Fudoshin: lo spirito immutabile

di Régis SoaviIl lavoro di Jiyuwaza può essere considerato in diversi modi e ogni Scuola ha un proprio modo di vederlo, di praticarlo. La Scuola Itsuo Tsuda, per quanto la riguarda, ne ha fatto incontestabilmente una delle basi del proprio insegnamento, della propria pedagogia.

Jiyuwaza: “il movimento libero”

Tsuda sensei, benché giapponese, usava molto raramente termini tecnici della sua lingua materna. Intellettuale di grande finezza, scrittore e filosofo, conferenziere e tecnico Seitai, accordava una grande importanza al fatto di essere, per quanto possibile, sempre ben capito. Inoltre, poiché padroneggiava perfettamente la lingua francese, utilizzava unicamente questa durante le sedute di Aikido. Per me che seguivo all’epoca tutti i sensei che venivano in Francia, era abbastanza strano ascoltarlo spiegare una tecnica o anche mostrarla senza nemmeno dire il nome in giapponese. Alcuni allievi che conoscevano solo il suo Aikido erano abituati e non erano affatto scioccati. Personalmente ho mantenuto l’uso dei nomi giapponesi, come mezzo di comunicazione nel mio insegnamento, solo quando è indispensabile, ed è diventato una tradizione nei nostri dojo. È per questo che nella nostra Scuola quello che chiamiamo “movimento libero” alla fine di ogni seduta, prima di fare il kokyu ho, è un esercizio che potremmo chiamare “Jiyuwaza”. È una specie di randori leggero ed è un momento molto importante, poiché gli spazi tra le persone sono ridotti dal fatto che tutti si muovono nello stesso tempo in tutte le direzioni, e che ognuno agisce come vuole seguendo la propria ispirazione, in funzione del proprio partner, o dell’angolo nel quale si trova rispetto all’altro. A volte, senza transizione, continuando l’esercizio e senza che nessuno torni a sedersi, faccio cambiare partner. Poi dopo qualche minuto, di nuovo, dico: “Cambiare”, poi alla fine annuncio con un sorriso: «Bagarre generale!» e allora si crea una mischia allegra in cui ognuno è Uke e Tori, a turno o allo stesso tempo. È il caos ma leggero, di modo che nessuno si faccia male, eppure è importante che ognuno dia il massimo in funzione del proprio livello. È un esercizio importante che faccio fare spesso durante gli stage dove c’è tanta gente, perché ci dà l’idea di ciò che siamo capaci di fare in una situazione ingarbugliata. È primordiale che gli attacchi portati non siano violenti, che non provochino la paura ma che siano sufficientemente decisi da sentire la continuità del ki nel gesto. Se sono superficiali o esitanti si perde il proprio tempo, oppure ci si illude sulle proprie capacità. È un processo di apprendimento difficile, che richiede anche anni, ma è di grande importanza pedagogica, motivo per cui pratichiamo il “movimento libero” a due quotidianamente alla fine di ogni seduta.

Ancora una volta la sfera

mormyridae
Mormyridae: trasformando gli impulsi elettrici in suono, quindi in linee, abbiamo un’immagine della sfera di questi pesci.
È guardando un documentario sull’evoluzione che mi aveva mandato uno dei miei allievi durante il confinamento che, come lui, mi sono stupito nello scoprire la rappresentazione visiva della sfera che circonda un particolarissimo pesce appartenente alla famiglia dei Mormyridae. Sebbene conosciuti fin dalla più remota Antichità perché, curiosamente, sono stati spesso rappresentati negli affreschi e nei bassorilievi che adornano le tombe dei faraoni, sono state appena scoperte su di loro qualità notevoli. Si tratta di pesci che hanno uno scheletro osseo, cosa già piuttosto rara. Oltre a questa particolarità, hanno delle facoltà insolite. Cacciano e comunicano tramite impulsi elettrici, emettendo scosse elettriche leggere (tra 5 e 20 V), ed estremamente brevi, inferiori a un millisecondo, che si ripetono a velocità variabile e senza interruzioni superiori a un secondo. Un organo particolare produce questo campo elettrico che circonda il pesce. Trasformando gli impulsi elettrici in suono, poi in linee, possiamo successivamente averne un’immagine come quella nella pagina accanto (questo dipende dall’impaginazione, quindi è eventualmente da cambire in sopra o sotto): in questo modo possiamo visualizzare la sfera di questi pesci. Essi utilizzano tale sfera anche come sistema di difesa. Grazie a questo campo possono differenziare un predatore da una preda o da un loro simile. Quando un predatore entra in questo campo, lo deforma e questa informazione viene immediatamente comunicata al cervelletto. Il cervelletto in essi è nettamente più grande del resto del cervello. Questa capacità di produrre e analizzare una corrente elettrica debole è loro utile per orientarsi nello spazio, e permette loro di localizzare ostacoli, di individuare prede, anche in acque torbide o in assenza di luce.

Una rappresentazione mentale o una funzione del cervelletto

La sfera nell’essere umano è forse solamente una rappresentazione mentale delle capacità inconsce che possiede – lo sapremo forse tra diversi anni o secoli – ma ciò non toglie nulla alla sua realtà, percepita dal praticante di arti marziali, né alla sua efficacia. Il ki, questa sensazione enigmatica della nostra stessa energia, della nostra osservazione, dell’atmosfera, che tutti i popoli hanno conosciuto e trasmesso nelle proprie culture senza poterle dare una definizione precisa, potrebbe essere la risposta, certamente considerata come non scientifica, ma che ha una realtà empirica attestata dall’esperienza di molti maestri, sciamani o mistici. Se cerchiamo risposte nel campo delle scienze cognitive, possiamo trovare elementi che, messi insieme, danno corpo a questa ricerca.Il cervelletto gioca un ruolo importante in tutti i vertebrati. Nell’essere umano il suo ruolo è assolutamente essenziale nel controllo motorio, che è la capacità di effettuare aggiustamenti posturali dinamici e di dirigere il corpo e gli arti in modo da compiere movimenti precisi. È determinante inoltre in alcune funzioni cognitive ed è anche coinvolto nell’attenzione e nella regolazione delle reazioni di paura e piacere. Contribuisce alla coordinazione e sincronizzazione dei gesti e alla precisione dei movimenti. In un attacco simultaneo di più persone, le arti marziali – e l’Aikido in particolare – devono aver preparato l’individuo, grazie alla ripetizione e alle sequenze durante i kata o nei movimenti liberi, a fornire le risposte necessarie per uscire da questo tipo di situazione. Quando si tratta di sopravvivenza, gli “organi” che sono cervelletto, talamo e sistema motorio extrapiramidale devono essere pronti. L’apprendimento deve essere stato di qualità, includendo la sorpresa, l’attenzione e persino una sorta di apprensione, in modo che l’involontario trovi dove attingere durante queste esperienze per mettere in atto i gesti giusti.

Essere come un pesce nell’acqua

Jiyuwasa è come una danza in cui l’involontario è il re. Non si tratta di essere il sovrano onnipotente che governa subordinati o tirapiedi, ma piuttosto di entrare in un mondo sottile dove la percezione, la sensazione ci guidano. Come il pesce sopra citato, si tratta di sentire il movimento dell’altro quando si dispiega e tocca la nostra sfera, soprattutto per non partire prima, con il rischio che l’attacco cambi direzione, ma essere in una posizione, una postura, che suscita un certo tipo di gesto e quindi di risposta. La tecnica non deve essere prevista né prevedibile, ma adattabile e adattata alla forma che cerca di raggiungerci. Una rilettura di Sun Tzu ci offre alcune citazioni scelte come: “Se conosci il nemico e conosci te stesso, la vittoria è assicurata. Se conosci il Cielo e la Terra, la tua vittoria sarà totale.”(1). Conoscere, ignorando cosa accadrà: come fare? È attraverso la fusione di sensibilità con il partner che possiamo scoprire come dobbiamo comportarci, come dobbiamo agire, reagire senza prima riflettere, senza esitazione. A poco a poco da questo tipo di esercizio nasce una sorta di fiducia in cui tutte le risposte sono possibili. È il momento di andare più lontano, di chiedere al nostro partner di essere più sottile, e anche più tenace. Deve, ogni volta sia possibile, capovolgere i ruoli e presentarsi come se fosse Tori invece che Uke.

regis soavi aikido fudoshin
Si tratta di sentire il movimento dell’altro mentre si dispiega e tocca la nostra sfera.

Fudoshin

Quando si pratica con diversi partner o quando si tratta di uscire dalla comodità della pratica quotidiana con persone che si conoscono, per esprimere ciò che alcuni chiamano il potenziale, si verificano varie reazioni di tensione, il corpo che teme questo incontro diverso si tende, e diventa rigido. Tsuda Itsuo sensei ci dà una risposta, o meglio esegue una decodifica della situazione attraverso un testo di Takuan che cita, sviluppando per gli occidentali che siamo, due o tre concetti che ci illuminano sui comportamenti e le risorse che dobbiamo trovare nel più profondo di noi stessi.”Come uscire da questo stato di torpore è il problema principale per chi esercita la professione delle armi. A questo proposito, è tuttora celebre un testo, Fudôchi Shimmyô roku, La Sagezza immutabile, scritto da Takuan (1573-1645), un monaco zen, che dava consigli a uno dei discendenti della famiglia Yagyû, incaricata dell’insegnamento della spada presso lo shogunato Tokugawa.’Fudô vuol dire immobile’, dice, ‘ma questa immobilità non è quella che consiste nell’essere insensibile come la pietra o il legno. Si tratta di non fissare lo spirito, mentre si va avanti, a sinistra e a destra, muovendosi liberamente, come desiderato, in tutte le direzioni’. L’immobilità, secondo Takuan, è dunque essere imperturbabile nello spirito, non si tratta assolutamente di immobilità senza vita. Significa non rimanere nella stagnazione, poter agire liberamente, come l’acqua che scorre. Quando si rimane bloccati a causa della fissazione su un oggetto, il nostro spirito, il nostro kokoro è perturbato dall’influenza di questo oggetto. L’immobilità rigida è il terreno propizio allo smarrimento. ‘Anche se dieci nemici ti attaccano, ognuno con un colpo di spada’, dice, ‘basta lasciarli passare, senza bloccare la tua attenzione ogni volta. È così che puoi fare il tuo lavoro senza impedimenti di uno contro dieci.’ [?] La formula di Takuan è di vivere nel presente, al massimo, senza essere in alcun modo ostacolati dal passato che sfugge.”(2)La maestria per ognuno di noi, per quanto relativa possa essere, è sempre, qualunque siano le nostre capacità, le nostre difficoltà, o talvolta anche le nostre facilità, il risultato di una vita di lavoro e allenamento. Frédéric Chopin, quando aveva appena suonato a memoria quattordici preludi e fughe di Jean-Sébastien Bach, aveva dichiarato ad una sua allieva durante una lezione privata: «L’ultima cosa è la semplicità. Dopo aver esaurito tutte le difficoltà, aver suonato una quantità immensa di note e note, è la semplicità che ne esce con il suo fascino, come l’ultimo sigillo dell’arte. Chiunque voglia arrivarvi subito non ci riuscirà mai; non si può iniziare dalla fine.»(3)A prescindere dall’essere Musicista, Artigiano, Monaco zen o Sensei di arti marziali, sono la sincerità nel lavoro e il piacere condiviso che ci guidano verso la semplicità, verso Fud?shin, lo spirito immutabile.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

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Articolo di Régis Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 3 nel mese di ottobredel 2020.Note :1) Sun zi, L’art de la guerre, Guy Trédaniel Éditeur, 2011, p. 69. In italiano Sun Tsu, L’arte della guerra, Feltrinelli, 2013.2) Tsuda Itsuo, La Voie des dieux, Le Courrier du Livre, 1982, pp. 72-73.3) Guy de Pourtales, Chopin ou le poète, Gallimard, 1940, p. 145.Foto: Bas van Buuren e immagine tratta da La favolosa storia dell’evoluzione: l’Albertine Rift, Arte France