Di Manon Soavi
Nella nostra vita di tutti i giorni facciamo spesso fatica a prenderci del tempo. Prendersi il tempo per andare al dojo, praticare, respirare. Prendersi il tempo per lasciare che si sviluppino altri tipi di rapporti con il mondo, un potere interiore diverso da quello che dà il denaro o il dominio. A volte abbiamo letto articoli e libri, abbiamo ascoltato discorsi molto interessanti su pratiche del corpo come mezzi di emancipazione. Sui dojo come strumenti per scoprire rapporti di aiuto reciproco, un modo di fare “comune”, altri modi di agire, possibilità di sentire il “non fare” come regime di azione ecc. Ma… Ma ci manca il tempo. Una seduta alla settimana, due a volte. Anche se il dojo è aperto tutti i giorni, il mondo ci afferra non appena mettiamo piede fuori dal dojo. I problemi e le piccole seccature prendono il sopravvento. Il lavoro, i figli, i debiti, l’auto, il disastro ecologico, le guerre, le tasse… ci sentiamo inghiottiti.
A volte siamo anche in piccoli gruppi, pochi, dojo ancora fragili ed è difficile sentire davvero altri modi di fare. Il modo di agire e di pensare della nostra società si invita continuamente al dojo, spesso per mancanza di esperienza di chi costituisce il gruppo. Oppure è la rigidità teorica che regna, disciplinando anche la minima iniziativa e perdendo così l’idea di base di una riscoperta della libertà. Lo slancio si spegne. A che serve, non abbiamo tempo. Il tempo ci manca. Certo, ci manca perché non ce lo prendiamo. “Non fermiamo” il tempo. È proprio per “fermare il tempo” che è nato uno stage come quello estivo della nostra scuola. Fermare la corsa, almeno per qualche istante e un po’ “perdere la testa per abitare i nostri corpi” come scriveva Françoise d’Eaubonne(1).
Il Mas d’Azil, l’incontro
Il primo stage d’estate della nostra scuola è stato nel luglio 1985, quando Régis Soavi ha creato con alcuni studenti un primo dojo a Tolosa. Le pareti non erano ancora finite, il soffitto non era dipinto, ma già praticavano. Sui tatami erano solo una dozzina per questo stage, venuti da Tolosa, Parigi e Milano. Ci furono altri due stage d’estate a Tolosa, nell’86 e nell’87.
Eppure il fatto di essere in città, la mancanza di alloggi, il caldo afoso, tutto ciò non rendeva la situazione ideale. Régis Soavi e la sua compagna Tatiana andranno quindi alla ricerca di un “luogo” in campagna per organizzare uno stage estivo.
Presero la loro auto e partirono per le strade dell’Ariège, agendo come erano abituati con la deriva situazionista, che praticarono a Parigi per dieci anni. Agirono anche secondo la modalità di azione del Non-fare, nella quale ci si orienta in una direzione e si percepisce come “qualcosa” reagisce. Ciò che alcuni chiamano anche un “agire situazionale”, vale a dire in perfetta sintonia con il momento presente. Per questo bisogna lasciare la nostra “ragione”. Accettare e agire in un “flow”, un flusso se si vuole. Questo è spiegato dalla famosa storia del nuotatore di Chaung-tzu:
“Confucio ammirava la cascata di Lu-liang. L’acqua cadeva da un’altezza di trecento piedi e poi schizzava intorno per quaranta leghe. In questo luogo non potevano stare né tartarughe né coccodrilli, ma Confucio vide un uomo che nuotava. Credette fosse un disperato che cercavala morte e disse ai suoi allievi di scendere lungo la riva per soccorrerlo.
Ma dopo qualche centinaio di passi, l’uomo usci dall’acqua e, con i capelli sciolti, iniziò a passeggiare lungo la riva, cantando.
Confucio lo raggiunse e gli chiese: “Pensavo che lei fosse uno spirito ma, da vicino, sembra che sia vivo”. Mi dica: “ha un metodo per restare a galla in questo modo?”
“No”, rispose l’uomo; “non ne ho. Sono partito dalla situazione data, ho sviluppato qualcosa di naturale e ho ragggiunto la necessità. Mi lascio catturare dai vortici e sollevare dalla corrente ascensionale, seguendo i movimenti dell’acqua senza agire per conto mio.”
“Cosa intende con: partire dalla situazione data, sviluppare qualcosa di naturale, raggiungere la necessità?” chiese Confucio.
L’uomo rispose: “Non sono nato in queste colline e mi sono sentito a casa: ecco la situazione. Sono cresciuto in acqua e mi sono poco a poco sentito a mio agio: ecco il naturale. Non so perché agisco come agisco: ecco la necessità.”(2)
Il sinologo Billeter commenta questo passaggio (che parla dell’agire nel Non-fare evidentemente) osservando che “L’arte consiste nel basarsi su questi dati, nello sviluppare attraverso l’esercizio qualcosa di naturale che permette di rispondere alle correnti e ai vortici dell’acqua, in altre parole di agire in modo necessario, e di essere liberi da questa stessa necessità. Non c’è dubbio che queste correnti e questi vortici non sono solo quelli dell’acqua. Sono tutte le forze che agiscono all’interno di una realtà in continua trasformazione, fuori di noi così come dentro di noi.”(3)
Sviluppare qualcosa di naturale che permetta di seguire le correnti e i vortici andando nella direzione che si vuole è qualcosa che si esercita come dice il nuotatore. Praticando con il proprio corpo e anche accettando di “seguire” piuttosto che “scegliere”.
Dopo tre settimane di ricerche nella regione, Régis e Tatiana si rendono conto che non trovano il posto giusto. Sono in campeggio con le loro due bambine, inizia a essere un periodo piuttosto lungo, quindi decidono di ritornare a Tolosa. La mattina della partenza, Régis prende un caffè al bar del paese e il padrone gli parla del Mas-d’Azil, consigliandogli di andare a vedere questo paese.
Decidono quindi di fare un’ultima visita, il giorno della partenza. Arrivati al Mas-d’Azil, si rendono conto che in questo paese, a meno di dieci chilometri da dove sono accampati da tre settimane, ci sono già passati dieci anni prima.
Dieci anni prima, tornando dalla Spagna, Regis e Tatiana avevano notato nel cielo il volo circolare di un rapace, che li “seguiva” da tempo. Continuando il loro viaggio avevano visto il rapace atterrare su un cartello all’incrocio di una strada: “Le Mas-d’Azil”. Avevano preso allora questa strada, incuriositi, che li aveva portati fino a un paese, incastonato in un rilievo roccioso ai piedi dei Pirenei, attraversato da un fiume tumultuoso e dominato da una bellissima grotta preistorica.
Quel giorno, dieci anni dopo Regis e Tatania ritrovano con stupore lo stesso paese! Da quel momento le cose procedono molto velocemente, in due ore i responsabili del comune accolgono a braccia aperte l’idea di uno stage. Il villaggio è piccolo, certo, ma è un capoluogo di cantone, ha una palestra, due alberghi, un campeggio, una posta, negozi e all’epoca una fabbrica di mobili ancora in attività.
Oltre a essere un importante sito preistorico (che ha dato il nome a un’era: l’Aziliano), si scopre che Le Mas-d’Azil ha una lunga storia di resistenza. Dopo la Riforma serve da rifugio ai protestanti. La resistenza protestante durerà qui più di cent’anni. L’evento più famoso fu l’assedio durato un mese e la feroce resistenza che la città condusse contro l’esercito reale di Luigi XIII con mille persone contro quindicimila. Ma annidati nel terreno roccioso e protetti da solidi bastioni, gli abitanti, nonostante i molti morti, sconfissero l’esercito e i suoi cannoni.
Ancora oggi, sebbene il numero di abitanti sia diminuito con l’esodo rurale del XX secolo, è un luogo in cui molti dei cosiddetti “neo-rurali” si incontrano e si stabiliscono. Qui si trova anche Kokopeli, un’associazione ambientalista che distribuisce semi non coperti da diritti e riproducibili, con l’obiettivo di preservare la biodiversità di semi e ortaggi.
Il Mas-d’Azil non è il posto perfetto, non soddisfa tutti i requisiti, ma è qui.
Una trasformazione
Dall’88 in poi, lo stage d’estate si è svolto nella palestra comunale. Al primo stage i partecipanti sono solo una quindicina. L’allestimento è quindi minimo.
Ma con il passare degli anni, i partecipanti, compreso Régis Soavi, fanno dei lavori, sistemano lo spazio e apportano migliorie. Il numero dei partecipanti è in aumento fino ad arrivare oggi a un centinaio.
La quindicina di persone che arrivano volontariamente con una settimana di anticipo per preparare lo stage allestiscono temporaneamente un quadrato di tatami, in modo da esercitarsi al mattino durante la settimana di preparazione. Tuttavia, per il momento si tratta “solo” di tatami nel bel mezzo di una palestra. L’obiettivo è quello di trasformare questo luogo in un dojo per il primo giorno di stage.
Régis Soavi racconta così questa trasformazione: “Quando arriviamo, non c’è niente di pronto. C’è da fare tutto.
La palestra è sporca, ci sono dei graffiti, finestre rotte. Ma poiché le persone sono abituate a praticare in un dojo, vogliono ricreare il dojo. Il Maestro Ueshiba dice “Laddove sono io c’è un dojo”.Per questo abbiamo bisogno di tatami, deve essere pulito. Ecco perché un certo numero di persone viene con una settimana di anticipo, cancella i graffiti, fa riparazioni, ridipinge. Andiamo a prendere itatami con un camion. Le persone fanno tutto questo perché sono interessate, vogliono che lo stage sia piacevole, che ci sia un certo ambiente. Ci sono tanti piccoli dettagli, mettiamo qua delle tende, un appendiabiti là e qui bisogna avvitare. Ci vuole una settimana per sistemare tutto.
In questo modo, allora, per la prima seduta dello stage, tutto è pronto.
Ora potremo dedicarci, concentrarci sulle pratiche, per 15 giorni. Ma ci vuole tutto questo fermento prima, questo ribollire, anche questa pressione, e alla fine tutto è pronto.
Siamo pronti.
Così ricreiamo “dojo”, lo spazio sacralizzato. Il sacro non è il religioso, è qualcosa che si sente con il corpo. È molto chiaro. Quando si arriva all’inizio della settimana è una banale palestra con spalliere, attrezzi, cemento sul pavimento. Per una settimana con la nostra attività di preparazione, portiamo ki, ki, ancora ki. Così a un certo momento “diventa” uno spazio sacro. Ma siamo noi stessi a portare il sacro nel luogo.
Inoltre, anche se si avesse un magnifico dojo in legno con un ponte giapponese e del bambù davanti alla porta, non significa necessariamente che si tratti di uno spazio sacro. Potrebbe essere solo uno spazio artificiale.”(4)
L’effimero irreversibile
Lo stage d’estate è quindi un po’ come una parentesi. Un momento di pausa e allo stesso tempo un momento che si espande. Lo viviamo e ciò cambia qualcosa in noi. Quindi possiamo dire che lo stage estivo non ha lo scopo di far emergere un altro mondo, ma piuttosto di sperimentare direttamente un altro rapporto con il mondo. Un vissuto che, anche se effimero, non è meno irreversibile. Ognuno resta libero di cosa farsene di questo vissuto.
Régis Soavi: “Anche durante lo stage, tutto è organizzato dai praticanti stessi, le colazioni insieme, le pulizie, siamo vicini a ciò che si faceva in Giappone con gli Uchideshi, gli studenti interni che si occupavano di tutto. È un po’ questo lo spirito. Non si paga nessuno, non c’è uno staff. Non siamo in un’organizzazione amministativa. Ognuno dà il meglio di sé. Ciò permette, come nei dojo per tutto l’anno, di sviluppare le proprie capacità o, a volte, di scoprirle. Ci sono molte persone che sono arrivate al dojo non sapevano come piantare un chiodo. Appena gli si chiede qualcosa, dicono “oddio”! Bisogna spazzare, “io non so spazzare!” Fare il caffé, “io non so fare il caffé!” “Come si deve fare?”
Poco a poco scoprono il piacere di fare da soli, di essere capaci. Alcuni hanno scoperto capacità che non sospettavano di avere. Lo scopriamo perché c’è questo quotidiano collettivo, come nei dojo, che è un po’ diverso dal quotidiano di casa, è “casa collettiva”.”(5)
È quindi attraverso la sperimentazione concreta, in situazione, che si sperimenta un altro modo di essere e di interagire. Perché sovvertire il nostro modo di fare società significa affrontare un insieme che fa sistema. Come è descritto da Miguel Benasayag è prima di tutto “un’organizzazione sociale, un progetto economico, un mito che configura un tipo di rapporto con il mondo, con il sé, con il proprio corpo, un certo modo di desiderare, di amare, di valutare la propria vita…” È anche “affrontare un dispositivo molto concreto, che possiamo riassumere con l’immagine della citta europea moderna con i suoi muri, le sue relazioni con lo spazio e con il tempo, le sue modalità di circolazione, di lavoro, di commercio, che inducono ancora una volta una certa maniera di pensare e di agire, la cui influenza giunge oltre perimetro strettamente urbano.”(6)
Creare un’altra situazione è molto concretamente lasciare che sorga un altro modo di essere al mondo. Nella nostra società si tende a pensare che una situazione sia determinata da un perimetro esterno, nel caso dello stage d’estate si potrebbe dire: il numero di giorni, il numero di sedute, il numero di persone, il luogo geografico ecc. Tuttavia, secondo il filosofo Benasayag, che riprende Kush, una situazione si caratterizza prima di tutto come un’intensità. Prendendo l’esempio della foresta, spiega che ciò che fa la foresta non è il perimetro, il numero di alberi, ecc. Ciò che fa la foresta è un’intensità: gli alberi, gli animali, il muschio, le gocce d’acqua, i funghi e fa notare che l’intensità attira quello che l’alimenta… Per parafrasare questo esempio direi che anche lo stage d’estate è un’intensità. Un’intensità fatta dal luogo, dalle persone che si ritrovano, si organizzano, praticano, dai corpi che si muovono, dalla pratica di yuki, ecc.
Françoise d’Eaubonne scriveva in una lettera; “Bisogna perdere la testa per abitare i nostri corpi”. Itsuo Tsuda diceva: “vuotatevi la testa”. Lo stage d’estate è quest’intensità in cui a un certo punto, con l’aiuto della stanchezza, il lavoro dell’involontario si fa in profondità nel corpo, finalmente la “testa” lascia un poco. Lasciando un po’ il campo libero ai bisogni del corpo, al suo movimento involontario. Abitare il proprio corpo porta a un’altra maniera di sentire, di pensare e di agire. I principi astratti della modernità (razionalità, progresso, utilitarismo, universalismo astratto), torniamo alla dimensione della conoscenza immediata e non riflettuta di noi stessi.
Régis Soavi: “Per chi arriva per la prima volta, uno stage è un primo passo. Si riscopre che il nostro corpo si muove e che si muove in modo involontario. Non ha niente a che vedere con uno stage in cui si va a ricaricarsi per poi ripartire più in forma. No. È un inizio. Inoltre è una pratica regolare. Nei dojo si pratica il Katsugen undo (Movimento rigeneratore) due o tre volte la settimana, si può anche praticare da soli a casa. Ma bisogna riallenare questo sistema involontario che abbiamo bloccato a lungo”.
“Lo stage d’estate è anche un crocevia, c’è chi che viene un po’ da tutt’Europa, si scoprono le persone attraverso la pratica dell’ Aikido e del Katsugen undo. Attraverso la sensazione,
Accade di tutto! Alcuni fanno degli incontri, arrivano soli e ripartono in due! Altri arrivano in due e ripartono soli! Perché a volte mette in luce dei problemi che si erano tenuti nascosti. Si cercava di trattenere, di mettere a tacere, ma con lo stage, con la pratica del Katsugen undo che risveglia il nostro corpo, si sente chiaramente quello che non è più sostenibile. Quando la volontà di controllo finalmente lascia la presa, ciò emerge, è tutto. Quello che è insopportabile è finalmente percepito come tale. Ma in qualche modo, è una liberazione. Il Katsugen undo, è una liberazione, nient’altro.”(7)
Le informazioni sullo stage d’estate 2024 sono qui : https://www.scuola-itsuo-tsuda.org/37-stage-destate/
Note
1) Françoise d’Eaubonne, correspondance privée avec Alain Lezongar, 5 décembre 1976.
2) Jean François Billeter, Leçons sur Tchouang-tseu, 2002, éditions Allia, p.28
3) Ibid., p. 33.
4) Règis Soavi, estratto dal film “Una trasformazione”, diretto da Bas van Buuren, 2009.
5) Ibid.
6) M. Benasayag et B. Cani, Contre-offensive. Agir et résister dans la complexité, ed. Le pommier, 2024, p. 43-44
7) Régis Soavi, op. cit