di Régis Soavi«”Che siano uno o molti non ha alcuna importanza, li metto tutti nel mio ventre”, diceva O sensei». È con questa frase che Itsuo Tsuda sensei un giorno ha risposto a una delle mie tante domande sulla pratica e in particolare sul modo di difendersi da più partner.
Magia o semplicità
Il suo leitmotiv: la respirazione
Quando parlava di respirazione bisognava intendere la parola KI, era la traduzione che aveva scelto per esprimere questo “non-concetto” così comune, e così immediatamente comprensibile in Giappone, ma così difficile da cogliere in Occidente. Spiegava che si può realizzare l’unità primordiale quando si unisce la propria respirazione col proprio o coi propri partner. La respirazione diventa il supporto fisico, l’atto concreto che permette di unificarsi con gli altri. Fisicamente agisce come una sorta di costrizione dolce sul corpo dei partner. Sappiamo tutti di cosa sto parlando, non è assolutamente un mistero. Ci sono persone capaci di mettere a disagio gli altri, altre che sanno imporsi, imporre la propria respirazione, lasciando a volte il loro interlocutore nell’incapacità di pronunciare una parola. Nelle arti marziali, ed è particolarmente visibile nell’arte della spada, si tratta di desincronizzare il respiro per sorprendere l’avversario, per destabilizzarlo. Il momento cruciale in molti casi è quello in cui l’inizio dell’inspirazione di chi sta di fronte corrisponde alla fine dell’inspirazione dell’altro, in altre parole l’inizio dell’espirazione. Si colpisce durante questo intervallo tra espirazione ed inspirazione. Questo momento, che si chiama “intermissione respiratoria”, è il momento ideale per dispiegare la propria forza fisica in un combattimento e vincere l’avversario. Accade in tutt’altro modo nell’Aikido in cui questo stesso istante permette di entrare nel respiro del partner, in questa via che è la via dell’armonia, dove si tratta di unificare i respiri, di arrivare a un respiro comune.
Praticare con un partner come se fossero molti
Per cominciare è più semplice praticare con un solo partner, ma è importante non fissarsi su di lui, restare disponibili per altri interventi. Questa disponibilità si ottiene grazie alla calma interiore, e questo inizia dalla buona conoscenza delle tecniche e dal non farsi prendere dal panico. Nonostante tutto, ci vorranno alcuni anni per essere tranquilli in tali circostanze, ed è per questo che non dobbiamo aspettare ad iniziare a lavorare in questa direzione. Direi che praticare con più partner, più che una performance da eseguire, rappresenta per me un orientamento pedagogico, l’Aikido è un tutto, non lo si può tagliare a fette. Si tratta di una pedagogia globale e non di un insegnamento di tipo scolastico convalidato da voti ed esami. Già, ogni volta che il gruppo di praticanti si trova in numero dispari, si può approfittarne per lavorare a tre, ma questo non sarà sufficiente per acquisire i giusti riflessi, il giusto atteggiamento da adottare. Ogni volta che il gruppo lo consente, cioè se non ci sono troppe differenze di livello, si può far praticare tutti in gruppi di tre o anche quattro partner.Se i due partner afferrano Tori insieme, e con entrambe le mani, sono la tecnica e la capacità di Tori di concentrare la potenza nell’hara attraverso la respirazione che saranno determinanti, la morbidezza delle braccia e delle spalle consentirà di far circolare l’energia, il ki, fino alla punta delle dita, e di farla sgorgare al di là, provocando la caduta dei partner sui tatami. Ma se lavoriamo con attacchi alternati, la difficoltà maggiore non è nel fatto di fare le tecniche, ma soprattutto nel ruolo di Uke.
Il valore dello spostamento
Gli spostamenti assumono un valore speciale quando ci sono più persone intorno a noi. Se guardiamo il traffico su un’autostrada nelle ore di punta dalla cima di un ponte che la sovrasta, saremo molto sorpresi di vedere come i veicoli sfiorano, sorpassano, rallentano, accelerano e persino cambiano corsia in una sorta di balletto che però non è governato da alcuna autorità superiore, ma in realtà da ogni conducente. Ci si potrebbe aspettare un’enorme quantità di incidenti, o almeno degli stridori di lamiere in pochi minuti, eppure non è così, va tutto bene. Ci sono ovviamente incidenti, ma pochissimi, rispetto a ciò che possiamo immaginare o vedere dall’alto del nostro osservatorio.Se quando si pratica con più partner si impiega altrettanta concentrazione, attenzione e rispetto per l’altro come quando si guida qualsiasi veicolo, dato che si tratta del nostro corpo – e non di un’estensione della consapevolezza di questo corpo, come può essere con un’auto – diventa molto più facile. Ripeto: è necessario avere una buona tecnica, non avere timore per ciò che sta accadendo, ma calma e sicurezza di sé, pur essendo vigili e consapevoli di ciò che si muove intorno a noi. La differenza con l’esempio che ho appena dato è che i partner cercano di toccarci, di colpirci o immobilizzarci, a differenza dei veicoli che si evitano a vicenda. Ora, proprio come l’auto per esempio – che attraverso l’antropotecnica1 diventa come un prolungamento del nostro corpo, di cui conosciamo, di cui abbiamo coscienza delle dimensioni, al centimetro, addirittura al millimetro – si tratta di cogliere l’opportunità di sentire la nostra sfera, non più come un sogno, un’idea, una fantasia, un’immaginazione o un delirio esoterico inventato di sana pianta da qualche mago o ciarlatano, ma piuttosto come una realtà concreta accessibile a tutti, dal momento che ne siamo già capaci in automobile se prestiamo sufficiente attenzione. Si tratta quindi di giocare con questa sensazione, questa estensione: non appena le sfere si sfiorano, già si estendono, si ritraggono, si spostano costantemente, rispondendo ai bisogni senza dover ricorrere al sistema volontario. È il lavoro dell’involontario, dello spontaneo, come se gli spostamenti si facessero da sé, in modo preciso e con facilità. È allora che siamo nella pratica del Non-Fare, questo famoso non-agire, il wu-wei cinese, ciò che sembrava mitico diventa realtà. Gli allenamenti a più persone hanno l’obiettivo di condurci nella direzione del Non-Fare. Si può fare pratica in mezzo a una folla, in un grande magazzino in un giorno di saldi, o più quotidianamente nella metropolitana per i chi abita in città. Il gioco consiste nel sentire come muoversi, come spostarsi, come riuscire a passare negli interstizi vuoti tra le persone.
Ricreare uno spazio attorno a sé
L’arte di confondersi tra la folla, di passare inosservati, può essere una disposizione naturale, oppure una deformazione – talvolta dovuta a un trauma – da cui deriva una sofferenza: essere la persona che non si vede, quella che non si nota, che diventa invisibile. Ma può anche essere un’arte, e sembra che anche in questa O sensei Ueshiba Morihei eccellesse. A volte è necessario mimetizzarsi, confondersi per esempio in una folla, svanire per passare inosservati. La nostra sfera in questo caso diventa come trasparente, ma rimane allo stesso tempo molto presente, coerente, stabile e potente. Intorno alla persona si crea uno spazio vuoto quasi impenetrabile, quindi è delicato o addirittura difficile attaccarlo, e anche solo avvicinarsene. Ho avuto l’opportunità di sperimentarlo durante le dimostrazioni con il mio maestro Tsuda sensei, ma penso che fosse ancora più lampante dopo le sedute, quando prendevamo un caffè o un tè tutti insieme al dojo proprio di fronte agli spogliatoi dove eravamo riusciti a liberare un piccolo spazio. C’era un grande tavolo basso ed eravamo tutti seduti attorno ad esso, più o meno incollati l’uno all’altro, tranne che attorno a Sensei. C’era sempre uno spazio su entrambi i lati che sembrava invalicabile, e non era solo il rispetto a impedirci di sederci lì. C’era un vuoto molto concreto, molto reale, solido come una roccia. Tsuda sensei sembrava non prestarci mai attenzione, beveva il caffè, parlava, raccontava storie e poi, dopo una mezz’oretta o più, si alzava e se ne andava. Ma il vuoto rimaneva: anche se a volte ci fermavamo un po ‘di più, nessuno occupava il posto vuoto, qualcosa persisteva lì. Questa è quella che chiamo l’arte di creare uno spazio invalicabile attorno a sé, difficilmente ci si può esercitare in quest’arte, è piuttosto una capacità che emerge naturalmente, che emerge quando si diventa indipendenti, autonomi, quando si è oltrepassato la fase di iniziale apprendistato o quando se ne presenta la necessità.
L’uno e il multiplo
Ciò che è problematico non è la molteplicità degli attacchi, ma la nostra capacità di rimanere calmi in tutte le circostanze. Chi può vantarsene, e non è forse un mito? Se gli attacchi sono convenzionali, o previsti in anticipo, come una sorta di balletto, si esce dal ruolo pedagogico dell’Aikido. Si tratterà solo della ripetizione di gesti, che possono essere affinati o resi più estetici, certo, ma privi di profondità. Si tratterà di uno spettacolo che, per quanto professionale possa essere, per quanto ammirevole possa essere, non riguarda più l’Aikido, che avrà perso, io penso, il suo valore di cambiamento nel profondo dell’essere umano.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:
Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 4 nel mese di gennaio del 2021.Foto: Paul Bernas, Jérémie Logeay