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Trasmettere

di Régis SoaviInsegnare, in un dojo, è trasmettere. È anche al contempo riunire e servire. Non si tratta di rafforzare il proprio Ego, né di essere un animatore al servizio dei voleri delle persone che frequentano le sedute, ma di permettere lo schiudersi di ciò che è allo stato di bocciolo e che attende in ciascuno di noi.

Una vocazione?

Non credo veramente alla vocazione perché il termine vocazione si riferisce troppo facilmente a ciò che è religioso, campo semantico da cui è necessario allontanarla il più possibile, perché la nostra società ha da tempo intorpidito le acque. Se parliamo di vocazione, deve essere primaria, materialista e pragmatica, sarà quindi piuttosto un’attitudine, un talento. Atteggiamenti del tipo “salvare persone che non hanno capito nulla, portarle alla luce” ecc., non sono assolutamente adatti all’insegnamento di un’arte come l’Aikido, senza per questo doverne fare un’arte comune o addirittura prosaica, una specie di “difesa personale”. Il fatto di insegnare deve scaturire naturalmente dalla ricerca che si è stati in grado di fare nel corso della propria pratica, ed è in questo senso che si tratta di una trasmissione. Spesso inizia con il desiderio di far conoscere ciò che si è scoperto, ciò che si è compreso, o creduto di comprendere e anche se non è una vocazione, ci sono persone che hanno talento per spiegare, per far vedere. Persone a cui piace prendersi cura degli altri, di permettere loro di progredire in un’arte o in un mestiere, che “sanno” farlo perché capiscono gli altri, perché hanno una sensibilità che è orientata in questa direzione, e un’affinità con questo percorso.

Trasmettere la postura.

La pedagogia

La pedagogia nell’istruzione scolastica il più delle volte consiste nel far ingoiare la pillola, perché sia l’allievo che l’insegnante sono tenuti ad ottenere un risultato.Nell’Aikido direi che non ci sono metodi pedagogici buoni o cattivi, ci sono insegnanti buoni, meno buoni, anche cattivi, e per di più, tra questi, colui che è perfetto per uno può essere deplorevole per un altro e viceversa, anche, e forse soprattutto, quando si tratta di trasmissione. Le persone che iniziano a praticare, spesso arrivano con delle idee o delle immagini sulle arti marziali. O perché hanno visto dei video o dei film d’azione e sono rimasti entusiasti dello spettacolo, o a causa della loro vita personale in cui hanno incontrato difficoltà, subìto costrizioni, molestie, e vogliono uscire da questo stato di paura che queste situazioni hanno generato. Alcuni scoprono l’Aikido attraverso testi filosofici, a volte antichi come quelli sul Taoismo o sul Bushido. Nessuno comincia per caso, c’è quasi sempre un motivo, consapevole o meno, sempre un filo conduttore. Bisogna quindi adattare le risposte, dare forma alle parole senza tradire il loro significato profondo, far vedere, dimostrare grazie ad una tecnicità affinata come far circolare la nostra energia, cosa che permette la scoperta dello strumento “Respirazione” come la intendeva Tsuda sensei, cioè l’uso del ki attraverso la tecnica, i movimenti, gli spostamenti, l’istinto, ecc.

Il mio percorso

L’Aikido che il mio maestro Itsuo Tsuda mi ha insegnato è un po’ come una danza marziale, con la differenza che non ha, come la Capoeira, una forma che nasce dalla necessità di nascondere le sue origini o la sua efficacia. Della danza ha la bellezza, la finezza, la flessibilità di reazione. Della musica, ha la capacità di improvvisare su una base e la solidità dei temi suonati. Della marzialità ha la forza, l’intuizione, la ricerca delle linee fisiche tracciate dal corpo umano. La ricchezza dell’insegnamento che ho ricevuto è incommensurabile. Guidato da Tsuda sensei, attraverso le sue parole come i suoi gesti, ho potuto crescere, assetato com’ero di vivere pienamente, di andare oltre le ideologie proposte dal mondo “spettacolare e commerciale” in cui viviamo. Essendo un bambino del dopoguerra, mi sono scoperto pieno di speranza durante gli eventi di quel periodo storico che furono gli anni ’68 e ’69. È stato come un risveglio alla vita.Questa rinascita aveva fatto maturare il frutto della mia comprensione del mondo. In così poco tempo ero cresciuto talmente che mancava solo lo sbocciare di ciò che ero veramente. L’incontro con il mio maestro non deve nulla al caso. Attirato dal ki che emanava, non potevo che incontrarlo. “Quando l’allievo è pronto, il maestro arriva”, dicono in Giappone; non ero pronto per quello che mi sarebbe successo, ma ero pronto a riceverlo. Turbato, sconvolto da ciò che vedevo, da ciò che sentivo, da ciò che emanava da lui, abbordavo tuttavia nuovi territori, dove si estendeva una giungla che mi sembrava inestricabile, tanto era grande la mia fragilità rispetto a questo nuovo mondo. Dieci anni con lui non sono bastati, il lavoro di “districare” continua, anche se oggi, a distanza di quasi quarant’anni, ho potuto tracciare dei sentieri grazie alle sue indicazioni, questi “segnali indicatori” come diceva spesso, che ci ha lasciato.

La posizione di Uke permette di esporre vari aspetti della tecnica e il modo di mantenere il centro.

La continuità

Ogni mattina inizia un nuovo giorno. Insegnare per un’ora, un’ora e mezza due volte a settimana non corrisponde alla mia regola di vita, né d’altronde al mio credo. Ho bisogno di più, molto di più, per questo il dojo è aperto tutti i giorni, non per motivi pecuniari (anche se l’associazione che lo gestisce ne avrebbe bisogno) ma per permettere la continuità di tutti quelli che possono venire regolarmente. Come tutti, ho iniziato tenendo corsi in diversi dojo, pubblici (palestre) o privati. Prima di conoscere seriamente il mio maestro, ho persino tenuto corsi di Aikido nel retrobottega del negozio di un esperto di tappeti orientali, e ho addestrato un giovane investigatore privato all’autodifesa. Avevo vent’anni all’epoca, e un po’ come nei film della Pantera rosa con l’ispettore Clouseau, interpretavo il ruolo di Kato, cercando di attaccarlo a sorpresa a casa sua per testare le sue tecniche di combattimento e i suoi riflessi. Andare più in là a tutti i livelli, non ristagnare mai, avanzare sempre. Scoprire e far scoprire, e grazie a questo comprendere sia fisicamente che intellettualmente, insomma essere vivi.Per me è sempre stato importante non dipendere dalla mia arte per mantenermi nella vita quotidiana. Economicamente, questo mi ha portato ad essere in difficoltà per tanti, tanti anni, a stare attento ai centesimi nella vita di tutti i giorni, a non condurre una vita da consumatore “soddisfatto di se stesso”, ma forse è per questo che ho potuto approfondire la ricerca, e quindi insegnare.

La libertà

Senza libertà, nessun insegnamento di qualità è possibile! L’insegnante è responsabile di ciò che porta ai suoi allievi, della qualità, nonché delle basi e dell’essenza dei suoi corsi. Oggi tutte le discipline sono inquadrate da regole definite dalle strutture dello Stato, e questo provoca una corruzione del valore di un’arte, perché ciò che fa la ricchezza di una seduta di Aikido non può nascere da un contenuto banalizzato, edulcorato, “pedagogizzato”, ma molto di più dall’impegno di chi la conduce. Se i nostri maestri sono stati i nostri Maestri, lo devono più alla loro personalità che alla tecnica che insegnavano. È per questo che si riconoscevano fra loro, per il valore di ciascuno di essi, qualunque fosse la loro arte, il carisma, la personalità. Gli allievi avevano le proprie preferenze, secondo le proprie capacità, i propri gusti per questa o quella tendenza che pensavano di trovare qua o là.

TAO stile sigillare: piccolo sigillo. Calligrafia su tela di Tsuda Sensei.

Una relazione reciproca e asimmetrica

Ogni apprendimento deve basarsi sulla fiducia tra chi fornisce la conoscenza e chi la riceve, ma come suggeriva già Dante Alighieri nel XIII secolo, la relazione come la stima che intercorre tra il “maestro” e l’allievo devono essere “reciproche e asimmetriche” (V. Sermonti, L’Inferno di Dante, Emons Audiolibri – Canto XV). L’importante è che ci sia accettazione da entrambe le parti, non c’è un diritto o un dovere all’inizio, nessun obbligo di imparare, nessun obbligo di insegnare. La ricerca dell’uno e il beneplacito dell’altro creano questa asimmetria. Allo stesso tempo, vi è il riconoscimento reciproco dell’uno verso l’altro in relazione al valore di ciascuno. L’insegnamento non è un prodotto finito da acquistare e consumare senza moderazione. Impegna chi lo elargisce come chi lo riceve. È importante che colui che lo fornisce non sia nella rigidità di chi “sa”, ma nella fluidità di chi comprende e si adatta, senza ovviamente perdere il senso di ciò che dovrebbe comunicare e valorizzare. Il destinatario non è mai una pagina bianca su cui imprimere l’insegnamento e i propri valori; a seconda dell’epoca o anche più semplicemente delle generazioni, possono sorgere distorsioni e possono essere necessari degli adattamenti. È la fiducia reciproca che permette l’approfondimento in un’arte. Se sono solo le tecniche che dobbiamo affinare, pochi mesi o pochi anni sono sufficienti, poi possiamo passare ad altro. Ma potremmo ottenere una vera soddisfazione con un programma del genere?

La mnemotecnica che consiste nel dimenticare¹

Nell’Aikido come altrove in molti apprendistati, si richiede ai principianti di ricordare, se possibile con precisione, la tecnica, il suo nome, la forma da adottare in tali o talaltre circostanze. C’è ovviamente una certa logica in questo processo educativo, ma è diventata una condizione indispensabile nelle federazioni durante i passaggi di grado, di Dan e anche per i passaggi di Kyu. Questo sovraccarico del conscio è profondamente dannoso per il risveglio della spontaneità. Dopo un po’, l’apprendimento diventa non solo noioso, ma a volte anche controproducente, non si ha più voglia di imparare. Se ci si preoccupa del conscio, è perché è più facile da manipolare, specialmente quando è stato abituato a rispondere “presente” da anni di scolarizzazione e di manipolazioni. Ma se invece ci si accontenta di guidare il subconscio, si rimarrà stupiti nel vedere l’individuo svilupparsi in armonia con se stesso e quindi con chi lo circonda, senza bisogno di nascondere la propria natura con maschere sociali che turbano così tanto sia l’organismo che la psiche. Questo passaggio del libro di Tsuda Sensei “Anche se non penso SONO” fa luce sul lavoro del subconscio:”La nostra attività mentale non inizia solo con lo sviluppo della materia grigia, di quella parte cosciente che ci permette di percepire, ragionare e ricordare. Il conscio risulta dall’accumulazione delle esperienze che abbiamo avuto dalla nascita. Impariamo a parlare, a maneggiare utensili, a cominciare dal cucchiaio, per esempio. Il conscio non costituisce la totalità della nostra attività mentale. Ci sono strade, perché c’è la terra. Senza la terra non ci sarebbero strade. Chiamiamo ‘subconscio’ quella parte della mente che preesiste al conscio. Il subconscio lavora non solo dalla nascita fino alla morte, ma anche durante la gestazione, sentendo e reagendo nel grembo materno, cercando ciò che è piacevole e respingendo ciò che è sgradevole. E così il bambino scalcia quando si sente a disagio. Una volta che una sensazione o un sentimento penetra nel subconscio, controlla tutto il comportamento involontario dell’individuo che non può combattere efficacemente contro di esso con sforzi volontari.”

Regis Soavi aikido ma ai
Il “MA-AI” uno spazio inespugnabile e senza tempo.

Il ruolo del sensei

Il maestro, il sensei non è perfetto, e non ha la vocazione ad esserlo o a pretenderlo. È inutile e perfino dannoso, per lui come per certi allievi, che questi ultimi, nonostante la loro buona fede e senza volerlo, proiettino una tale immagine di perfezione, che non può che essere falsa, sulla sua persona come sul suo lavoro. Imperfetto ma solido, è l’anello di una lunga catena di insegnamento e realizzazione di vita, che, se spezzata, andrà perduta per sempre. Il suo ruolo non è quello di rinchiudere gli allievi in una Scuola, di costringerli, a volte insidiosamente, a una dottrina, ma di permettere a tutti di liberarsi dalla routine per sentire il flusso vitale che percorre questa catena immensa, come un canale di irrigazione capace di irrigare grandi spazi così come piccoli giardini. Occorre inoltre che il terreno sia stato lavorato, reso permeabile e pronto a far crescere in seguito quanto seminato nel corso della vita. Non riproducibile e non industrializzabile, l’insegnamento non potrà mai servire a far fruttare ciò per cui è stato concepito se non è compreso nella sua essenza o assimilato in profondità, dal successore o dai successori e posto al centro della propria vita.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 9 nel mese di appril del 2022.¹ Tsuda Itsuo, Même si je ne pense pas JE SUIS, Le Courrier du Livre, 1981, p. 59