Tutto è in tutto, e reciprocamente

Di Régis Soavi

Comprendere il Riai è, al di là delle corrispondenze tecniche, uscire dal mondo della separazione. È accettare di ritrovare l’unità dell’essere per sentire in tutto il proprio corpo la vita che si manifesta.

Sì il Riai esiste, l’ho incontrato

Per capirlo veramente e nello stesso tempo sentirlo nel nostro essere, dobbiamo andare oltre qualcosa. Andare al di là della tecnicità, non ridursi semplicemente all’imitazione, rispettando ovviamente coloro che ci guidarono e ci portarono i frutti delle proprie ricerche. Quando Noro Masamichi sensei creò il Kinomichi, rivelò, già più di quarant’anni fa, ciò che aveva scoperto. Ha potuto farne approfittare i propri allievi e questo senza bisogno di discutere a proposito del Riai, perché ne dimostrava ben prima le capacità, il vigore e la finezza nelle dimostrazioni così straordinarie che ho avuto la fortuna di vedere. Anche le capacità di Tamura Nobuyoshi sensei in questo campo non sono più da dimostrare. Tanti altri ce lo hanno dimostrato.

Dietro le quinte

Qualunque sia la nostra tecnica e, per quanto precisa, dipende da moltissimi elementi. Innanzitutto la nostra mente prima e durante l’azione, così come le reazioni del partner contro l’avversario, la nostra forma fisica del giorno, e infine l’istante T, sempre nell’indefinibile. Dietro le quinte del nostro essere interiore, se così si può dire, sta lavorando qualcosa di cui non siamo a conoscenza, e anche di cui non possiamo e non dobbiamo prendere coscienza – se non nel momento stesso in cui accade –, perché c’è il grande rischio di impedirgli di manifestarsi. Solo le persone che hanno accettato di svuotare la mente dai rumori di disturbo che la ingombrano possono realizzare l’unità necessaria per la giusta azione.
Quando siamo vuoti da ogni pensiero parassita e ogni domanda superficiale, siamo nello stato naturale dell’essere umano in cui ciò che può e deve sorgere saprà utilizzare sia il nostro potenziale, che a sua volta saprà basarsi sul nostro allenamento, sia il nostro comportamento nella vita di tutti i giorni.

Régis Soavi: Rendere visibili gli assi corporei che portano l'azione
Régis Soavi: Rendere visibili gli assi corporei che portano l’azione

Fare un paragone è un pericolo

Vedere gli assi del corpo che portano l’azione mi sembra “l’atto” più importante per un praticante perché le linee che definiscono questi assi dipendono da ogni persona, da ogni tendenza corporea e ognuna ha le sue specificità. Il pericolo del confronto è il rischio di bloccare l’attenzione sui dettagli a scapito dell’intera osservazione. Invece, saper apprezzare nel suo giusto valore un movimento, un gesto, qualunque sia l’arte, ci permette di ampliare il nostro campo di conoscenza e, allo stesso tempo, le nostre capacità.
Forse lo Yoseikan Budo è l’arte in cui la realtà del Riai è stata per me fin dall’inizio più evidente. Creato alla fine degli anni sessanta da Mochizuki Minoru che era senza dubbio uno dei più alti gradi in diverse arti marziali del Giappone (Aikido, Jujitsu, Iaido, Judo, Kendo, Karate), lo Yoseikan Budo è ora guidato dal figlio Mochizuki Hiroo che ne è il Soke. Ho avuto la fortuna di incontrarlo, negli anni Settanta, a una dimostrazione alla quale Tsuda sensei, invitato lui stesso, ci aveva portato. Dato che avevo praticato il Judo per più di sei anni, il Ju-jitsu Hakko-ryu con Maroteaux sensei e il Jiu-jitsu della scuola Jigo ryu con Tatsuzawa senseï, ho subito apprezzato la performance che avevo potuto vedere. I kata di Iaido che chiudevano la presentazione di quest’arte rivelavano senza dubbio una comprensione e una messa in luce della realtà del Riai.

Allo stesso modo, ricordo di aver visto un documentario(1) all’inizio degli anni novanta sul Tai Chi Chuan che presentava il lavoro del maestro Gu Meisheng, e di essere stato estremamente impressionato dai movimenti del suo corpo, dal suo modo di muoversi durante le sue dimostrazioni. Vedevo in modo molto preciso lo stesso movimento corporeo del mio maestro Tsuda Itsuo, le tecniche erano fondamentalmente diverse, ma sia la mente che quel qualcosa che lo abitava dava un risultato incredibile: vedevo il mio maestro vivo eppure non era lui. Mi sono procurato la videocassetta e la guardiamo al dojo ogni volta che è opportuno, come ad esempio durante lo stage d’estate.
Confrontare l’efficacia della tecnica senza vedere l’essenziale del movimento sarebbe un grave errore. A volte, indipendentemente dall’eventuale competenza tecnica, basterà la sola presenza o determinazione della persona – cioè la concentrazione del Ki (del Chi per le arti cinesi) – a risolvere un problema.

La respirazione KA MI

Ciò che c’è dietro ogni movimento, e che spesso non si percepisce abbastanza, è la “Respirazione”. Nello stesso modo in cui il sangue circola in ogni parte del nostro corpo, anche la più piccola, la respirazione, in particolare l’ossigenazione, circola anch’essa senza interruzioni in ogni cellula. È il vettore della nostra facoltà di muoverci, quindi di spostarci, e quindi di reagire quando ce n’è bisogno. La visualizzazione della respirazione è la consapevolezza della realtà del Ki. È molto difficile concepire il Ki, che appartiene al campo del sentire, motivo per cui i maestri di arti marziali utilizzano diversi metodi nei loro insegnamenti per consentire ai loro studenti di avvicinarsi a questa percezione. È, in particolare, attraverso la pronuncia dei nomi Ka e Mi che Tsuda sensei ci ha insegnato che si può comprendere l’identità che è comune a tutte le tecniche e a tutte le arti. Questo non toglie nulla alla specificità di ciascuna di esse, ma ci apre una finestra per la sua comprensione.
Ad ogni inspirazione si pronuncia mentalmente, o a bassa voce, ciò che aiuta la visualizzazione, la parola Ka (radice di fuoco in giapponese) e ad ogni espirazione Mi (radice di acqua); a poco a poco si integra questo modo di fare e quindi la visualizzazione diventa sempre più facile. Tanto che non è più necessario preoccuparsene, tranne che per alcuni esercizi che richiedono una maggiore concentrazione. È importante sapere che la visualizzazione non ha nulla a che fare con l’immaginazione perché è un atto che avviene attraverso l’azione concreta del koshi che è in contatto diretto con la realtà. L’immaginazione è, invece, un prodotto delle zone superiori del cervello, il cui scopo è quello di farci entrare in un mondo astratto e quindi fondamentalmente irreale.

Itsuo Tsuda: esercizio di respirazione Ka-Mi durante la pratica respiratoria
Itsuo Tsuda: esercizio di respirazione Ka-Mi durante la pratica respiratoria

Grazie a questo insegnamento, è possibile prendere coscienza che la nostra percezione del tempo si dilata in questa realtà che è la nostra quotidianità. È una cosa che ognuno ha già vissuto almeno una, se non molte volte, nella propria vita. Ad esempio, quando si aspetta un autobus che è in ritardo di due minuti, il tempo ci sembra molto lungo, mentre una serata con gli amici è passata prima che ce ne rendessimo conto. Ma questa tecnica di visualizzazione che si basa sulla respirazione può rivelarci molto di più di queste semplici constatazioni, può svelarci un universo che fino a quel momento non conoscevamo. Tsuda sensei ce ne ha descritti alcuni aspetti quando scriveva nel suo secondo libro:
“La dilatazione del tempo costituisce il fondamento stesso della tecnica seitai. Tra l’espirazione e l’inspirazione, c’è una pausa nella respirazione, un punto morto nel quale l’uomo non può reagire in alcun modo. Questa fessura, come ci si può rendere conto, è quasi impercettibile e si ha l’impressione che l’espirazione e l’inspirazione si succedano senza soluzione di continuità. Ma per Noguchi(2), è come una porta spalancata.
[…] È d’altronde nella fessura della respirazione che qualsiasi tecnica, che si tratti di Judo, di Kendo o di Sumo, funziona veramente. L’inspirazione permette di contrarre i muscoli, l’espirazione di rilasciarli. Ma durante la ritenzione, non è possibile né contrarre né rilasciare. Se si agisce dopo l’inspirazione e prima dell’espirazione, è inutile cercare di decontrarsi, si resta rigidi. Ci si lascia proiettare al di sopra della spalla, per esempio.” (ItsuoTsuda, La via della spoliazione, Yume Editions, p. 128-130)
Tocca ad ognuno di noi utilizzare questa scoperta per il benessere di tutti.

Il Non-Fare

Perché parlare del Non-Fare in un articolo sul Riai? Perché penso che sia una delle chiavi più importanti nella pratica delle arti marziali, e che oggi sia troppo poco conosciuta o trascurata, perché sfugge allo stato attuale della sperimentazione cosiddetta scientifica comunemente accettata. Questa chiave è considerata parte del dominio mistico mentre era alla base degli antichi insegnamenti e, quindi, delle conoscenze dei nostri maestri in molte arti marziali. Tutte le tecniche sono state costruite a partire dall’esperienza involontaria e spesso inconscia del corpo dell’essere umano, indipendentemente dal suo genere, dalla latitudine in cui viveva o dalla sua età. Tutte le tecniche si sono sviluppate e concatenate per permettere una migliore efficacia di fronte alle avversità. Nascono tutte da una risposta a un atto, che sia già iniziato o appena nato. La precisione viene dopo, deriva dagli assi, dall’ambiente, come dalla volontà che nasce dall’incontro, dal pericolo che si rivela o meno, quindi dalla necessità.
L’Aikido è un’arte del Non-Fare (il wu-wei così rinomato in Cina) ed è ciò che O Sensei ha trasmesso nel corso degli ultimi dieci anni della propria vita – perorando la pace e raccomandando ciò che oggi si chiama la simbiosi, piuttosto che il parassitismo e la cosiddetta “Lotta per la vita” così mal compresa già all’epoca di Darwin.
Tsuda sensei, insistendo sulla capacità di fusione delle persone e la respirazione coordinata, ci ha dato un’orientazione e ha permesso questa ricerca che alcuni di noi continuano. O Sensei che non aveva più tecniche realmente individuabili né comprensibili come ce lo spiegavano i maestri che lo hanno conosciuto direttamente da giovani, ci guida innanzi tutto ad andare in questa direzione. Se ci allontaniamo dall’idea di efficacia e, allo stesso modo, di rendimento – così cara alla nostra società cosiddetta moderna o civilizzata – avremo la possibilità di incontrare la vita e di poter utilizzare le nostre capacità, che potranno così appoggiarsi su queste conoscenze ancestrali troppo spesso svalutate.

Note

1) Yolande du Luart, Le Taiji quan: de Shanghai à Pékin à la recherche du qi, 1991.
2) Noguchi Haruchika, creatore della tecnica seitai e del Katsugen undo.