Rendere l’impossibile possibile

Intervista a Régis SoaviPerché ha iniziato l’Aikido?Ho iniziato Judo-jujitsu, come si chiamava a quel tempo, nel 1962 e il nostro insegnante ce lo presentò come “la via della cedevolezza”, l’uso della forza dell’avversario. Avevo quasi dodici anni e amavo le tecniche, il disequilibrio, le cadute che potevano essere anche un superamento della tecnica subita. Il nostro istruttore ci parlava di hara, postura e sapevamo che lui stesso stava imparando l’Aikido e che aveva il grado di “gonna nera”, che era molto impressionante per noi. Gli eventi del ’68 mi hanno orientato verso delle tecniche di combattimento di strada, di kobudo e verso delle diverse tattiche. Tuttavia nel 1972 ho voluto riprendere il Judo, e mi sono iscritto in rue de la Montagne-Sainte-Genviève presso Plée sensei, potevamo praticare Judo, Karate o Aikido al prezzo di una singola quota, era ideale per allenarsi. Ma il Judo era cambiato: le categorie di peso, l’allenamento di una tecnica specifica per vincere un combattimento, ero molto deluso. Una sera dopo la seduta sono rimasto a guardare l’Aikido, era Maroteaux sensei a condurre la seduta e sono stato immediatamente conquistato.

Régis Soavi agli esordi, nel Judo, 1964
Régis Soavi agli esordi, nel Judo, 1964
Perché continuare?Ho trovato nell’Aikido molto più di un’arte, una “Via” di grande ricchezza che, come qualsiasi via, ha bisogno solo di essere approfondita. Ogni giorno la seduta mi permette di scoprire un aspetto, di sentire che si può andare molto oltre, che sono solo sul bordo di qualcosa di più grande, come se un oceano si presentasse davanti a me. Al di là del piacere che provo, mi sembra importante testimoniarne l’esistenza.Quale aspetto ti parla di più: marziale, mistico, salute, spiritualità?Non c’è separazione per me tra tutte queste cose, sono interdipendenti.Perché crea dei dojo piuttosto che praticare in delle palestre?Capisco la sua domanda, sarebbe molto più facile utilizzare le strutture esistenti, niente da fare, nemmeno la pulizia, la direzione si farebbe carico di tutto. Avremmo la possibilità di brontolare se non è abbastanza pulito, di reclamare se qualcosa non va, tanto saremmo solo dei passanti temporanei. Ed invece, per me il dojo è di cruciale importanza. In primo luogo perché è un luogo dedicato e quindi permette un’atmosfera diversa, liberata dai vincoli delle amministrazioni, un luogo dove ci si sente a casa, dove si ha la libertà di organizzarsi come si vuole, dove si è responsabili di tutto ciò che accade. È grazie a questa messa in situazione che si può capire cos’è un dojo, e questo fa la differenza, permette una pratica che va oltre l’allenamento e porta gli individui verso l’autonomia, la responsabilità. Ma il motivo principale è che il luogo si carica dal punto di vista del KI, così come un’antica dimora, un teatro antico o certi templi. Questo caricarsi [di KI] ci permette di sentire che un altro mondo è possibile, anche all’interno di quello in cui evolviamo.
Régis Soavi che conduce una seduta nel suo dojo
Lei ha creato diversi dojo ma anche altri luoghi già a partire dagli anni ’80. Il Jardin Floréal, un luogo per i bambini, poi diversi atelier di pittura, così come una scuola di musica La Musique Buissonnière. Perché tutti questi luoghi? Cos’hanno in comune?Il mio desiderio è sempre stato quello di favorire la libertà dei corpi come delle menti, allo scopo che siano finalmente riuniti. Questo lavoro, per essere realizzato, esige una visione molto ampia senza alcuna ideologia, al di fuori dei sistemi che abbrutiscono, al di fuori della competizione, sempre alla ricerca da una parte della sensibilità, che sembra essere diventata una malattia o una tara nella nostra società, e dall’altra, e tra le altre cose, della spontaneità. Creare un giardino d’infanzia per permettere di dare delle basi di un’educazione nella libertà che favorisca in questo modo la non-scolarizzazione, degli “atelier di pittura-espressione”(1) secondo lo spirito del lavoro d’Arno Stern che sono delle bolle, che liberano l’essere umano dalla sclerosi nevrotica che lo circonda, dare la possibilità ad adulti e bambini di appassionarsi alla musica, in particolare quella classica, grazie ad una notazione musicale “la musique en clair”(2) che permette di suonare fin da subito e di scoprire il piacere di suonare senza subire l’irrigidimento della mente e del corpo organizzato dagli specialisti del solfeggio e dell’insegnamento musicale in generale. Tutto ciò sempre al servizio dell’essere umano, della possibilità di uno sviluppo armonioso dei corpi e delle menti.Lei si sceglie un ruolo da non-maestro, non è vero? In realtà lei è il sensei, colui che indica il cammino, colui che si assume la responsabilità dell’insegnamento, ma allo stesso tempo è un membro ordinario dell’associazione, che partecipa alla ricerca delle soluzioni per qualsiasi problema si presenti quotidianamente e si preoccupa tanto del riscaldamento quanto di una perdita o dei lavori di manutenzione.Vedo che ha capito molto bene la mia posizione. Questo modo di porsi è una necessità per me, è fuori questione che io mi perda, ingannato da un potere fittizio che avrei acquisito approfittando di sotterfugi e di false apparenze ma che lusingherebbe il mio ego. La mia ricerca in questa direzione deriva dal Non-Fare e riguarda tutti gli aspetti della mia vita, è antica, lunga e rischiosa allo stesso tempo perché “senza riferimenti fissi” come scriveva Tsuda sensei. Questo orientamento è uno strumento, un utensile indispensabile per permettere ai membri delle associazioni di camminare verso la propria libertà, la propria autonomia attraverso l’attività nel dojo. Per riassumere il mio pensiero, vorrei citare un filosofo del XIX secolo che apprezzo da molto tempo e la cui importanza mi è sempre sembrata sottovalutata nella nostra società. “Nessun individuo può riconoscere la propria umanità, né di conseguenza realizzarla nella vita, se non riconoscendola negli altri e cooperando alla sua realizzazione per gli altri. Nessun uomo può emanciparsi se non emancipa con lui tutti gli uomini che lo circondano. La mia libertà è la libertà di tutti, poiché io non sono realmente libero, libero non solo nelle idee ma nei fatti, se non quando la mia libertà e il mio diritto trovano la loro conferma e la loro sanzione nella libertà e nel diritto di tutti gli uomini, miei eguali”.(3)Com’era Itsuo Tsuda e cosa l’ha colpita di lui?Era un uomo di grande semplicità e allo stesso tempo di grande finezza. Il fatto che parlasse così perfettamente il francese, che lo scrivesse, ci permetteva una comunicazione che non potevo trovare altrove con un maestro giapponese. Era anche un intellettuale nel senso migliore del termine, la sua conoscenza dell’Oriente e dell’Occidente gli ha permesso di trasmettere un certo tipo di messaggio, che rimane ancora oggi senza eguali, in relazione al corpo e alla libertà di pensiero, in particolare nei suoi libri. Aveva incontrato Ueshiba Morihei nel 1955 come traduttore di Nocquet sensei e cominciò a praticare nel 1959, quando aveva già quarantacinque anni. Fu suo allievo per dieci anni, ma poiché era già praticante di Seitai e traduceva per gli stranieri francesi e americani le parole di O sensei, ha potuto cogliere la profondità delle sue parole e l’importanza della postura, dello spirito e soprattutto del respiro (del Ki) nella prima parte dell’Aikido, cosa che oggi sembra dimenticata – con mia grande tristezza.
Itsuo Tsuda con Régis Soavi nel 1980, Parigi
Come trovare l’equilibrio tra insegnamento e pratica personale?Direi semplicemente che io pratico Aikido da cinquant’anni, ogni mattina alle 6:45 per un’ora e mezza e 365 giorni all’anno. Naturalmente, pratico anche il Katsugen undo (che Tsuda sensei aveva tradotto con Movimento rigeneratore), anche in questo caso – potrei dire – tutti i giorni, se non altro, almeno attraverso il bagno caldo Seitai(4). Per quanto riguarda l’insegnamento, ho più o meno uno stage al mese, che sia a Parigi, a Tolosa, a Milano o a Roma.C’è stata evoluzione nella sua pratica o nel suo insegnamento?Certo che sì! Come potrebbe essere altrimenti? Se ci si esercita sinceramente la pratica si estende a tutti gli aspetti della nostra vita, faccio fatica a capire le persone che hanno abbandonato o vanno a cercare altre arti perché trovano l’Aikido ripetitivo. La vita quando è vissuta pienamente è ripetitiva? Ogni istante della mia pratica provoca dei cambiamenti, delle evoluzioni, e anche degli sconvolgimenti che mi hanno portato a rimettere in discussione, ad approfondire. Questo è ciò che provoca in me la gioia nella mia pratica dell’Aikido. Anche i momenti più difficili, e forse più di altri, sono stati i vettori di trasformazioni e di arricchimenti.Il suo maestro, ItsuoTsuda, una volta le ha dato un koan, vero?Sì, ma faccio fatica a raccontare le circostanze esatte. Devo prima spiegarvi che Tsuda sensei sapeva parlare al subconscio delle persone, ogni volta che lo faceva era un modo per dare loro una mano ma non ne parlava quasi mai. Diceva che Noguchi sensei lo faceva correntemente perché fa parte delle tecniche Seitai. Un giorno, in seguito ad una discussione, mi disse «Coraggio», frase tutto sommato abbastanza banale, ma il tono che usò dicendolo evidentemente all'”intermissione respiratoria” mi sconvolse e mi fece reagire, dandomi una forza interiore che non sospettavo. Un’altra volta è stata più importante perché è stato in quel momento che mi ha dato il koan. Mentre gli raccontavo le difficoltà rispetto al lavoro (come guadagnare di che vivere per me e la mia famiglia, ecc.) e come trovare il modo per continuare a praticare, e persino aprire un dojo perché sarei andato via da Parigi per qualche anno e sarei stato a 800 km, cominciò a spiegarmi che nella scuola di Zen Rinzai (avevo appena letto le interviste di LinTsi e lui lo sapeva) il maestro dà agli allievi dei koan che loro devono risolvere. All’improvviso mi ha detto «Impossibile» «Questo è per lei!» Poi se n’è andato rapidamente, lasciandomi inchiodato sul posto, sconcertato, completamente sbalordito. Devo dire che all’inizio l’ho trovato assurdo, ridicolo, mi aveva già dato qualche tempo prima una direzione per la mia pratica scegliendo in modo preciso la calligrafia MU(5) come regalo da parte dei miei allievi parigini. Ma ora, ero scioccato, non capivo. Mu mi sembrava un vero koan, già conosciuto, catalogato, accettabile, ma “impossibile” non aveva senso. Perché dire questo a me? È nel corso degli anni che la “risposta” è apparsa come evidente.Che posto occupa il Katsugen Undo nella sua pratica?Oh! Ha un’importanza di primo piano, ma, per rispondervi, ecco un aneddoto. Eravamo al ristorante con Tsuda sensei, e Noguchi Hirochika – il primo figlio di Noguchi sensei – che era seduto accanto a me mi chiese improvvisamente: «Katsugen undo, che cos’è per lei?» La risposta fu tanto immediata quanto spontanea: «È il minimo», risposi, e da allora non ho cambiato opinione. Questa risposta era piaciuta molto a Tsuda sensei ed egli la utilizzò in alcune delle sue conferenze durante gli stage. Il “minimo” per mantenere l’equilibrio, per permettere al nostro sistema involontario di funzionare correttamente così da non aver più bisogno di preoccuparci della salute, e da non aver più paura della malattia.
Hirochika Noguchi con Régis Soavi, Parigi 1981
Per lei, un Aikido senza Katsugen undo ha senso?Sì, certo, nonostante tutto, dipende da come si pratica. È semplicemente un peccato non approfittare di ciò che può renderci indipendenti, di ciò che può risvegliare la nostra intuizione, la nostra attenzione, la nostra capacità di concentrazione e liberare la nostra mente.Da molti anni lei contribuisce a Dragon Magazine. Questo cosa vi apporta?Questo mi permette di trasmettere un messaggio e allo stesso tempo mi costringe a renderlo il più chiaro possibile rispetto all’insegnamento del mio maestro Tsuda sensei, e quindi alla nostra Scuola. È anche un modo per uscire dall’ombra pur rimanendo nella semplicità, senza fare pubblicità o clamore. Leggere regolarmente gli articoli dei miei contemporanei e dei giovani insegnanti, mi dà molto e mi permette di vedere e comprendere le diverse direzioni in cui va l’Aikido e le loro ragioni d’essere, anche quando non le approvo.La scrittura è importante nel Budo?La scrittura è sempre importante perché è una delle basi della comunicazione – “le parole volano via ma gli scritti rimangono”. Tuttavia, senza una pratica reale, questo rischia di rimanere nel campo delle idee e di soddisfare solo l’intelletto, in questo caso si manca il bersaglio.Ci sono stati anche altri maestri che sono stati importanti per lei?Ho la fortuna di appartenere a un’epoca in cui era possibile incontrare un gran numero di sensei della prima generazione. Gli anni ’70 erano molto ricchi da questo punto di vista, correvamo di stage in stage per formarci, prestando attenzione alle loro parole, alle loro posture, per trarre il meglio da ciò che ognuno di loro apportava. Tutta la mia riconoscenza va dunque a tutti coloro che mi hanno insegnato, il mio maestro Itsuo Tsuda senseï, Masamichi Noro sensei, Nobuyoshi Tamura sensei, André Nocquet sensei, come pure a coloro che ho avuto occasione di incontrare. Preferisco citarli in ordine alfabetico per non suggerire nulla rispetto all’importanza che hanno avuto nella mia pratica: Michio Hikitsuchi sensei, Hirokazu Kobayashi sensei, Rinjiro Shirata sensei, Seiichi Sugano sensei, Kisshomaru Ueshiba sensei, cosí come – sebbene io non abbia mai praticato il Karaté – Taiji Kasé sensei, o Hiroo Mochizuki sensei che ho incontrato grazie a Tsuda sensei e che mi hanno colpito. Non dimentico Maroteau Rolland sensei che fu il mio primo insegnante di Aikido e che mi ha permesso di incontrare colui che fu il mio principale mentore: Itsuo Tsuda sensei.1) Un luogo chiamato oggi “atelier del gioco del dipingere”.2) La pedagogia del Maestro Jacques Grey (1929-2019), pianista.3) Mikhail Bakunin, filosofo anarchico, 1814-1876.4) Rivista Yashima, N°13, ottobre 2021.5) “Nulla” o “non-esistenza”, termine usato nel Taoismo per esprimere la vacuità.