel 2025, queste malattie della modernità, legate alla regressione del nostro microbiota, toccheranno un Europeo su 4.”Per continuare, cliccate sul video:Intervento al convegno organizzato dalla Fondazione per la biodiversità casearia il 14 settembre 2021 nel quadro del Mondial du Fromager di Tours.

Marc-André Selosse, la Medicina di fronte all’evoluzione

Marc-André Selosse risponde alla domande del Consiglio dell’Ordine dei Medici di Yvelines

Ciò che ci unisce: microbiota e terreno umano

di Fabien R. febbraio 2020Dall’alba delle nostre civiltà, l’azione dei microbi modella la nostra alimentazione, permette la conservazione e il consumo degli alimenti (pane, formaggio, vino, verdure?). Addomesticati empiricamente da millenni, i microrganismi che intervengono in questo processo sono stati identificati solo abbastanza di recente, meno di 200 anni fa.Ed è solo ancora più recentemente che gli scienziati hanno cominciato a studiare il microbiota, cioè l’insieme di batteri, funghi, virus, ecc. che sono ospitati da un organismo-ospite (l’essere umano per esempio) e vivono in un ambiente specifico di quest’ospite come la pelle o lo stomaco.La maggior parte di noi non sospetta che la nostra vita dipenda da una stretta associazione, chiamata simbiosi, che stabiliamo naturalmente con diverse decine di miliardi di batteri che popolano la superficie del nostro corpo e fino in fondo ai nostri intestini. Ci si considera come al di sopra, indipendenti da qualsiasi influenza microbica, con la notevole eccezione di chi è raffreddato che si sente spesso dire: “Ah, ma non mi rifilare i tuoi microbi!” Il microbiota viene quindi considerato, nel migliore dei casi solo perché può o potrebbe avere un potenziale patogeno. Questa visione, attualmente superata ma sempre onnipresente, del microbo visto come nefasto ha profondamente influenzato il nostro rapporto con la Natura, con i nostri corpi e più globalmente con la vita. Che si tratti di pesticidi in agricoltura, di saponi battericidi o gel disinfettanti sulla nostra pelle, questi prodotti, eliminando indiscriminatamente i microrganismi favorevoli e quelli sfavorevoli ai loro ospiti, creano le condizioni per un impoverimento del terreno – quello dei nostri campi come quello delle nostre mucose.Queste azioni igieniste ripetute nel tempo, fin dal parto, impediscono, nell’essere umano, una maturazione del sistema immunitario che più tardi non sarà più in grado di riconoscere il corpo di cui fa parte oppure avrà delle reazioni sproporzionate. La nostra epoca è anche quella delle malattie auto-immuni e delle allergie[1].I principi Seitai, nell’opera di Haruchika Noguchi[2], partono da un punto di vista radicale: intuitivo piuttosto che analitico. Basandosi sulla propria esperienza trentennale di guaritore, H. Noguchi rinunciò all’idea di terapeutica negli anni ’50 perché aveva constatato che essa indeboliva gli organismi degli individui e li rendeva dipendenti dal terapeuta. Ciò lo portò a considerare la salute in un modo completamente diverso prendendo atto che le reazioni del corpo sono le manifestazioni di un organismo che reagisce per ritrovare il proprio equilibrio. « La malattia è una cosa naturale, è uno sforzo dell’organismo che tenta di recuperare l’equilibrio perduto. [?] È bene che la malattia esista, ma bisogna che gli uomini si liberino dal suo assoggettamento, la sua schiavitù. È così che Noguchi è giunto a concepire la nozione di Seitai, la normalizzazione del terreno, se si vuole. »[3].Questo riequilibrio è l’opera del sistema involontario, non dipende dalla nostra volontà. Comporta dei sintomi che coinvolgono il microbiota. Per esempio i flussi che espellono fuori dal corpo i germi sfavorevoli (raffreddori, diarree)[4], la funzione regolatrice della febbre oppure la funzione antibiotica della carenza di ferro nelle donne incinte[5].

humain forêt symbiose microbiote
foto di Jérémie Logeay
La filosofia Seitai ha questa peculiarità di vedere l’essere umano come un tutto indivisibile. Non c’è separazione tra lo psichico e il fisico. La traduzione della parola Seitai è “terreno normalizzato”. Questa nozione in H. Noguchi è globale. Copre in parte la nozione di microbiota. Quest’ultimo è per noi come la terra che circonda le radici di un albero, è la Natura che vive in armonia e in collaborazione in ognuno di noi, senza neanche che ne siamo consapevoli. È per questo che non siamo mai soli.Considerare i microbi come nefasti e combatterli oppure approfittare del loro aiuto e collaborare naturalmente con loro è una questione di orientamento interiore. Privilegiare un igienismo ad oltranza o favorire ciò che Selosse chiama “la sporcizia pulita”[6]. dipende da questa stessa scelta.L’espressione “Coltivare il proprio giardino”[7]. prende allora un senso nuovo e concreto. Tutto dipende da noi.Laddove l’istinto è scomparso, è necessario mettere a disposizione le scoperte scientifiche. Pur essendo autodidatta, H. Noguchi era perfettamente al corrente della scienza della propria epoca. Ciò nutriva le sue riflessioni e le sue intuizioni. È nello stesso spirito che siamo onorati di accogliere Marc-André Selosse che presenterà le scoperte più recenti sul microbiota umano. Note[1]?. Marc-André Selosse, Jamais seul : Ces microbes qui construisent les plantes, les animaux et les civilisations p.185 Édition Actes Sud 2017[2]?. Vedi l’opera di Itsuo Tsuda (9 libri), pubblicati dal Courrier du Livre, in corso di traduzione in italiano per Yume Editions, e di Haruchika Noguchi, 3 libri in inglese pubblicati dalle edizioni Zensei[3]?. Itsuo Tsuda, Le Dialogue du Silence, le Courrier du Livre, 2006 (1979) p. 64-65.[4]?. Marc-André Selosse, op. cit. p.156[5]?. Vedi l’articolo: Marc-André Selosse : La disparition silencieuse des SVT sur Café pédagogique[6]?. Marc-André Selosse, op. cit. p.156 et p.197[7]?. Marc-André Selosse, op. cit. p.169

Una immobilizzazion liberatrice

di Régis SoaviUn’immobilizzazione che ha la prospettiva di sbloccare, ammorbidire, riattivare un’articolazione, non è forse un paradosso o addirittura un controsenso? Tuttavia, è questa l’ottica che abbiamo nella Scuola Itsuo Tsuda, perché non si tratta di costringere il nostro partner con la coercizione o tramite una tecnica diventata temibile a forza di allenamenti in vista di un’efficacia futura, ma piuttosto di approfittare di questo momento per affinare la nostra sensibilità.

Ritrovare la flessibilità

La Scuola Itsuo Tsuda ha seguito un percorso particolare per quanto riguarda le immobilizzazioni. Invece di considerarle come un blocco assoluto a cui dobbiamo rispondere con sottomissione, e il più rapidamente possibile, pena il dolore che a volte può essere intenso, io le vedo come un’opportunità per ammorbidire le articolazioni, restituire loro la mobilità perduta. C’è un modo di lavorare sulle immobilizzazioni con la respirazione che è molto più un accompagnamento che un blocco. Quando i praticanti ci sono abituati non hanno più paura di essere maltrattati, al contrario, Uke partecipa con Tori all’immobilizzazione evitando di irrigidirsi, respirando più profondamente, per migliorare le sue capacità.È l’arte di visualizzare la respirazione (il ki) attraverso il braccio del partner che rende possibile entrare in contatto con la respirazione dell’altro. Se il punto di partenza è la coordinazione del respiro (inspiriamo ed espiriamo allo stesso ritmo del nostro partner), è un primo passo da non trascurare perché da esso dipende tutto il resto. All’inizio, e purtroppo per molti anni ancora, tutto quello che si riesce a fare è torcere il braccio per controllare l’altro, con il rischio di danneggiare l’articolazione. Ma a poco a poco, se facciamo attenzione, se non forziamo, possiamo iniziare a sentire la circolazione di un’energia molto concreta e allo stesso tempo molto speciale attraverso l’arto che controlliamo così come in tutto il nostro corpo. Alcune persone ne sono talmente sorprese che si rifiutano di dare a questo l’importanza necessaria e rischiano di perdersi un evento fondamentale, la possibilità di approfondire quella che io chiamo la loro respirazione e quindi di scoprire uno degli aspetti primordiali della nostra arte: l’armonia. È proprio in questi momenti che posso intervenire per far sentire alle persone che la loro sensazione è molto reale, che non è un’immaginazione, toccandole personalmente nella loro sensibilità grazie a una dimostrazione diretta, senza discorsi teorici. A volte faccio vedere anche con infinite precauzioni e con la massima dolcezza come sia possibile, con un partner già ben avanzato, andare molto più in là, non solo nella visualizzazione ma anche nella sensazione concreta che possiamo comunicargli facendo sentire il percorso che prende questa energia rivelatrice di sensazioni. Quando si è attenti e privi di idee preconcette, abbastanza vuoti in un certo senso, e allo stesso tempo ben concentrati, si può avere la sensazione di percorrere, come su una strada, gran parte del corpo. Si comincia dall’estremità della mano, si prosegue fino alla spalla, si raggiunge, sempre con la sensazione, la colonna vertebrale e si scivola molto lentamente verso la terza lombare, che è la fonte del movimento, dell’attività, ed è in relazione con l’hara, la risaia di cinabro come la chiamano i cinesi, oppure il terzo punto del ventre nel Seitai. Questo è possibile grazie ad una percezione che può sembrarci del tutto nuova, mentre è semplicemente una capacità del corpo che usiamo poco o niente, talmente viene dimenticata, a causa dell’irrigidimento fisico e mentale, scarso o addirittura drammatico risultato ottenuto a seguito dei tanti anni in cui abbiamo esercitato il controllo del conscio, del volontario e anche della ragione, sul nostro involontario sulla nostra comprensione intuitiva, sulle radici stesse della nostra vita.

si raggiunge la colonna vertebrale e si scivola molto lentamente verso la terza lombare, che è la fonte del movimento in relazione con l’hara.

Far circolare il ki

Ritrovare nel profondo di noi stessi come far circolare il ki, come pacificarlo, è una ricerca da sempre stimolata dai più grandi maestri. Non è affatto un approccio che mira ad appassionare le persone alla ricerca del meraviglioso, ma piuttosto un approccio orientato verso una realtà verificabile a cui abbiamo la possibilità di aderire purché ci interessi senza a priori. Sono la visualizzazione, l’attenzione, la fluidità nell’esecuzione delle tecniche, nonché la sensibilità, che permettono di lavorare in questa direzione. Un gran numero di arti in Oriente, a volte usando un nome diverso per citare questa ricerca, sono in grado di dimostrarne il valore: il Tai Chi, il Qi Gong tra le altre per la Cina, così come il Kyudo, lo Shiatsu o il Seitai in Giappone. Del resto se ci si informa, si troverà una serie di civiltà in tutto il mondo che, con nomi diversi, hanno saputo preservare ed evidenziare questa dimensione di grande valore che è il ki.Tutto dipende dalla direzione che prendiamo dall’inizio nella pratica dell’Aikido. Tsuda sensei ce lo ricordava con una certa ironia quando citava il suo maestro: “Il Maestro Ueshiba non smetteva di ripetere che l’Aikido non è uno sport, né un’arte di combattimento. Ma oggi, è considerato ovunque come uno sport di combattimento. Da dove viene questa differenza di concezione così flagrante?”(1). Pur lasciandoci riflettere su questa antinomia, questo paradosso, si guardava bene dal negare l’efficacia dell’Aikido quando veniva praticato dallo stesso O sensei. “Il M° Ueshiba immobilizzava a terra i giovani praticanti di Aikido, solo posando loro un dito sulla schiena. A prima vista la cosa sembrava inverosimile. Qualche anno di pratica mi ha permesso di capire che ciò è possibilissimo. Non si tratta di premere con la forza di un dito, ma di farci passare il kokyu, di dirigere la respirazione attraverso il dito.”(2)

L’essenza

Se si vuole che l’immobilizzazione sia nello spirito di cui parlava O sensei, quella che consiste nel ripulire le articolazioni dalle scorie che le intralciano, dalle tensioni che ne diminuiscono le capacità, allora la postura è di primaria importanza. O sensei considerava che la pratica dell’Aikido fosse un Misogi, vale a dire che si trattava di sbarazzarsi delle impurità accumulate: “La Terra è già stata portata alla perfezione… Solo l’umanità non si è ancora del tutto realizzata. E questo a causa dei peccati e delle impurità che sono entrati in noi. La forma delle tecniche di Aikido è una preparazione per sbloccare e ammorbidire tutte le articolazioni del nostro corpo”.(3) Per controllare i movimenti e reprimere un avversario in modo tale che gli sia impossibile reagire, è sufficiente essere solido, stabile, avere una buona conoscenza tecnica e, naturalmente, essere determinato. Per chi invece vuole agire in modo da rendere più libera un’articolazione, ad esempio, sono la sensibilità, la morbidezza e una buona conoscenza delle linee che uniscono il corpo ad essere necessarie. Niente può essere fatto senza l’accordo e la comprensione di Uke, con il quale ovviamente non si tratta di darsi delle arie da guaritore, da guru che sa tutto, o di imporre sottilmente “per il suo bene” questo o quel modo di fare. C’è un’altra conoscenza oltre a quella che ci viene fornita dall’anatomia, questa può certamente servire come base per una minima comprensione, ma come amatori, nel senso migliore del termine, cioè appassionati della nostra arte, è di primaria importanza non limitarsi all’aspetto strettamente fisico della tecnica.

La postura

La postura di chi esegue un’immobilizzazione tipo Nikyo o Sankyo, anche se essenzialmente molto concentrata, è ancora più impegnativa se vogliamo andare più in là. L’approccio, l’attitudine, la ricerca cambiano la nostra corporeità e le permettono di acquisire una dimensione diversa, allo stesso tempo più morbida, più fine, più sensibile. È indispensabile fondersi con il partner, adattarsi inizialmente alla postura dell’altro per permettergli di trovare il suo posto, di posizionare il suo corpo in modo che possa ricevere nel miglior modo possibile il gesto, l’atto che consentirà la distensione, o addirittura l’attesa liberazione. Ma l’immobilizzazione non comincia a terra, già nella presa del polso deve esserci l’impossibilità di movimento aggressivo da parte di Uke. In questo caso, come per la maggior parte delle tecniche, la postura e il “Ma” (la distanza) sono nonostante tutto determinanti allo stesso modo della ferma delicatezza della presa.

La postura e il “Ma” (la distanza) sono determinanti.

Sentire l’altro

Se parlo di delicatezza è perché molti principianti cercano con la forza quello che è il risultato di una lunga pratica, di una lunga ricerca. Molto spesso rafforzano la loro tecnica, alla ricerca della potenza, perfezionando la precisione, a discapito della sensazione che si può avere dell’insieme del corpo se, da una parte, si è compresa fisicamente, a livello dell’Hara, la circolazione dello Yin e dello Yang, e se, dall’altra, invece di approfittare dell’occasione per soddisfare il proprio ego, ci si è posizionati in un atteggiamento, direi, di benevolenza verso il proprio partner. Dire che l’Aikido sviluppa una migliore comprensione dell’essere umano è una banalità, dire che si percepisce meglio l’anima umana ci fa entrare nella sfera dei mistici, avere la pretesa di sentire ciò che sta accadendo “nel corpo, nello spirito dell’altro” sembra semplicemente delirante e al di là di ogni ragione. Eppure non è così diverso da quello che fanno i genitori premurosi quando si prendono cura del loro neonato. Itsuo Tsuda ne dà un’idea nel capitolo 3 “Il bambino educatore dei genitori”, del suo ultimo libro Face à la science, di cui ecco un passaggio:”Saper trattare bene il bambino è per me l’apice delle arti marziali.Sentendo la mia riflessione, un francese ha sussultato: ‘Come è possibile accettare un’idea così assurda, bizzarra e incomprensibile come associare il bambino alle arti marziali? [?]’. Ovviamente, per una mente occidentale, sono due cose completamente diverse, non correlate. Le arti marziali, in fondo, non sono altro che arti di combattimento. Si tratta di schiacciare gli avversari, difendersi dalle aggressioni. Se il tuo avversario è lì, sferri un calcio di karate. Se è più vicino, applicherai una certa tecnica di Aikido. Se ti afferra per i vestiti, lo proietterai con una tecnica di judo. Altrimenti, estrai il coltello e piantaglielo nel ventre. Se puoi tirar fuori la tua 6’35, ancora meglio. [?] Si tratta insomma di accumulare i vari e complicati mezzi e tecniche di aggressione e di riempire l’arsenale. [?] Tuttavia, oltre ad ai uchi, c’è ai nuke, uno stato d’animo che consente agli avversari di passare attraverso il pericolo di morte senza distruggersi a vicenda. Ci sono pochissimi maestri che hanno raggiunto questo stato d’animo nella storia. L’Aikido del Maestro Ueshiba, da quello che ho sentito, era completamente impregnato di questo spirito di ai nuke, che lui chiamava “non resistenza”. Dopo la sua morte, questo significato è scomparso, è rimasta solo la tecnica. Aikido originariamente significava la via di coordinazione del ki. Inteso in questo senso, non è un’arte di combattimento. Quando viene stabilita la coordinazione, l’avversario cessa di essere avversario. Diventa come un pianeta che ruota attorno al Sole nella sua orbita naturale. Non c’è lotta tra il Sole e il pianeta. Entrambi escono indenni dall’incontro. La fusione è benefica e arricchente per l’uno come per l’altro. […]Se il bambino emettesse grida ben distinte, [?] sarebbe più facile. Ma non è così. È solo l’intuizione dei genitori che permette di distinguere queste sottili sfumature. È l’impegno totale dei genitori che salva la situazione. Se non attribuiscono loro tanta importanza come se fossero sotto la punta di un’arma da taglio, se sono distratti al punto da pensare solo di tirare fuori la propria “bambola” per mostrarla agli altri: ‘Il nostro bambino è il bambino più bello della regione’, nessun altro può costringerli.Ecco delle condizioni che associano il bambino alle arti marziali. Inutile elencare molte altre condizioni. Niente vale quanto l’esperienza vissuta. [?] Uno dei rari ambiti che ancora rimane e che richiede questo totale abbandono del “io intellettuale” è la cura del bambino. Mantenere questa cura nella sua purezza, nel senso della coordinazione del ki, è un lavoro colossale quando ci sono tante soluzioni facili che sono pratica corrente”.(4)

La ferma delicatezza dell’immobilizzazione permette di ammorbidire le articolazioni.

Il Seitai

Senza il mio incontro con il Seitai e soprattutto senza la pratica del Katsugen undo (Movimento rigeneratore) non avrei mai scoperto possibilità come quelle che ho citato. La pratica regolare del Movimento rigeneratore lungo gli anni è una delle chiavi per l’approfondimento di ciò che Tsuda Sensei chiamava la respirazione, quest’arte di sentire la circolazione dell’energia vitale che altro non è che una delle forme che il Ki assume quando si manifesta in modo concreto e sensibile. Uno degli esercizi che pratichiamo durante le sedute di Katsugen undo si chiama Yuki ed è una delle pratiche del Non-Fare che, ben orientate, permette di realizzare la fusione di sensibilità con un partner. Sta ad ognuno usarlo nella vita di tutti i giorni e a maggior ragione nell’Aikido o in qualsiasi altra arte marziale. Se tutte le situazioni non sembrano favorevoli a ciò quando si inizia, è sicuramente una possibilità, una strada da percorrere, che mi sembra adeguata e che si può scoprire, soprattutto nei momenti più tranquilli come durante un’immobilizzazione o lo zanshin che la segue.Questo è il percorso che ci indicava Tsuda sensei, il percorso che lui stesso aveva seguito sulle orme dei suoi maestri Morihei Ueshiba per l’Aikido, Haruchika Noguchi per il Seitai o, in un altro modo, dei suoi maestri occidentali, Marcel Granet e Marcel Mauss – rispettivamente per la sinologia e l’antropologia – che ha avuto anche modo di conoscere personalmente.Questo percorso, “il Non-Fare” o “Wu wei” in cinese, non ha nessun limite o profondità definibile, ogni praticante deve fare la propria esperienza, verificare a che punto è e accettare i suoi limiti per approfondire continuamente invece di accumulare.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 5 nel mese di april del 2021.Notes:1) Tsuda Itsuo, La Voie des dieux, Le Courrier du Livre (1982), p. 58.2) Tsuda Itsuo, La via della spoliazione, Yume Editions (2016), p. 106.3) Ellis Amdur, Hidden in Plain Sight: Tracing the Roots of Ueshiba Morihei’s Power, Freelance Academy Press (2018), p. 292, traduzione Scuola Itsuo Tsuda.4) Tsuda Itsuo, Face à la science, Le Courrier du Livre (1983), pp. da 24 a 27.Foto: Paul Bernas e Bas van Buuren 

1 + 1 = 1 : La respirazione

di Régis Soavi«”Che siano uno o molti non ha alcuna importanza, li metto tutti nel mio ventre”, diceva O sensei». È con questa frase che Itsuo Tsuda sensei un giorno ha risposto a una delle mie tante domande sulla pratica e in particolare sul modo di difendersi da più partner.

Magia o semplicità

Gli allenamenti a più persone hanno l’obiettivo di condurci nella direzione del Non-Fare.
Giovane aikidoka, cercavo di bere a tutte le fonti disponibili, e i miei riferimenti li trovavo presso Nocquet sensei, Tamura sensei, Noro sensei. Ma ovviamente li trovavo anche presso colui a cui mi sentivo più vicino: Tsuda sensei. All’inizio degli anni Settanta eravamo molto appassionati di aneddoti sulle arti marziali, sui grandi maestri storici, e in particolare su O sensei Ueshiba Morihei. Andavamo peraltro ad acquistare i film in “super 8” che erano disponibili in quel tempio che era il negozio di arti marziali della Montagne Sainte-Geneviève a Parigi, affascinati come eravamo dalle prodezze di questo grande maestro. Sebbene profondamente materialista, non ero lontano dal credere in qualcosa di magico, a poteri eccezionali concessi a certi esseri più che ad altri. ItsuoTsuda mi ha riportato con i piedi per terra, perché quello che ci faceva vedere era molto semplice, ma nonostante tutto rimaneva assolutamente incomprensibile. Le tecniche che ci faceva vedere, le conoscevo già bene, ma le faceva con una tale semplicità, una tale facilità che ne ero turbato, e questo non faceva che rafforzare il mio desiderio di continuare a praticare per scoprire i “segreti” che glielo permettevano.

Il suo leitmotiv: la respirazione

Quando parlava di respirazione bisognava intendere la parola KI, era la traduzione che aveva scelto per esprimere questo “non-concetto” così comune, e così immediatamente comprensibile in Giappone, ma così difficile da cogliere in Occidente. Spiegava che si può realizzare l’unità primordiale quando si unisce la propria respirazione col proprio o coi propri partner. La respirazione diventa il supporto fisico, l’atto concreto che permette di unificarsi con gli altri. Fisicamente agisce come una sorta di costrizione dolce sul corpo dei partner. Sappiamo tutti di cosa sto parlando, non è assolutamente un mistero. Ci sono persone capaci di mettere a disagio gli altri, altre che sanno imporsi, imporre la propria respirazione, lasciando a volte il loro interlocutore nell’incapacità di pronunciare una parola. Nelle arti marziali, ed è particolarmente visibile nell’arte della spada, si tratta di desincronizzare il respiro per sorprendere l’avversario, per destabilizzarlo. Il momento cruciale in molti casi è quello in cui l’inizio dell’inspirazione di chi sta di fronte corrisponde alla fine dell’inspirazione dell’altro, in altre parole l’inizio dell’espirazione. Si colpisce durante questo intervallo tra espirazione ed inspirazione. Questo momento, che si chiama “intermissione respiratoria”, è il momento ideale per dispiegare la propria forza fisica in un combattimento e vincere l’avversario. Accade in tutt’altro modo nell’Aikido in cui questo stesso istante permette di entrare nel respiro del partner, in questa via che è la via dell’armonia, dove si tratta di unificare i respiri, di arrivare a un respiro comune.

Praticare con un partner come se fossero molti

Per cominciare è più semplice praticare con un solo partner, ma è importante non fissarsi su di lui, restare disponibili per altri interventi. Questa disponibilità si ottiene grazie alla calma interiore, e questo inizia dalla buona conoscenza delle tecniche e dal non farsi prendere dal panico. Nonostante tutto, ci vorranno alcuni anni per essere tranquilli in tali circostanze, ed è per questo che non dobbiamo aspettare ad iniziare a lavorare in questa direzione. Direi che praticare con più partner, più che una performance da eseguire, rappresenta per me un orientamento pedagogico, l’Aikido è un tutto, non lo si può tagliare a fette. Si tratta di una pedagogia globale e non di un insegnamento di tipo scolastico convalidato da voti ed esami. Già, ogni volta che il gruppo di praticanti si trova in numero dispari, si può approfittarne per lavorare a tre, ma questo non sarà sufficiente per acquisire i giusti riflessi, il giusto atteggiamento da adottare. Ogni volta che il gruppo lo consente, cioè se non ci sono troppe differenze di livello, si può far praticare tutti in gruppi di tre o anche quattro partner.Se i due partner afferrano Tori insieme, e con entrambe le mani, sono la tecnica e la capacità di Tori di concentrare la potenza nell’hara attraverso la respirazione che saranno determinanti, la morbidezza delle braccia e delle spalle consentirà di far circolare l’energia, il ki, fino alla punta delle dita, e di farla sgorgare al di là, provocando la caduta dei partner sui tatami. Ma se lavoriamo con attacchi alternati, la difficoltà maggiore non è nel fatto di fare le tecniche, ma soprattutto nel ruolo di Uke.

La calma interiore inizia dal fatto di conoscere bene le tecniche.
In effetti Uke, troppo spesso, non sa come comportarsi, e aspetta il suo turno per attaccare. Il mio insegnamento quindi consiste anche nel mostrare come posizionarsi, come trovare l’angolo di attacco; in questo caso interpreto il ruolo di Uke, esattamente come negli antichi koryu. Faccio vedere come girare attorno a Tori, come sentire le brecce nella sua respirazione, nella sua postura e come Tori può usare un partner contro l’altro, lo faccio lentamente in modo che Tori non si senta davvero aggredito ma piuttosto disturbato nelle sue abitudini, nella sua mobilità o nella sua incapacità di muoversi in armonia. Le forme dell’attacco devono essere molto chiare, non si tratta di dimostrare la debolezza dell’altro ma di permettergli di sentire quello che gli succede intorno senza bisogno di guardare o di agitarsi, ma piuttosto sviluppando la sua capacità sensoriale. Non deve fissarsi sulla costrizione che ogni presa gli impone, ma, al contrario, rendersi conto che le prese possono essere occasione di un superamento e persino di un vantaggio.

Il valore dello spostamento

Gli spostamenti assumono un valore speciale quando ci sono più persone intorno a noi. Se guardiamo il traffico su un’autostrada nelle ore di punta dalla cima di un ponte che la sovrasta, saremo molto sorpresi di vedere come i veicoli sfiorano, sorpassano, rallentano, accelerano e persino cambiano corsia in una sorta di balletto che però non è governato da alcuna autorità superiore, ma in realtà da ogni conducente. Ci si potrebbe aspettare un’enorme quantità di incidenti, o almeno degli stridori di lamiere in pochi minuti, eppure non è così, va tutto bene. Ci sono ovviamente incidenti, ma pochissimi, rispetto a ciò che possiamo immaginare o vedere dall’alto del nostro osservatorio.Se quando si pratica con più partner si impiega altrettanta concentrazione, attenzione e rispetto per l’altro come quando si guida qualsiasi veicolo, dato che si tratta del nostro corpo – e non di un’estensione della consapevolezza di questo corpo, come può essere con un’auto – diventa molto più facile. Ripeto: è necessario avere una buona tecnica, non avere timore per ciò che sta accadendo, ma calma e sicurezza di sé, pur essendo vigili e consapevoli di ciò che si muove intorno a noi. La differenza con l’esempio che ho appena dato è che i partner cercano di toccarci, di colpirci o immobilizzarci, a differenza dei veicoli che si evitano a vicenda. Ora, proprio come l’auto per esempio – che attraverso l’antropotecnica1 diventa come un prolungamento del nostro corpo, di cui conosciamo, di cui abbiamo coscienza delle dimensioni, al centimetro, addirittura al millimetro – si tratta di cogliere l’opportunità di sentire la nostra sfera, non più come un sogno, un’idea, una fantasia, un’immaginazione o un delirio esoterico inventato di sana pianta da qualche mago o ciarlatano, ma piuttosto come una realtà concreta accessibile a tutti, dal momento che ne siamo già capaci in automobile se prestiamo sufficiente attenzione. Si tratta quindi di giocare con questa sensazione, questa estensione: non appena le sfere si sfiorano, già si estendono, si ritraggono, si spostano costantemente, rispondendo ai bisogni senza dover ricorrere al sistema volontario. È il lavoro dell’involontario, dello spontaneo, come se gli spostamenti si facessero da sé, in modo preciso e con facilità. È allora che siamo nella pratica del Non-Fare, questo famoso non-agire, il wu-wei cinese, ciò che sembrava mitico diventa realtà. Gli allenamenti a più persone hanno l’obiettivo di condurci nella direzione del Non-Fare. Si può fare pratica in mezzo a una folla, in un grande magazzino in un giorno di saldi, o più quotidianamente nella metropolitana per i chi abita in città. Il gioco consiste nel sentire come muoversi, come spostarsi, come riuscire a passare negli interstizi vuoti tra le persone.

Si tratta di unificare i respiri, di arrivare a un respiro comune.
O sensei era un maestro anche in quest’arte di muoversi tra la folla. I suoi Uchi deshi si lamentavano di non riuscire a seguirlo in mezzo alla massa, quando dovevano prendere la metropolitana per accompagnarlo a una dimostrazione o quando dovevano partire in treno con lui. E tuttavia erano giovani e vigorosi ma avevano enormi difficoltà a muoversi nella stazione affollata mentre lui, molto anziano e piuttosto fragile alla fine della sua vita, si infilava nella moltitudine con una velocità sorprendente.

Ricreare uno spazio attorno a sé

L’arte di confondersi tra la folla, di passare inosservati, può essere una disposizione naturale, oppure una deformazione – talvolta dovuta a un trauma – da cui deriva una sofferenza: essere la persona che non si vede, quella che non si nota, che diventa invisibile. Ma può anche essere un’arte, e sembra che anche in questa O sensei Ueshiba Morihei eccellesse. A volte è necessario mimetizzarsi, confondersi per esempio in una folla, svanire per passare inosservati. La nostra sfera in questo caso diventa come trasparente, ma rimane allo stesso tempo molto presente, coerente, stabile e potente. Intorno alla persona si crea uno spazio vuoto quasi impenetrabile, quindi è delicato o addirittura difficile attaccarlo, e anche solo avvicinarsene. Ho avuto l’opportunità di sperimentarlo durante le dimostrazioni con il mio maestro Tsuda sensei, ma penso che fosse ancora più lampante dopo le sedute, quando prendevamo un caffè o un tè tutti insieme al dojo proprio di fronte agli spogliatoi dove eravamo riusciti a liberare un piccolo spazio. C’era un grande tavolo basso ed eravamo tutti seduti attorno ad esso, più o meno incollati l’uno all’altro, tranne che attorno a Sensei. C’era sempre uno spazio su entrambi i lati che sembrava invalicabile, e non era solo il rispetto a impedirci di sederci lì. C’era un vuoto molto concreto, molto reale, solido come una roccia. Tsuda sensei sembrava non prestarci mai attenzione, beveva il caffè, parlava, raccontava storie e poi, dopo una mezz’oretta o più, si alzava e se ne andava. Ma il vuoto rimaneva: anche se a volte ci fermavamo un po ‘di più, nessuno occupava il posto vuoto, qualcosa persisteva lì. Questa è quella che chiamo l’arte di creare uno spazio invalicabile attorno a sé, difficilmente ci si può esercitare in quest’arte, è piuttosto una capacità che emerge naturalmente, che emerge quando si diventa indipendenti, autonomi, quando si è oltrepassato la fase di iniziale apprendistato o quando se ne presenta la necessità.

L’uno e il multiplo

Ciò che è problematico non è la molteplicità degli attacchi, ma la nostra capacità di rimanere calmi in tutte le circostanze. Chi può vantarsene, e non è forse un mito? Se gli attacchi sono convenzionali, o previsti in anticipo, come una sorta di balletto, si esce dal ruolo pedagogico dell’Aikido. Si tratterà solo della ripetizione di gesti, che possono essere affinati o resi più estetici, certo, ma privi di profondità. Si tratterà di uno spettacolo che, per quanto professionale possa essere, per quanto ammirevole possa essere, non riguarda più l’Aikido, che avrà perso, io penso, il suo valore di cambiamento nel profondo dell’essere umano.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 4 nel mese di gennaio del 2021.Foto: Paul Bernas, Jérémie Logeay

Reishiki: uno spartito musicale

di Régis SoaviNel nostro rapporto con il dojo abbiamo spesso a che fare con Reishiki (l’etichetta). Dal nostro primo contatto con le arti marziali, non appena penetriamo in un dojo, vediamo persone che si inchinano in modo molto rispettoso all’entrata, poi si salutano fra loro, o a volte in direzione del Kamiza dopo aver preso un’arma. Ogni scuola ha le proprie regole di buona condotta, come ha il proprio savoir-faire. In occidente alcune di queste regole sono a volte perfino affisse a fianco della porta, ci si aspetta solo che siano rispettare. Cosa che non avviene sempre, dato che un certo numero di persone è riluttante a rispettarle con la scusa della religiosità, della modernità o anche a volte perché ci vedono un aspetto troppo militare o settario. Tuttavia la nostra società ha i suoi protocolli, i suoi usi. Tutti si alzano quando la Corte entra in tribunale, gli attori e i musicisti si inchinano davanti al loro pubblico così come ci si alza quando viene suonato l’inno nazionale o l’inno europeo.Il rispetto che viene richiesto in un dojo è più di un’usanza di origine orientale, che sia giapponese o cinese. Non si tratta di interpretare un ruolo, di “fare come in Giappone”, di essere rigorosi e irreprensibili, o perfino rigidi nel rispetto scrupoloso delle regole di buona educazione. Reishiki coinvolge tutto il nostro essere. La maggior parte di noi ha perso l’abitudine di inchinarsi davanti a qualcuno o qualcosa: lo shake-hand, la buona stretta di mano, il bacio o altri rituali più moderni hanno rimpiazzato ciò che assomigliava troppo spesso a un rapporto di potere su degli inferiori, imposto da parte di superiori gerarchici.Prima di capire, come mi aveva insegnato il mio maestro Itsuo Tsuda Sensei, che il saluto fra partner, che sia in piedi o in ginocchio, è allo stesso tempo una maniera di unificare, di coordinare il respiro e di salutare la vita nell’altro, mi ci è voluto del tempo, e anche molto. Se lo accettiamo come una buona pratica, siamo spesso lungi dalla sua comprensione vissuta attraverso i nostri sensi. Reishiki tuttavia è lo spartito del meraviglioso brano musicale che è la pratica dell’Aikido. Lo spartito ci dà la battuta, il tempo, le note sono scritte sul pentagramma e sono così più facili da trovare, ma tutto resta da suonare. Evidentemente bisogna conoscere la chiave: sol? Do? O fa? E in che posizione? Con quale strumento si suona? Come lo suoneremo? Quasi tutto sembra possibile ma non si può comunque fare. Un esperto, un grande maestro, lui, è capace di fare il giocoliere con le note, di aggiungervi delle improvvisazioni, di accelerare il tempo in una certa parte, di rallentare in un’altra. Di insistere su una cadenza, di sopprimerne una o di accorciarla. Come un maestro di Aikido improvvisa di fronte al suo partner, unifica il suo respiro con lui e si muove in modo non convenzionale, creando in tal modo come un balletto al contempo estetico e temibile. Masamichi Noro Sensei ce ne faceva la dimostrazione a ogni seduta, negli anni ’70, quando ero ancora un giovane istruttore molto inesperto.Reishiki: semplicemente un rituale?

Régis Soavi: recitazione del Norito, di origine Shinto, Misogi No Harae che recita tutti i giorni durante le sedute di Aikido. Calligrafia di Itsuo Tsuda Sensei, ??? (Guarda sotto i tuoi piedi).
L’aspetto cerimoniale ci permette di accedere al sacro senza condannarci al religioso, cosicché il profano stesso viene nobilitato e diventa sacro anche lui.Un musicista classico si prepara prima di cominciare a suonare, compie un certo numero di volte degli atti che potrebbero essere qualificati come rituali. Accorda il suo strumento o semplicemente ne verifica l’intonazione, esegue degli esercizi di riscaldamento, di memorizzazione per dei passaggi difficili, come noi stessi ci prendiamo cura della nostra postura, del nostro corpo, e verifichiamo la nostra tenuta, keikogi, cintura, hakama, tutta questa attenzione fa parte integrante della cura che apportiamo alla pratica della nostra arte.Reishiki permette di strutturare la pratica, attraverso i differenti rituali e la loro ripetizione, abbiamo così la possibilità di concentrare l’attenzione grazie al sostegno regolare che essi apportano. Al giorno d’oggi sono rari, per lo meno in Europa, i dojo in cui i praticanti si occupano delle pulizie quotidiane, della pulizia dei bagni, del riordino degli spogliatoi, o dei keikogi da prestito per i principianti, ecc. Di fatto agiscono come degli Uchi deshi di un’altra epoca. È diventato difficile far passare questo messaggio a delle giovani generazioni per le quali l’apprendimento è spesso diventato una seccatura di cui bisogna sbarazzarsi il prima possibile.

Reishiki: un codice morale?

Reishiki è la porta d’entrata verso un mondo dimenticato, il mondo della sensazione interiore, un mondo immateriale e tuttavia molto reale, molto concreto. È alla portata di tutti trovarlo, o ritrovarlo se è bloccato da convenzioni o idee inculcate dalla società a nostro discapito. Ovviamente i protocolli che regolano un’arte ci servono a evitare gli incidenti mediante l’ordine che esigono, ma è il loro carattere fondamentalmente naturale che mi sembra più importante. Se ciò non esiste, o non esiste più, non ne restano che delle usanze private del senso profondo. In una società in declino rispetto all’educazione mi sembra necessario permettere a tutti quelli che sono interessati alle arti marziali di ritrovare le basi, tanto indispensabili quanto logiche, del funzionamento umano.Reishiki ci obbliga a rispettare ogni vita umana e ci conduce verso il rispetto della vita per la vita. Attraverso il codice morale che verrà applicato anche a noi, se lo applichiamo agli altri, possiamo riscoprire un fondo comune fra gli esseri umani. I valori che Reishiki porta esistono anche per farci avanzare nel quotidiano, le donne ad esempio sono, o dovrebbero essere, dato che sfortunatamente non è spesso il caso, rispettate da tutti in quanto praticanti e non perché sono tanto belline, o per condiscendenza, o per rispettare la parità. Una musicista non è apprezzata per le sue misure né per per la sua capacità polmonare se suona uno strumento a fiato, ma come ogni musicista per la qualità del suo modo di suonare, per la musicalità di un pezzo che è capace di farci scoprire durante un concerto.

Reishiki: un’impregnazione

Se si è capaci di sentire i riti, la nostra vita di tutti i giorni ha un altro sapore. Reishiki non è più una costrizione, è il percorso della nostra libertà interiore e siamo guidati passo dopo passo dal cerimoniale che trae le sue origini da rituali più antichi che non chiedono altro che di essere riscoperti. Lo “sport moderno”1 ha delle regole, dei regolamenti, a priori i loro ruoli sembrano identici – sicurezza, rispetto dell’altro, dell’arbitro, socializzazione, ecc. – e si arriverebbe a confonderli con Reishiki che è molto più antico. È più semplice per la nostra visione occidentale, ci siamo abituati, non dobbiamo fare sforzi se non quello di conformarvisi, ma appena si esce dai tatami, dal ring, dal campo, tutte queste regole legate allo sport praticato spariscono, si applicano altre regole. Spesso regole molto diverse, a volte semplicemente un po’ di buone maniere, altre volte il senza-regole della strada e le sue conseguenze. Reishiki permane come una presenza in noi, tramite un fenomeno che potremmo definire imprinting, una sorta di impronta, certo non all’inizio, non i primi anni. A poco a poco forgia il nostro spirito e dunque il nostro corpo senza deformarli, anzi al contrario, permette il loro sviluppo armonioso. Le regole dello sport esistono per essere rispettate per il tempo dell’esercizio, della pratica, Reishiki, agisce in ogni momento della nostra vita.

Reishiki: un artefatto?

A mio avviso non bisogna mai imporre Reishiki, fa parte di una comprensione che deve nascere nei praticanti più recenti, mentre i più anziani possono tramite la loro conoscenza e il loro esempio far avanzare i principianti. A parte la buona educazione minima richiesta in ogni luogo, è anche, e anzi soprattutto, l’ambiente del dojo che guiderà i nuovi arrivati. Se imponiamo delle norme, delle convenzioni, tutto rischia di irrigidirsi, di presentarsi come una nuova ideologia da applicare ma che sarà separata da ciò che è vivo e, come scrive così bene Matthew B. Crawford, «la vita diventa una imitazione della teoria: noi conduciamo un’esistenza fortemente mediatizzata in cui è indubbio che questo rapporto passa sempre di più attraverso rappresentazioni prefabbricate per noi. L’esperienza umana è diventata un artefatto sofisticato, e quindi estremamente manipolabile».2 Che la nostra esperienza e il nostro insegnamento diventino un prodotto artificiale quando invece è proprio il contrario che cerchiamo, è forse quello che ci aspetta. Per di più con il rischio che questo vada esattamente nella direzione completamente opposta a quello che è, o dovrebbe essere insegnato nella nostra arte: la libertà dello spirito, l’intuizione, la forza vitale e tutto ciò che l’accompagna – flessibilità, mobilità, resistenza, capacità di ricentrarsi per non sprofondare dopo essere caduti, o di fronte alla difficoltà.

Il saluto nello stile Bushy-den Kiraku-ryu, una delle arti all’origine dell’Aikido.

Creare le condizioni

Le palestre sono adatte agli sport, vi si trovano degli spalti, vi si possono esercitare diverse attività, la manutenzione è gestita dall’amministrazione del luogo, e c’è un guardiano incaricato di far rispettare l’ordine nei corridoi, negli spogliatoi, ecc. Riuscire a comunicare il Reishiki in uno spazio di questa natura è una sfida. Purtroppo nulla predispone a rispettare il luogo, né come luogo pubblico, dato che sono molto pochi quelli rispettati al giorno d’oggi, né come un luogo, un posto che si potrebbe far proprio. Una sala da sport è adatta allo sport, un dojo è uno spazio per praticare un Budo, un Bujutsu, un’arte, che sia marziale o no. Qui la vibrazione, l’ambiente è differente. Non vi parrebbe curioso vedere una persona che fa della pasticceria sul bordo di una piscina, o assistere ad un combattimento di boxe pesi massimi in un padiglione da tè? Sistemare uno spazio, un locale che sarà stato trovato non in funzione di guadagni futuri, ma in funzione di parametri di tutt’altra natura che mi è impossibile descrivere in poche righe, ma che sono determinanti per il futuro dojo e per renderlo perenne, se si tratta di una scuola di arti marziali. Creare un luogo di questa natura è già applicare lo spirito di Reishiki, poiché là si incontreranno le persone che lo gestiranno, i coinquilini, in un certo senso, per un tempo indefinito, sarà la culla degli allievi già presenti, come anche dei futuri praticanti. Impareranno a rispettare e a far rispettare il Reishiki perché ne saranno all’origine, e al contempo i trasformatori in funzione dei bisogni. Saranno i continuatori di una tradizione che sentono come necessaria, e anzi indispensabile per permettere l’insegnamento e la pratica della loro arte.

Tokonoma, dojo Tenshin, Parigi. Calligrafia di Itsuo Tsuda Sensei, ???? (La grande gentilezza esclude la piccola gentilezza).

Reishiki è anche la riconoscenza: saper ringraziare

Come terminare un articolo su Reishiki senza salutare i Maestri che ho avuto la fortuna di incontrare, a volte di seguire, sempre di rispettare. Sono troppo numerosi e farne la lista sarebbe noioso per i lettori perché tutto questo è cominciato nella mia infanzia e avevo appena dodici anni. Ma mi piace citare quelli che mi hanno orientato in momenti cruciali, come il mio primo professore di Judo, metodo Kawaishi, che ha saputo guidarmi e la cui disciplina come pure la gentilezza mi hanno segnato a vita. Roland Maroteaux Sensei, colui che mi ha iniziato all’Aikido all’inizio degli anni ’70, grazie al quale ho incontrato Itsuo Tsuda Sensei, questo maestro dell’ombra che fu “il mio Maestro”. Come anche Henry Plée Sensei che mi ha dato un’opportunità (“messo il piede nella staffa”, come si suol dire) permettendomi di insegnare l’Aikido nel suo dojo della Montaigne Sainte Geneviève quando ero da pochissimo una cintura nera. Non ne dimentico nessuno di loro (anche quelli che non cito qui) perché è grazie alla loro semplicità ferma e all’orientamento che hanno saputo trasmettermi che ho capito e apprezzato Reishiki.Articolo di Régis Soavi pubblicato in Yashima n° 7 nel mese di marzo del 2020.Note1) concetto sviluppato da Pierre Bourdieu in «Comment peut-on être sportif?», Questions de sociologie, Éditions de Minuit, 1984.2) Matthew B. Crawford, Contact. Pourquoi nous avons perdu le monde, et comment le retrouver, Éditions La Découverte 2019, p.8.

Fudoshin: lo spirito immutabile

di Régis SoaviIl lavoro di Jiyuwaza può essere considerato in diversi modi e ogni Scuola ha un proprio modo di vederlo, di praticarlo. La Scuola Itsuo Tsuda, per quanto la riguarda, ne ha fatto incontestabilmente una delle basi del proprio insegnamento, della propria pedagogia.

Jiyuwaza: “il movimento libero”

Tsuda sensei, benché giapponese, usava molto raramente termini tecnici della sua lingua materna. Intellettuale di grande finezza, scrittore e filosofo, conferenziere e tecnico Seitai, accordava una grande importanza al fatto di essere, per quanto possibile, sempre ben capito. Inoltre, poiché padroneggiava perfettamente la lingua francese, utilizzava unicamente questa durante le sedute di Aikido. Per me che seguivo all’epoca tutti i sensei che venivano in Francia, era abbastanza strano ascoltarlo spiegare una tecnica o anche mostrarla senza nemmeno dire il nome in giapponese. Alcuni allievi che conoscevano solo il suo Aikido erano abituati e non erano affatto scioccati. Personalmente ho mantenuto l’uso dei nomi giapponesi, come mezzo di comunicazione nel mio insegnamento, solo quando è indispensabile, ed è diventato una tradizione nei nostri dojo. È per questo che nella nostra Scuola quello che chiamiamo “movimento libero” alla fine di ogni seduta, prima di fare il kokyu ho, è un esercizio che potremmo chiamare “Jiyuwaza”. È una specie di randori leggero ed è un momento molto importante, poiché gli spazi tra le persone sono ridotti dal fatto che tutti si muovono nello stesso tempo in tutte le direzioni, e che ognuno agisce come vuole seguendo la propria ispirazione, in funzione del proprio partner, o dell’angolo nel quale si trova rispetto all’altro. A volte, senza transizione, continuando l’esercizio e senza che nessuno torni a sedersi, faccio cambiare partner. Poi dopo qualche minuto, di nuovo, dico: “Cambiare”, poi alla fine annuncio con un sorriso: «Bagarre generale!» e allora si crea una mischia allegra in cui ognuno è Uke e Tori, a turno o allo stesso tempo. È il caos ma leggero, di modo che nessuno si faccia male, eppure è importante che ognuno dia il massimo in funzione del proprio livello. È un esercizio importante che faccio fare spesso durante gli stage dove c’è tanta gente, perché ci dà l’idea di ciò che siamo capaci di fare in una situazione ingarbugliata. È primordiale che gli attacchi portati non siano violenti, che non provochino la paura ma che siano sufficientemente decisi da sentire la continuità del ki nel gesto. Se sono superficiali o esitanti si perde il proprio tempo, oppure ci si illude sulle proprie capacità. È un processo di apprendimento difficile, che richiede anche anni, ma è di grande importanza pedagogica, motivo per cui pratichiamo il “movimento libero” a due quotidianamente alla fine di ogni seduta.

Ancora una volta la sfera

mormyridae
Mormyridae: trasformando gli impulsi elettrici in suono, quindi in linee, abbiamo un’immagine della sfera di questi pesci.
È guardando un documentario sull’evoluzione che mi aveva mandato uno dei miei allievi durante il confinamento che, come lui, mi sono stupito nello scoprire la rappresentazione visiva della sfera che circonda un particolarissimo pesce appartenente alla famiglia dei Mormyridae. Sebbene conosciuti fin dalla più remota Antichità perché, curiosamente, sono stati spesso rappresentati negli affreschi e nei bassorilievi che adornano le tombe dei faraoni, sono state appena scoperte su di loro qualità notevoli. Si tratta di pesci che hanno uno scheletro osseo, cosa già piuttosto rara. Oltre a questa particolarità, hanno delle facoltà insolite. Cacciano e comunicano tramite impulsi elettrici, emettendo scosse elettriche leggere (tra 5 e 20 V), ed estremamente brevi, inferiori a un millisecondo, che si ripetono a velocità variabile e senza interruzioni superiori a un secondo. Un organo particolare produce questo campo elettrico che circonda il pesce. Trasformando gli impulsi elettrici in suono, poi in linee, possiamo successivamente averne un’immagine come quella nella pagina accanto (questo dipende dall’impaginazione, quindi è eventualmente da cambire in sopra o sotto): in questo modo possiamo visualizzare la sfera di questi pesci. Essi utilizzano tale sfera anche come sistema di difesa. Grazie a questo campo possono differenziare un predatore da una preda o da un loro simile. Quando un predatore entra in questo campo, lo deforma e questa informazione viene immediatamente comunicata al cervelletto. Il cervelletto in essi è nettamente più grande del resto del cervello. Questa capacità di produrre e analizzare una corrente elettrica debole è loro utile per orientarsi nello spazio, e permette loro di localizzare ostacoli, di individuare prede, anche in acque torbide o in assenza di luce.

Una rappresentazione mentale o una funzione del cervelletto

La sfera nell’essere umano è forse solamente una rappresentazione mentale delle capacità inconsce che possiede – lo sapremo forse tra diversi anni o secoli – ma ciò non toglie nulla alla sua realtà, percepita dal praticante di arti marziali, né alla sua efficacia. Il ki, questa sensazione enigmatica della nostra stessa energia, della nostra osservazione, dell’atmosfera, che tutti i popoli hanno conosciuto e trasmesso nelle proprie culture senza poterle dare una definizione precisa, potrebbe essere la risposta, certamente considerata come non scientifica, ma che ha una realtà empirica attestata dall’esperienza di molti maestri, sciamani o mistici. Se cerchiamo risposte nel campo delle scienze cognitive, possiamo trovare elementi che, messi insieme, danno corpo a questa ricerca.Il cervelletto gioca un ruolo importante in tutti i vertebrati. Nell’essere umano il suo ruolo è assolutamente essenziale nel controllo motorio, che è la capacità di effettuare aggiustamenti posturali dinamici e di dirigere il corpo e gli arti in modo da compiere movimenti precisi. È determinante inoltre in alcune funzioni cognitive ed è anche coinvolto nell’attenzione e nella regolazione delle reazioni di paura e piacere. Contribuisce alla coordinazione e sincronizzazione dei gesti e alla precisione dei movimenti. In un attacco simultaneo di più persone, le arti marziali – e l’Aikido in particolare – devono aver preparato l’individuo, grazie alla ripetizione e alle sequenze durante i kata o nei movimenti liberi, a fornire le risposte necessarie per uscire da questo tipo di situazione. Quando si tratta di sopravvivenza, gli “organi” che sono cervelletto, talamo e sistema motorio extrapiramidale devono essere pronti. L’apprendimento deve essere stato di qualità, includendo la sorpresa, l’attenzione e persino una sorta di apprensione, in modo che l’involontario trovi dove attingere durante queste esperienze per mettere in atto i gesti giusti.

Essere come un pesce nell’acqua

Jiyuwasa è come una danza in cui l’involontario è il re. Non si tratta di essere il sovrano onnipotente che governa subordinati o tirapiedi, ma piuttosto di entrare in un mondo sottile dove la percezione, la sensazione ci guidano. Come il pesce sopra citato, si tratta di sentire il movimento dell’altro quando si dispiega e tocca la nostra sfera, soprattutto per non partire prima, con il rischio che l’attacco cambi direzione, ma essere in una posizione, una postura, che suscita un certo tipo di gesto e quindi di risposta. La tecnica non deve essere prevista né prevedibile, ma adattabile e adattata alla forma che cerca di raggiungerci. Una rilettura di Sun Tzu ci offre alcune citazioni scelte come: “Se conosci il nemico e conosci te stesso, la vittoria è assicurata. Se conosci il Cielo e la Terra, la tua vittoria sarà totale.”(1). Conoscere, ignorando cosa accadrà: come fare? È attraverso la fusione di sensibilità con il partner che possiamo scoprire come dobbiamo comportarci, come dobbiamo agire, reagire senza prima riflettere, senza esitazione. A poco a poco da questo tipo di esercizio nasce una sorta di fiducia in cui tutte le risposte sono possibili. È il momento di andare più lontano, di chiedere al nostro partner di essere più sottile, e anche più tenace. Deve, ogni volta sia possibile, capovolgere i ruoli e presentarsi come se fosse Tori invece che Uke.

regis soavi aikido fudoshin
Si tratta di sentire il movimento dell’altro mentre si dispiega e tocca la nostra sfera.

Fudoshin

Quando si pratica con diversi partner o quando si tratta di uscire dalla comodità della pratica quotidiana con persone che si conoscono, per esprimere ciò che alcuni chiamano il potenziale, si verificano varie reazioni di tensione, il corpo che teme questo incontro diverso si tende, e diventa rigido. Tsuda Itsuo sensei ci dà una risposta, o meglio esegue una decodifica della situazione attraverso un testo di Takuan che cita, sviluppando per gli occidentali che siamo, due o tre concetti che ci illuminano sui comportamenti e le risorse che dobbiamo trovare nel più profondo di noi stessi.”Come uscire da questo stato di torpore è il problema principale per chi esercita la professione delle armi. A questo proposito, è tuttora celebre un testo, Fudôchi Shimmyô roku, La Sagezza immutabile, scritto da Takuan (1573-1645), un monaco zen, che dava consigli a uno dei discendenti della famiglia Yagyû, incaricata dell’insegnamento della spada presso lo shogunato Tokugawa.’Fudô vuol dire immobile’, dice, ‘ma questa immobilità non è quella che consiste nell’essere insensibile come la pietra o il legno. Si tratta di non fissare lo spirito, mentre si va avanti, a sinistra e a destra, muovendosi liberamente, come desiderato, in tutte le direzioni’. L’immobilità, secondo Takuan, è dunque essere imperturbabile nello spirito, non si tratta assolutamente di immobilità senza vita. Significa non rimanere nella stagnazione, poter agire liberamente, come l’acqua che scorre. Quando si rimane bloccati a causa della fissazione su un oggetto, il nostro spirito, il nostro kokoro è perturbato dall’influenza di questo oggetto. L’immobilità rigida è il terreno propizio allo smarrimento. ‘Anche se dieci nemici ti attaccano, ognuno con un colpo di spada’, dice, ‘basta lasciarli passare, senza bloccare la tua attenzione ogni volta. È così che puoi fare il tuo lavoro senza impedimenti di uno contro dieci.’ [?] La formula di Takuan è di vivere nel presente, al massimo, senza essere in alcun modo ostacolati dal passato che sfugge.”(2)La maestria per ognuno di noi, per quanto relativa possa essere, è sempre, qualunque siano le nostre capacità, le nostre difficoltà, o talvolta anche le nostre facilità, il risultato di una vita di lavoro e allenamento. Frédéric Chopin, quando aveva appena suonato a memoria quattordici preludi e fughe di Jean-Sébastien Bach, aveva dichiarato ad una sua allieva durante una lezione privata: «L’ultima cosa è la semplicità. Dopo aver esaurito tutte le difficoltà, aver suonato una quantità immensa di note e note, è la semplicità che ne esce con il suo fascino, come l’ultimo sigillo dell’arte. Chiunque voglia arrivarvi subito non ci riuscirà mai; non si può iniziare dalla fine.»(3)A prescindere dall’essere Musicista, Artigiano, Monaco zen o Sensei di arti marziali, sono la sincerità nel lavoro e il piacere condiviso che ci guidano verso la semplicità, verso Fud?shin, lo spirito immutabile.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 3 nel mese di ottobredel 2020.Note :1) Sun zi, L’art de la guerre, Guy Trédaniel Éditeur, 2011, p. 69. In italiano Sun Tsu, L’arte della guerra, Feltrinelli, 2013.2) Tsuda Itsuo, La Voie des dieux, Le Courrier du Livre, 1982, pp. 72-73.3) Guy de Pourtales, Chopin ou le poète, Gallimard, 1940, p. 145.Foto: Bas van Buuren e immagine tratta da La favolosa storia dell’evoluzione: l’Albertine Rift, Arte France

Kakugo, senza sogno e senza paura

Di Régis Soavi, Articolo scrito fine marzo 2020, pubblicato sul n. 74 di AikidoJournal.Per la prima volta nella sua storia, Tenshin, il nostro dojo a Parigi, è chiuso per una durataindeterminata, così come tutti i dojo della nostra scuola (Milano, Roma, Torino, Anconea, Toulouse, Blois, Amsterdam ecc.). È tanto più eccezionale poiché dalla sua apertura nel 1985, il dojo non si era mai fermato. Ci sono sedute tutte le mattine, tutto l’anno, indipendentemente da vacanze o giorni festivi.La Scuola Itsuo Tsuda è una scuola particolare perché pratichiamo l’Aikido certo, ma anche il Katsugen undo (Movimento rigeneratore) che può essere praticato da soli, a casa. E poi, per un piccolo numero di allievi interessati al lavoro sugli antichi koryu all’origine della nostra arte, ci sono anche delle sedute dedicate alle armi della scuola Bushuden Kiraku Ryu. Questa scuola che comprende numerosi kata ha nel suo percorso d’insegnamento la pratica del jujitsu a mani nude, della Naginata, del Kusarigama, del Bo, del Tessen, ecc. C’è anche un lavoro su altre tecniche che provengono dalle scuole delle due spade, il Niten Ichi ryu.Nonostante la chiusura dei dojo la pratica, che io sappia, non si è interrotta per nessuno o quasi. Alcuni praticano i kata di armi a casa propria ma soprattutto abbiamo la fortuna di avere una prima parte nelle sedute di Aikido (una sorta di Aiki-Taiso) che il mio maestro, Itsuo Tsuda, aveva praticato presso O sensei, e che chiamava già “la pratica solitaria”. Questa prima parte dura una ventina di minuti circa e può essere fatta in uno spazio ridotto (equivalente ad un solo tatami). Quello che la differenzia da una ginnastica è che si tratta di un lavoro sulla respirazione e sulla circolazione del ki nel corpo. Per certi aspetti, assomiglia agli esercizi che fanno alcuni praticanti di Tai-chi-chuan, certo, con la propria specificità. Questa pratica solitaria può così essere fatta ogni giorno. So che ci sono dei praticanti che approfittano anche di questa interruzione per leggere o rileggere i libri di Itsuo Tsuda (nove libri, edizione originale francese Le courrier du livre-Trédaniel e edizione italiana Yume Editions) ma anche, come ho spesso consigliato, i grandi autori e filosofi come Chuang Tzu, Lieh Tzu, SunTzu, o ancora “La storia di Genji” di Murasaki Shikibu.

Même si l’étalon est enfermé dans l’écurie, il est encore capable de galoper des
milliers de miles”  Calligraphie de Itsuo Tsuda
Se ovviamente nessuna pratica è una soluzione alla situazione che viviamo, è ovvio per me che il fatto di avere una pratica quotidiana ci aiuti a mantenere una direzione interiore. Tatsuzawa Kunihiko sensei, diciannovesimo maestro di Bushuden Kiraku Ryu, una scuola di più di quattrocento anni, parla di Kakugo ?? che si traduce abitualmente con determinazione o lucidità di fronte a una situazione. La sua traduzione personale mi è parsa interessante vista la crisi che viviamo in questo momento. Alla domanda «Perché le persone praticano ancora un’arte così antica?” risponde: «È per avere la stabilità del cuore (Kokoro). È quello che viene chiamato Kakugo in origine. Kakugo è difficile da tradurre in francese. Vale a dire che ci si concepisce senza sogno e senza paura. Diventare, avere una mentalità del tipo: “Nec spe nec metu” in latino. Senza speranza di ricompensa e senza timore di castigo»(1). La pratica, anche solitaria, ci aiuta a ritrovare una respirazione e una calma interiore.Allo  stesso modo il filosofo Hans Jonas, che ho citato qualche volta durante le mie conferenze, in questi tempi incerti mi sembra all’ordine del giorno. In occasione del summit di Rio de Janeiro sull’ambiente nel 1992, il giornale Der Spiegel pubblicò un’intervista intitolata “Sull’orlo dell’abisso”(2). Al giornalista che gli chiedeva, in merito al saccheggio del pianeta, se pensava che fosse possibile modificare il nostro stile di vita rispose, purtroppo già visionario: «Paradossalmente, la speranza risiede secondo me nell’educazione tramite le catastrofi.». Rimane nonostante tutto questo imperativo che ci riguarda tutti, e che enuncia così: «Agisci in modo che le tue azioni siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla Terra.»(3)

Postfazione di gennaio 2021

Dieci mesi sono passati, dieci mesi di costrizione, dieci mesi di una notte senza nome, di cui non possiamo neanche dire quando finirà. L’ascesa di una forma insidiosa di autoritarismo su basi sanitarie che avviene in questo momento, ci porta tutti a una forma di autocensura per non disturbare le resistenze che sono state messe in atto un po’ dappertutto in questo “mondo nuovo” che è lungi dall’essere un “nuovo mondo”.Le nostre pratiche ci permettono di mantenere la stabilità del “Kokoro”, senza di esse le tensioni rischierebbero di invaderci e potremmo soccombere all’ambiente circostante.Un altro ambienteTutti i nostri dojo si sono potuti mantenere e pagare i propri affitti malgrado la chiusura dei locali per tutti questi mesi, grazie alla forma associativa molto particolare che hanno adottato fin dalla loro creazione, alcuni fin dagli anni 80. In effetti i dojo appartengono a tutti i propri soci, come se ne fossero “coinquilini”, è quindi di propria volontà che si associano per mantenere vivi questi luoghi di pratica. I soci mettono in comune ciò che è necessario senza dipendere da nessuna sovvenzione, né di palestre comunali, e neanche da clienti? Così questo funzionamento, che normalmente sembra molto fragile, si mostra in effetti molto resiliente nel periodo che stiamo attraversando.La prima parte delle nostre sedute di Aikido, la “pratica respiratoria individuale”, è continuata ovunque, in funzione delle settimane in cui la legalità lo permetteva, a volte al parco come a Milano per ricreare il legame che mancava, altrimenti a casa propria o di amici praticanti.Tutti hanno potuto continuare la pratica del Katsugen undo (Movimento rigeneratore) a casa, soli o in famiglia, come ogni volta che non possiamo, per una ragione o per un’altra, andare al dojo. Questa pratica che lascia il movimento innato del corpo esprimersi, contribuisce all’equilibrio globale dell’individuo. Il fatto di mantenere attivo il sistema involontario, favorisce le reazioni precoci, accelera e amplifica l’aspetto regolatore del funzionamento dell’organismo.Anche se certi giorni, sotto il peso della durata di questa situazione, ci sono stati momenti di scoraggiamento, la prospettiva di riaprire per fare conoscere la nostra pratica ha limitato, e fatto sciogliere l’inquietudine che poteva nascerne.I contatti e gli scambi tra i soci, sia a livello nazionale che internazionale, hanno permesso di far circolare informazioni e riferimenti, testi e libri, mettendo l’accento sull’aspetto culturale dei dojo e attivandolo così una volta di più. Nessuno aveva previsto ciò che stiamo vivendo, forse questo passaggio di un testo di Estelle Soavi saprà tranquillizzare la forza di ognuno e guidarla verso il Non-Fare, il Wu-Wei:

In un mondo in corso di distruzione, Fondare luoghi in cui regna un altro spazio-tempo, in cui un altro rapporto alla vita si crea, in cui gli esseri possono realizzarsi. […]Il solo modo di non affondare resta continuare a nuotare.

Demori(4)

(1) Tatsuzawa Kunihiko sensei, Le sens de la beauté, intervista di Yann Allegret, Karaté Bushido, ottobre 2008.(2) Intervista pubblicata in: Hans Jonas, Sull’orlo dell’abisso – Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, Einaudi, 2000.(3) Hans Jonas, Il principio responsabilità – Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi 1979(4) “Demori” significa “io rimango” in lingua catara (occitana). Estelle Soavi, “Bâtir”, Utomag N°4, giugno 2020, online : http://estellesoavi.fr/utomag/