di Manon SoaviTutti conoscono la paura a diversi gradi, ma non conosciamo tutti le stesse paure e quando si parla di un soggetto in modo generale, se ne parla al maschile. Se avere paura non è ovviamente appannaggio delle donne, ci sono specificità della paura al femminile nel nostro mondo ed è l’angolazione che ho scelto per riflettere su questo tema. La situazione delle donne è sempre una duplice o triplice pena. Se siete un uomo povero sarà difficile, ma se siete una donna povera, sarà peggio. Se siete immigrato, sarà difficile, ma donna immigrata sarà peggio e così via. C’è sempre un accumularsi, perché essere donna è già percepito come un “handicap”. L’argomento della paura e il suo rapporto con le arti marziali già in sé non è un argomento facile, al maschile. Ma al femminile è un’altra cosa. Al femminile, la paura è molto spesso una compagna quotidiana, dalle molteplici facce. C’è una vera e propria educazione alla paura nell’educazione delle ragazze. Allora se non è forse peggio che per gli uomini, credo che sia assolutamente necessario sentire anche questo punto di vista, perché come dice Howard Zinn “Finché i conigli non avranno degli storici, la storia sarà raccontata dai cacciatori…”. Le donne devono raccontare da sole il proprio vissuto. Raccontare ciò che la paura induce come rapporto con il mondo e ciò che fa al corpo.Per cominciare, come propone la filosofa Elsa Dorlin, bisogna guardare
“ciò che fa essere una donna”
Le donne hanno particolarmente familiarità con la paura perché crescono in un mondo che è loro piuttosto ostile. Il grado di ostilità dipende dalla regione del globo dove nascete. Ben inteso per ogni donna dipenderà dalla sua educazione e dal suo vissuto. Ciononostante si possono delineare delle grandi linee, delle tendenze delle società.Come si sa, è dall’infanzia che i ragazzi potranno sviluppare e sperimentare la propria agilità, la propria forza, il proprio corpo, il proprio potere? Invece lo spazio delle ragazze è molto spesso ridotto a giochi statici e a giocattolini carini. Le loro menti sono accaparrate da questa preoccupazione sull’apparenza, che devia e consuma la loro energia. I loro corpi non dispiegano le proprie potenzialità e non conosceranno la propria potenza, o raramente. Su questo s’innesta un intero mito della superpotenza maschile che alimenta una cultura di sottomissione e una norma, quella di una “femminilità senza difesa”. La filosofa Elsa Dorlin, che studia come i dominanti “disarmano” a tutti i livelli le popolazioni dominate, spiega la politica che consiste nel rendere impossibile, impensabile la possibilità di difendersi. Chiama questo fenomeno “la fabbrica dei corpi disarmati”. O ancora spiega come “si tratta qui di condurre alcuni soggetti ad annientarsi come soggetti […] Produrre degli esseri che più si difendono più si rovinano” (Elsa Dorlin Difendersi, 2020). È così che la paura è trasmessa in modo secolare. Essere donna è, talmente spesso, avere paura. Una paura che si sconnette dalle situazioni reali, che diventa un background, come una preda che s’ignora. Certo è talmente insopportabile che molte donne lottano contro questa paura. Alcune riescono più o meno a tirarsene fuori. Ciononostante, benché non sia molto piacevole da guardare, né da riconoscere, credo che sia necessario approfondire un po’ di più su questa posizione di preda.Elsa Dorlin analizza attentamente questo posizionamento culturale di preda che si applica alle donne da troppo tempo. Attraverso l’analisi di un romanzo (1) ne fa una dimostrazione flagrante di cui non posso che citare dei lunghi passaggi per farne comprendere il senso. Il personaggio del romanzo di chiama Bella. “Come milioni di altre, Bella è una giovane ragazza senza storia, di cui nessuno dovrebbe ricordarsi. Nella vita, lei non ha né ambizioni né pretese, neanche la felicità più semplice, la più stereotipata. [?] Bella è un’antieroina, un personaggio anonimo, una donna che passa via veloce, un’ombra tra la folla. E, Bella è comune a un punto tale che può rappresentare tutte le donne. [?] Chi non ha, almeno una volta, sentito la mediocrità esistenziale di Bella, il suo anonimato, la paura così familiare che l’accompagna, le speranze abortite, lo sfinimento rivendicativo, la claustrofobia di vivere in quello spazio striminzito, di sopravvivere nel suo corpo, nel suo genere, la sua umiltà nel sopportare le grane sociali, la sua unica esigenza di vivere tranquilla? Perché quasi tutti i giorni facciamo, in modo diverso e ripetitivo, l’esperienza di tutta questa miriade di violenze insignificanti che ci intossicano la vita, che mettono continuamente alla prova il nostro consenso. [?]Le prime pagine che descrivono la vita di Bella fanno emergere in filigrana qualcosa che potremmo definire fenomenologia della preda. Un’esperienza vissuta che proviamo in tutti i modi a sopportare, a normalizzare attraverso un’ermeneutica della negazione, tentando di dare un senso a questa esperienza svuotandola del suo aspetto invivibile, insopportabile. [?] Prova a vivere come sempre, a rassicurarsi facendo finta che vada tutto bene, a proteggersi facendo come se non fosse successo nulla, de-realizzando la propria percezione della realtà – in strada, proprio davanti a lei, un uomo la guarda dalla sua finestra giorno e notte, ma forse è lei a pensare che un uomo la guardi. Bella vive in questo sforzo costante che consiste nel dare pochissima importanza a sé: a ciò che prova, alle sue emozioni, al suo malessere, alla sua paura, alla sua angoscia, al suo terrore. Questo scetticismo esistenziale della vittima mostra una perdita di fiducia generalizzata che tocca tutto quello che è vissuto, percepito in prima persona. Poi, quando la negazione diventa impossibile, Bella sopporta: ripiegandosi su se stessa, nascondendosi nel suo appartamento, restringendo il suo spazio vitale che, nonostante i suoi sforzi, è violato. Vive nella banalità quotidiana di una preda che vuole ignorarsi, occupandosi dell’organizzazione della sua vita per salvarne il senso [?]” (ibid)Elsa Dorlin dimostra in questo passaggio questa fabbrica in azione sulle donne. Certo si tratta di un romanzo ma a volte è attraverso la fiction che si esprime meglio una realtà: questa paura paralizzante, più o meno permanente che si cerca di negare per continuare a vivere. Una paura inculcata, culturale, che impedisce di agire e che fa delle donne, ancora e sempre, dei corpi di vittime. L’abbiamo tutte più o meno fortemente sentita. Abbiamo tutte lottato contro questa paura per vivere malgrado tutto. Per rientrare tardi, per andare in viaggio da sole, per accettare un invito, per lavorare. Siamo obbligate a passare sopra questa paura altrimenti non facciamo niente.Sfortunatamente e paradossalmente questa paura inculcata e i nostri sforzi per passare al di là e cortocircuitano l’istinto, che include il timore necessario, quello che ci permette di sentire il pericolo e di reagire, in un modo o in un altro.
Fenomenologia della preda
La vera preda, l’animale cacciato da un predatore esterno alla propria specie, ha una grande attenzione per se stessa e accorda un’immensa fiducia a tutti i segnali di paura istintiva. Rifiutando di accordare quest’attenzione a sé, le donne si mettono ancora maggiormente in pericolo. Seguendo sempre l’analisi del romanzo Dorlin prosegue “La storia di Bella è anche la storia di un vicino, un uomo qualunque che abita nel palazzo di fronte e che un giorno ha deciso di violentarla. Perché? Perché Bella sembra così patetica, così fragile, così già ‘vittima’. E, se siamo tutte un po’ Bella, è anche perché, come Bella, abbiamo dapprima cominciato a non uscire più a una certa ora, in certe vie, a sorridere quando uno sconosciuto ci parla, ad abbassare lo sguardo, a non rispondere, ad accelerare il passo quando rientriamo a casa; ci siamo assicurate di aver chiuso bene a chiave le porte, tirato le tende, di non muoverci più, di non rispondere più al telefono. E, come Bella, abbiamo speso molte energie a credere che la nostra percezione di questa situazione non fosse degna di senso, che non avesse valore, realtà: a dissimulare le nostre intuizioni ed emozioni, a far finta che non stesse succedendo niente di rivoltante o, al contrario, che forse, sì, era inaccettabile essere spiata, molestata o minacciata, ma che eravamo noi a essere di cattivo umore, che stavamo diventando intolleranti, paranoiche, o che eravamo sfortunate, che questa “roba” poteva capitare solo a noi. Precisamente, l’esperienza di Bella è una somma di briciole di esperienze generalmente condivise ma anche la descrizione minuziosa di tutte queste tattiche prosaiche, di tutto questo fenomenale lavoro (percettivo, affettivo, cognitivo, gnoseologico, ermeneutico) che facciamo ogni giorno per vivere “in modo normale”, che dipende dalla negazione, dallo scetticismo e che rende indegno tutto ciò che ci riguarda. ” (ibid)Questa mancanza di attenzione a sé, al proprio sentire, comincia nell’infanzia, è allora che si opera la distorsione della percezione. Quante bambine sentiranno “Ti maltratta/ti picchia perché ti ama molto. È un maschio, è normale.” Esplicitamente o implicitamente si insegna alle bambine a non ascoltarsi. Che induce nelle donne adulte questa situazione paradossale, sentirsi preda, aver paura, ma dovendone negare senza sosta i segnali. Perché il predatore, il nemico non è di un’altra specie! Un coniglio non avrà mai il minimo dubbio sulle intenzioni di una volpe. Ma per noi che siamo della stessa famiglia, egli è nello stesso tempo un potenziale nemico ma può essere invece un amico, un amante, un marito, un padre, un padrone, un collega? Come mantenere il discernimento? Queste ingiunzioni paradossali avvelenano costantemente la vita della maggior parte delle donne. Allora lottiamo contro la paura con l’energia della disperazione. Cerchiamo bene o male di affermarci in questo mondo. E un giorno scoppia, allora la rabbia rimpiazza la sottomissione. A volte ci permette di reagire ma spesso distrugge tutto intorno.
Cosa può l’Aikido in questo stato di cose?
Credo che sia possibile camminare verso un cambiamento di questo stato di cose attraverso il corpo. Perché bisogna precisare che quest’atto di dominazione agisce molto profondamente a livello dei corpi, «L’oggetto di quest’arte di governare è l’impulso nervoso, la contrazione muscolare, la tensione del corpo cinesico, la scarica dei fluidi ormonali; opera su ciò che lo eccita o lo inibisce, lo lascia agire o lo contrasta, lo ritiene o lo provoca, lo rassicura o lo fa tremare, quello che lo fa colpire o meno” (ibid)Nell’educazione delle ragazze, come per le donne adulte, la pratica dell’Aikido sul lungo termine apre una prospettiva inedita. Un giorno, in occasione di una seduta di Aikido che conduceva mio padre, Régis Soavi, insegnante a Parigi da cinquant’anni, egli ha detto: “Prima di affermarsi, bisogna posizionarsi.” Questa frase mi ha colpito come la definizione perfetta di ciò che poteva essere l’Aikido per le donne. Invece di tentare di affermarsi, di rivendicare di fronte a una società che non ci ascolta o che rifiuta la nostra percezione, imparare prima a posizionarsi. Posizionarsi nel senso marziale del termine, quindi una questione di Shisei. Alla fine non essere una preda è una posizione, una postura. Non si tratta di essere un coniglio che si arma per difendersi ma, tramite la propria postura interiore, di dire “puoi essere una volpe, ma guarda, anch’io sono volpe e non coniglio”. Quando siamo posizionati, l’affermazione è là.
Posizionarsi prima di affermarsi
L’Aikido permette di creare delle nuove pratiche di sé che trasformano la nostra realtà e i nostro rapporti.La prima tappa è ritrovare, non il neutro illusorio, ma l’indeterminato, la sensazione della vita, prima delle separazioni. Nella nostra scuola, la Scuola Itsuo Tsuda, cominciamo con una meditazione, poi per una ventina di minuti pratichiamo dei movimenti e degli esercizi di respirazione che, benché possano assomigliare a un riscaldamento, non lo sono. Si potrebbe dire che si tratta di una comunione con lo spazio, con la vita che ci circonda. È un momento in cui ognuno è in sé e con gli altri in una respirazione comune indeterminata. Ueshiba O sensei diceva “Io mi posiziono all’inizio dell’universo”. Quest’indicazione, sebbene possa apparire strana, ci dà in effetti una prospettiva molto più vasta che un semplice esercizio. Dimenticare chi siamo, dove siamo e semplicemente respirare. Progressivamente la respirazione si approfondisce e la calma nasce, si comincia a ritrovare l’individuo, prima delle categorizzazioni, delle separazioni, della cultura. È un po’ come soffiare sulle braci per rianimare un fuoco che si spegne.Man mano che si pratica soli-e o a due, i corpi si liberano, i movimenti si dispiegano. Una pratica regolare, quotidiana se possibile, su un certo tempo, è necessaria per rimodellare il nostro rapporto con il mondo, poco a poco. Per ritrovare un corpo che abita il proprio spazio, che occupa la strada, che instaura un altro modo di essere. Come ho detto non si tratta di diventare delle superdonne, capaci di difendersi come delle eroine. Di rendere colpo su colpo. Si tratta di rieducare il nostro corpo e la nostra mente per avere un Shisei, un posizionamento diverso nelle nostre vite. Si tratta appunto di non ritrovarsi più “preda” ignorando i segnali d’allerta.Il ruolo dell’insegnante è di fare Uke il più possibile per aiutare i-le praticanti a sentire tutte le possibilità che si offrono loro, gli Atemi, il Ma-ai, il Hyoshi, tutto quello che farà la differenza prima di essere completamente bloccati-e. Se la paura ci sommerge si sovrastimerà l’attaccante e, pietrificati-e, la situazione peggiorerà. A forza di praticare si riesce a mantenere una respirazione più calma e, senza sovrastimare se stessi-e, a posizionarsi. È per questo che l’attacco deve essere ben portato, rappresentare un certo pericolo senza bloccare totalmente.Ciò ci permetterà anche di non ristagnare in una situazione prima di reagire, che sia famigliare, al lavoro, o altrove. E nello stesso tempo di non essere più intossicati-e da paure inutili, da angosce che non corrispondono alle situazioni che ci fanno ripiegare su noi stessi-e. Attenzione, non dico che le vittime di aggressioni avrebbero dovuto reagire, sappiamo che il restare paralizzati è una strategia di protezione dell’essere umano e che a volte la miglior cosa da fare è non battersi per non morire. Il mio discorso non riguarda per forza le situazioni estreme, di grande violenza, ma piuttosto quelle banali, cosiddette “poco gravi”, di cui abbiamo una paura inculcata e che per accumulazione sono devastanti.Non è semplice cambiare, uscire dal dualismo della sottomissione o della rabbia. È per questo che è tramite la pratica che il corpo si riscopre capace e che la mente si placa, si tranquillizza. Nella storia che ho citato, quella di Bella, il romanzo non comincia veramente che nel momento in cui per Bella la situazione si ribalta, il momento in cui infine, considera che finalmente basta così. Allora prenderà un martello. È stupita di aver finalmente la forza di sollevarlo, stupita che fosse sempre stato lì, a portata di mano. E il gioco al massacro comincia, al punto che questo romanzo farà scandalo in Inghilterra per la violenza della seconda parte.Per me non si tratta di legittimare la violenza di questo romanzo; questo detto, quante grandi opere, dal romanzo storico al western, da Ben Hur al Conte di Montecristo hanno fatto della vendetta la forza d’azione per degli uomini? Ma lasciamo stare. Credo che possiamo avere questa rivelazione della nostra potenza molto prima di arrivare agli estremi della distruzione di sé o degli altri.Man mano che si pratica un Aikido che ci riconcilia con noi stessi-e, si può ritrovare la sensazione della potenza. Non una potenza che schiaccia gli altri, ma la potenza che viene dall’hara, dal centro dell’umano. È un percorso centripeto che chiamiamo a volte empowerment quando delle persone s’impossessano di modi di essere, di pratiche di sé per smantellare le dominazioni che vengono esercitate su di loro e riprendere il potere sulla propria vita. Negli anni 60/70, delle femministe americane hanno usato questo termine per mettere in risalto una liberazione non dettata dall’esterno, in cui verrebbe detto ancora una volta alle donne ciò che devono essere, ciò che è “una libera donna occidentale”, ma piuttosto un’emancipazione centripeta, che si basi sui mezzi di cui ognuna dispone per rispondere da sola alle situazioni problematiche. In questa prospettiva l’Aikido può essere un processo di empowerment che permette di ravvivare le proprie risorse interne e di minimizzare il “disturbo radio” della paura culturale. Allora il nostro Shisei, il nostro atteggiamento sarà come quello dell’uccello del proverbio: “L’uccello non teme che il ramo ceda, perché non ha fiducia nel ramo, ma nelle proprie ali”.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:
Articolo di Manon Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 8 nel mese di gennaio del 2022. Note:1) Elsa Dorlin Difendersi, Fandango, 2020, traduzione italiana di Se défendre, La Découverte, 2019. Analisi del romanzo d’Helen Zahavi. Dirty Week-end, del 1991.