di Manon Soavi.Il nostro mondo è malato della propria violenza (sia essa fisica, verbale, psicologica, simbolica, sociale, economica…), malato di un modello dominante basato da secoli sulla competizione, l’appropriazione e la paura. Da quella dei potenti che possiedono il mondo a quella dei nostri divertimenti e media, la violenza è ovunque. Il mondo spesso non ci lascia scelta: la violenza la si esercita o la si subisce, se non tutt’e due.Molto spesso, per le donne, la violenza sta già nel fatto stesso di nascere donna. Per tutta la nostra vita, saremo sottovalutate, maltrattate e giudicate in base al modello maschile, quello a cui dobbiamo sempre far riferimento. Le arti marziali non fanno eccezione alla regola: violenza, accondiscendenza e paragoni sessisti sono una realtà. Molto più di quanto non si voglia ammettere.La violenza è così una piaga purulenta che ci riguarda tutti, le donne purtroppo in prima linea. Se l’Aikido non è ovviamente una risposta a tutti i mali del mondo, mi sembra che quest’arte possa essere uno strumento eccezionale a disposizione delle donne per uscire dal quadro che è stato imposto loro. Una via che può portarci a superare la violenza, per uscire dal dualismo: vittima o carnefice. Per questo, credo che il primo passo sia riappropriarsi della questione della violenza affinché non sia più una fatalità subita.
Fatalità? O scelte politiche?
Per fare questo lavoro, dobbiamo uscire da alcuni schemi ben radicati. La visione, storicamente ristretta, secondo la quale dalla notte dei tempi le donne sarebbero sottomesse agli uomini, non è più attuale. Come dimostrano alcuni ricercatori2, durante la preistoria, durata millenni, alla stregua di altre specie del regno animale, donne e uomini raccolgono, cacciano, curano, combattono e maneggiano le armi da lancio. Col progredire della sedentarizzazione, la condizione delle donne si deteriora ovunque nel mondo, ma è in Europa, nel Rinascimento, che la religione e il potere politico faranno prendere una svolta decisiva alla storia che ci ha formati. Nel suo libro Streghe: Storie di donne indomabili dai roghi medievali a #MeToo, l’autrice Mona Chollet esplora l’immensa violenza perpetrata dalle cacce alle streghe in Europa nei secoli XV e XVI. Questi crimini di massa, passati sotto silenzio, non solo causarono la morte di migliaia di donne e bambini con il pretesto di “stregoneria”, ma contribuirono anche a plasmare il mondo che è il nostro, “annientando a volte famiglie intere, facendo regnare il terrore, reprimendo senza pietà alcuni comportamenti e alcune pratiche ormai considerate intollerabili”3. La condizione delle donne era già difficile, ma questo episodio storico segnerà un cambiamento storico del nostro mondo. La nostra cultura europea si imporrà come modello dominante universale, conseguenza tra le altre delle nostre conquiste. Mona Chollet analizza nel suo libro il trauma profondo che resterà sulle donne e il messaggio indelebile che si iscriverà e si trasmetterà di generazione in generazione, da donna a donna: sottomettiti! Non ribellarti, perché quelle che lo hanno fatto lo hanno pagato a caro prezzo.Donne del XXI secolo, siamo le eredi di questo passato ultraviolento e la piaga suppura ancora, mantenuta com’è dall’accumulazione delle violenze odierne. In un certo numero di paesi, non rischiamo più di essere sottoposte a tortura e bruciate, è vero – ma il fatto è che non è più necessario, perché abbiamo integrato le regole del gioco, abbiamo persino interiorizzato così tanto la violenza che molto spesso non la vediamo più! E in caso di dubbio, la violenza sarà sempre qui a ricordarcelo, nel caso in cui ci dimenticassimo del nostro posto.
Le donne e la violenza
In quanto donna, praticante e insegnante di arti marziali (Aikido, Jujutsu, Kenjutsu), non posso che sentirmi coinvolta da questa questione e cercare risposte. Se la società di ieri rispondeva alle donne che non dovevano reagire, la società attuale sembra oscillare tra perpetrare questo silenzio e questa immobilità e proporci di diventare aggressive quanto gli uomini (al lavoro, in amore, in battaglia, ecc.). Siamo allora condannate, per liberarci, a diventare violente quanto gli uomini? È auspicabile? E possiamo gareggiare sullo stesso piano?Dobbiamo fare, come Hollywood, gli stessi film d’azione ma mettendo donne nei ruoli di eroine per aderire alla moda attuale? Personalmente, se non dubito per un solo istante della potenza delle donne, dubito che questa sia la via giusta per esprimerla.Ma quindi, come trovare il punto di equilibrio?Prima di tutto, bisogna risalire alla radice: l’educazione. È fin dall’infanzia che i maschi possono occupare lo spazio, correre, arrampicarsi, giocare a palla, opporsi gli uni agli altri; provare il proprio corpo ed acquisire così fiducia in questo corpo che si dispiega. Al contrario, dallo spazio, le bambine saranno più o meno escluse. Saranno relegate a giochi più statici, a piccoli giocattoli carini e futili. Senza parlare dei vestiti “così carini” che le intralciano. I loro corpi non vivranno così l’esperienza del proprio dispiegamento, della propria potenza. Siamo formattate per interiorizzare ogni espressione di violenza e per cercare di piacere agli altri. I modelli femminili di fiction di fatto portano a termine il compito indicandoci la via da seguire.Come ho già detto, non sono andata a scuola e non sono stata educata “come una femmina”. Mi ricordo quindi della mia rabbia durante l’adolescenza davanti alla mancanza di reazione dei personaggi femminili dei libri e film. Non capivo perché fossero così sottomesse, così passive, oppure diventassero intriganti operando nell’ombra, usando il proprio fascino per vendicarsi. Risultato: non mi identificavo per niente con i personaggi femminili ma sempre con quelli maschili, che agivano, combattevano per grandi cause, liberi nei loro movimenti e azioni.Diventate adulte, le donne hanno sempre grandi difficoltà ad autorizzarsi a reagire di fronte alla violenza. Non dico che le vittime siano responsabili delle aggressioni che subiscono, assolutamente no! Ma così scontiamo doppia pena, come dice Virginie Despentes: “Un’impresa politica ancestrale, implacabile, insegna alle donne a non difendersi. Come al solito, doppia costrizione: farci sapere che non c’è niente di più grave [lo stupro], e allo stesso tempo, che non ci si deve né difendere, né vendicare”4. Parlavo di recente con una giovane donna (ingegnera, team manager nella sua azienda) della difficoltà ad uscire da questo schema. Mi diceva che molto spesso, aveva paura della propria violenza se avesse reagito, quindi spesso lasciava fare l’aggressore, aspettando ancora un po’ (può trattarsi “solo” di gesti fuori luogo, avances pesanti o altre violenze ordinarie) invece di reagire, temendo che questa reazione fosse giudicata sproporzionata o isterica.Perché le cose stanno così? È forse fondamentalmente femminile? La filosofa Elsa Dorlin5 ci fornisce elementi di risposta parlano di un processo che chiama “la fabbrica dei corpi disarmati”. Questa filosofia studia attraverso quali mezzi i corpi considerati come subalterni (quelli di schiavi, colonizzati, donne, ecc.) si ritrovino ad essere limitati nella propria capacità di difendersi, nel senso ampio del termine. Per lei, se le donne sono “indifese” è per volontà sociale, da secoli. Così, ci viene insegnato che se reagiamo sarà peggio, che è ineluttabile subire un’aggressione prima o poi e che gli uomini saranno sempre più forti. Una superpotenza maschile che spesso non è altro che illusione.
Violenza o energia coagulata
Quando parliamo di violenza, non parliamo, quasi mai, della violenza del vento o della violenza dei sentimenti che ci attraversano. Eppure questa parola in origine parlava più della volontà, della forza (forza del vento, ardore del sole, ecc.) e deriva addirittura dal latino vis che può significare forza vitale o vitalità! Questa energia, questa vitalità, perché allora si esprime troppo spesso attraverso la distruzione?Itsuo Tsuda Sensei spiegava che “quando questa energia invisibile si scatena, dà luogo a violenze senza motivo giustificabile. Si prova allora piacere nel sentire grida stridenti, baccano. Invece, quando la ragione mette il freno a questo scatenamento, l’energia non consumata si coagula e impedisce l’equilibrazione7 normale. [?] C’è un gran numero di persone che, soltanto per venire a patti con la società, corre a destra e a sinistra alla ricerca di soluzioni facili senza arrivare alla soluzione radicale: il risveglio dell’essere.”8A partire dal momento in cui si scopre che bloccare la nostra energia e le nostre reazioni ci rinchiude in questo ruolo insopportabile di “vittima”, e può portarci ad esprimere la nostra vitalità attraverso la distruzione degli altri o di noi stesse, si può allora fare il passo successivo: lavorare sul tenere sotto controllo la violenza. Fermare una mano, una parola, guardare l’altro negli occhi. Tenere sotto controllo qui non vuol dire per forza trattenere la violenza. Non è semplice, ma significa anche valutare le situazioni per sapere quale sarà la tappa successiva. Non speriamo più che l’altro non si avvicini, sappiamo che se aspettiamo sarà troppo tardi, e che quindi la violenza sarà ineluttabile. Uno dei lavori da fare è diventare più sensibili, sentire il nostro stato e quello degli altri.Nella nostra Scuola, gli strumenti per questo risveglio, che avviene attraverso il corpo, sono l’Aikido e il Katsugen Undo, che fa parte del Seitai. “Il principio del Seitai è estremamente semplice: la vita cerca sempre di equilibrarsi, nonostante le idee strutturate che facciamo pesare su di essa. La vita agisce attraverso i nostri istinti e non attraverso la ragione.”9 Così, non si tratta di un’azione esterna o di uno sfogo, ma piuttosto di una sottile equilibrazione della nostra stessa energia. Per mezzo del movimento involontario che permette lo scorrere di questa energia, ci si pacifica dall’interno.Dal canto suo, la pratica dell’Aikido ci fa confrontare con l’energia che ci arriva dagli altri. Come gestire questo, come reagire? Nella nostra Scuola la risposta è l’armonizzazione. Anche se l’altro è un pericolo, soprattutto se l’altro è un pericolo, armonizzarsi è necessario. Come dice Ellis Amdur “c’è di fatto un’intimità, dell’ordine della nudità, nella lotta a mani nude [?] La competenza non è semplicemente l’abilità nel movimento o nella tecnica, la vera competenza è la capacità di essere permeabile come un bambino piccolo”10. Ovviamente armonizzarsi non vuol dire abbandonarsi. È un lavoro sottile che porta a non usare per niente la forza contro la forza, ma a guidare, a far scorrere questa forza altrove. Pratichiamo seguendo dei principi di lavoro che sono la respirazione, lo sviluppo della sensazione e il Non-fare. Non si tratta di non violenza, di paccottiglia. Al contrario, i nostri dojo propongono una pratica quotidiana, ed è progressivamente che l’intensità aumenterà, sempre in funzione della capacità di tori di mantenere questi principi di lavoro, anche di fronte ad attacchi che diventano più rapidi e coercitivi. Le donne possono trovare una posizione importante in questo lavoro dove le loro capacità possono esercitarsi e dove possono progressivamente scoprire che “non si tratta tanto di imparare a combattere quanto di disimparare a non combattere.”11Queste due pratiche permettono così di ritrovare una sensibilità più sottile. Spesso per sopportare le cose finiamo per non sentire più, né la sofferenza, né la carezza del vento, né il pericolo, purtroppo. Ellis Amdur dice in merito: “Per sopravvivere davvero negli incontri ad alto rischio, bisogna sviluppare e raffinare al massimo una sensibilità agli altri, ai nostri alleati come ai nostri nemici. Sviluppare la propria intuizione kan (?) è essenziale.”12 Questa capacità di sentire l’altro e di ascoltare la propria intuizione sono primordiali in ogni aspetto della nostra vita.
Female gaze
È nel 1975 che la critica cinematografica Laura Mulvey teorizza il Male gaze al cinema, che si caratterizza per il fatto che la cinepresa ha sempre un punto di vista maschile con uno sguardo sul corpo delle donne come oggetto. Da allora, alcune cineaste parlano di un Female gaze che non è l’inverso (guardare i corpi degli uomini come degli oggetti) ma che cerca di mettersi al centro dell’esperienza vissuta dagli individui, in particolare le donne. Questo monopolio di rappresentazione fondato sul punto di vista maschile, messo in evidenza nel cinema, si può ritrovare più o meno in tutti i campi.Tanto più nelle arti marziali, viste quasi esclusivamente come maschili perché arti guerriere. Ma la storia è scritta dai vincitori. Come dice l’autrice Chimamanda Ngozi Adichie, è il pericolo della storia unica: “Cominciate la storia dalle frecce dei nativi americani, e non dall’arrivo degli inglesi e otterrete una storia completamente diversa.”13 A volte, raccontare la storia da un altro punto di vista, è risanare dei traumi sociali profondi.Come dicevo sopra: l’industria del cinema ci mostra oggi sempre più donne eroine che combattono. Nonostante abbia potuto riconoscervi una certa soddisfazione alla mia frustrazione da adolescente, me ne sono stancata abbastanza presto. Queste donne combattono “come degli uomini” e non hanno niente di realistico. Quindi non sono ancora realmente dei modelli di donne come ne avrei voluti quando avevo sedici anni. Nell’Aikido, come nella maggioranza degli ambiti, la sovra-rappresentazione degli uomini ci dà come orizzonte, come modello di pratica un universo maschile con le sue caratteristiche fisiche e mentali. Le donne che vogliono perseverare devono allora molto spesso dimostrare di poter giocare sullo stesso piano dei modelli maschili. Io non sostengo un modo femminile di fare l’Aikido ma la possibilità che esistano altri modi di fare che siano altrettanto rispettabili e rispettati. D’altronde, se l’idea di fare dell’Aikido femminile sembra a noi, donne, così insopportabile, è proprio perché valorizziamo sempre un certo sguardo, un certo modo di fare. Questo dura da così tanto tempo, che abbiamo integrato la superiorità di un modello che non è nemmeno più maschile, che è soltanto IL modello. Per riconoscere la nostra eccellenza dobbiamo rivaleggiare con questo modello, nello stesso modo, sullo stesso terreno, altrimenti sarà una sotto-disciplina disprezzata. Dimentichiamo di interrogarci sul fondo: in cosa questo modello maschile sarebbe più giustificato, più universale? Si tratta d’altronde di un modello maschile occidentale contemporaneo, poiché altre culture hanno avuto altri modelli. Questo fenomeno si ritrova in tutti i campi, per esempio lo scrittore Junichiro Tanizaki ha sviluppato la questione del monopolio dello sguardo occidentale nel campo delle scienze:”Non posso non pensare che se l’Oriente avesse sviluppato una cultura scientifica che gli fosse propria, indipendentemente dall’occidente, vivremmo oggi in una forma di società molto diversa. Per esempio se noi possedessimo una nostra scienza fisica o una nostra scienza chimica, e se su di esse avessimo sviluppato delle tecnologie e un’industria specifiche che si sarebbero di conseguenza evolute seguendo vie diverse, non sarebbero forse apparsi degli artefatti, delle macchine di ogni specie, dei farmaci, e dei manufatti più compatibili con la nostra identità? O addirittura, mi domandavo, i principi stessi di questa fisica e di questa chimica non si sarebbero dimostrati diversi da quello che gli occidentali vi vedono?”14La corrente dei “saperi situati” nelle scienze va nella stessa direzione. Iniziata da donne, per l’appunto, la corrente si appoggia a lavori che descrivono e analizzano come ogni sapere scientifico sia “situato”, impregnato della cultura, del contesto storico, della posizione (sociale, di genere, ecc.) delle ricercatrici e ricercatori. Secondo questa corrente, ogni sapere, anche scientifico, è parziale, e aspirare ad un sapere neutro e oggettivo è un’illusione. È moltiplicando i punti di vista, le posizioni, ed esplicitando e assumendo il nostro carattere situato che si tende verso un sapere più solido, più affidabile.Altro esempio, i nativi americani possono insegnarci un modo diverso dal nostro di vivere l’adattamento all’ambiente:”Al contrario dei contadini europei, che si piegano sotto il giogo dei lavori agricoli e riempiono ansiosamente i granai in previsione di future penurie, l’indiano sembrava libero, sicuro della sua capacità di sormontare ogni difficoltà [?] frutto della sua tenacia” 15 invece che della sua capacità di previsione. È forse possibile vivere senza preoccuparsi per il futuro?Allo stesso modo, è forse possibile che esista un altro modo di combattere? Se le donne preistoriche erano capaci di combattere, ci furono anche le Celtiche, le amazzoni dell’Amazzonia, diverse tradizioni di donne-guerriere in Africa (le amazzoni del Dahomey, le guerriere Senegalesi o Zulù), ce ne furono anche in Cina e in Giappone. Oppure ancora le native americane16 che potevano essere capo, sciamana, guaritrice o guerriera. E poi le donne della Rivoluzione francese, le anarchiche, o le suffragette inglesi. E sicuramente ancora altre culture dimenticate in cui delle donne erano detentrici di tradizioni marziali specifiche e non c’è nessuna ragione di pensare che non potessero essere efficaci in questo campo, a seconda degli obiettivi da raggiungere. Pagherei oro per vedere come combattevano, come traevano vantaggio dalle loro specificità fisiche e psichiche.Hino Akira sensei racconta il suo incontro con il Tai Chi Chuan e il Kung-fu Shaolin: “L’insegnante era una donna, una nonnina dalla pratica molto morbida. Ero perplesso e mi chiedevo se si trattasse di una ginnastica per la salute o di una tecnica marziale. Le ho fatto la domanda e mi ha risposto che era un’arte marziale. Allora le ho detto: “Mi scusi ma se è un’arte marziale avrebbe la gentilezza di mostrarmi cosa fa contro un chudan tsuki per esempio?”. Mi ha detto che non c’era nessun problema e l’ho attaccata. Prima di capire cosa mi stesse succedendo ero proiettato!Mi sono detto “Allora esiste!”. Benché non fossi alto, ero ancora un ragazzo pieno di vigore e una nonna aveva appena superato il mio attacco grazie alla morbidezza. Avevo appena scoperto che esistevano realmente dei principi che permettevano di superare la forza con la dolcezza. Ero sbalordito ma avevo appena scoperto una delle chiavi che mi avrebbero permesso di proseguire nella mia ricerca.”17