Senza punti di riferimento fissi, una scuola senza gradi

Di Manon SoaviItsuo Tsuda sensei diceva “non c’è cintura nera di vuoto mentale” sottolineando così che l’essenziale non è misurabile né comparabile. Seguendo questa direzione, Régis Soavi sensei fin dagli anni 80 ha fatto la scelta radicale di una scuola senza gradi. Una scelta che denota il funzionamento della nostra società basata sulla competizione.

Un orizzonte infinito

Avvertenza: questo articolo non mira assolutamente a sostenere che questa scelta sia la migliore, a denigrare i gradi o altro. Si dà semplicemente il caso che il riai della nostra scuola (la coerenza dei suoi principi) passi per questa strada. Questo articolo racconta un’altra possibilità senza spirito di valutazione tra i sistemi ma piuttosto in uno spirito di scoperta di un’altra cultura.Questa scelta di non avere gradi, di nessun tipo, è una cosa che a volte sorprende, o delude. In effetti, alcune persone sentono il bisogno di misurare il loro percorso, di avere delle tappe, il che è comprensibile alla luce del contesto in cui viviamo. Ma questa particolarità è anche un orientamento che libera, che dà sollievo a tante persone! Almeno qui, nei dojo della nostra scuola, non c’è misura, né paragone, né gerarchia.In un mondo in cui tutto si quantifica: le vitamine che ingeriamo, la nostra produttività, le nostre ore di sonno passando per la velocità dell’estinzione del nostro pianeta, tutto si misura e si calcola. Un luogo senza gradi è un po’ come passare dall’orizzonte di una città, fatto di punti di riferimento, di quartieri, di edifici, all’orizzonte dell’oceano. È liberatorio e leggermente inebriante.

Senza riferimenti fissi

Tsuda sensei scriveva che con i bambini siamo “senza punti di riferimento fissi”, cioè non ci si può riferire a dati esterni, oggettivi: a questa età, tanti centimetri, tale capacità, tale bisogno. Eppure questo è ciò che consiglia la maggior parte degli approcci in puericultura! È lo spirito della sistematizzazione. Per Tsuda sensei si trattava di affinare la capacità di attenzione, di risvegliare la intuizione e di sentire attraverso la fusione di sensibilità i bisogni del bambino. Un dialogo sensibile, unico perché diverso per ognuno e in ogni momento, con una verifica delle nostre intuizioni attraverso le reazioni del bambino. La natura della relazione si sposta quindi dalla ricerca di prestazioni (allevare un bambino o passare un grado) alla qualità della relazione, del momento presente sempre fluttuante. Una qualità che non può essere valutata esternamente perché deve essere sempre rinnovata.Allo stesso modo, una Scuola senza gradi non fornisce riferimenti fissi obiettivi, come tecnica, velocità, precisione o altro. Poiché partiamo dall’individuo e ognuno è diverso, nessuno può essere paragonato ad un altro. Nel nostro stile di Aikido, ciascuno sviluppa, attraverso una forma tecnica comune, la propria specificità che non solo gli corrisponde, ma sposa anche i cicli della vita, le età e gli stati di ciascuno.È nella relazione con l’altro che ognuno può misurare il cammino percorso, sia attraverso la propria osservazione che attraverso i riscontri dei suoi partner e del suo sensei. O andando a vedere altri insegnanti in occasione di stage occasionali. Perché senza un giudice esterno non c’è né sanzione né, soprattutto, ricompensa! Non si tratta certo di immaginarsi geniale e onnipotente! In questo caso i nostri partner e il nostro sensei si incaricheranno di farci ridiscendere sulla terra, si tratta di ritrovare il gusto di fare le cose per se stesse. Ritrovare anche il tempo, un tempo che non è lineare, perché il nostro “progresso” non è una linea retta con l’arrivo alla fine. Si tratta piuttosto di un’evoluzione circolare, “il pensiero orientale non procede per mezzo di dimostrazione, non è orientato verso un senso finale e definitivo, ma procede per cerchi di sperimentazione successivi affinché la comprensione scaturisca da un ritorno al centro stesso della questione” (Gu Meisheng, La via del respiro, Luni).È ovviamente possibile combinare un sistema di gradi e l’idea di un cammino senza fine, i grandi adepti lo hanno sempre fatto, semplicemente nella nostra Scuola abbiamo deciso di porre questo paradigma fin dall’inizio.

Il momento giusto

Una volta scartato questo modello, abbiamo una situazione in cui cominciamo senza hakama e incontriamo allora la possibilità di scoprire il momento giusto per mettere questo famoso hakama. Nella filosofia del Non-Fare si tratta di riscoprire l’azione giusta, quella che non è né calcolata né determinata dalla nostra “piccola intelligenza”, il volontario calcolatore che si fissa su piccoli scopi, ma dalla “grande intelligenza” che si esprime se la si ascolta realmente.Alcune persone mettono l’hakama dopo un anno di pratica e altre dopo dieci anni, in realtà non ha alcuna importanza se non per se stesse e la loro capacità di sentire il momento giusto. Ma ci sono molte persone per le quali cogliere questo momento presenta una grande difficoltà. Molti perdono quest’occasione di ritrovare il senso del momento proprio attraverso il mettere l’hakama. Che sia per eccessiva leggerezza, per paura, per ansia, per presunzione, per incomprensione, o per mille altre ragioni. Siamo di fronte a noi stessi.È anche un’occasione per scoprire la differenza tra la scelta e la decisione! Tsuda sensei attribuiva un’importanza immensa alla decisione, come ha scritto: “Una decisione può essere presa molto rapidamente a seconda delle circostanze, ma può anche richiedere molto tempo prima di maturare.Il più delle volte si confonde la decisione con l’opzione.Ma sono due cose completamente diverse.L’opzione implica il confronto tra diverse possibilità e la scelta che se ne fa. È un atto di intelligenza. [?] Non è la stessa cosa con la decisione che determina il nostro orientamento nella vita. Questa decisione non è un atto dell’intelligenza, è un atto dell’istinto.(…)La vera decisione è quella che corrisponde alla tensione interiore che sale al massimo. Senza tensione interiore, non c’è decisione. Più la decisione esige coraggio, sacrificio dell’amor proprio e dei vantaggi materiali, più essa guadagna peso.” (Itsuo Tsuda, La via degli dei)Offrendo ai praticanti la situazione propizia a sentire il momento giusto e a prendere una vera decisione, utilizziamo lo strumento dell’hakama per camminare in questa via di autonomia: decidere da soli. Può sembrare aneddotico, ma per molti non è facile e mancheranno il momento giusto.Accompagnare questo cammino per ogni persona è anche ricco di insegnamenti per i più anziani che devono essere attenti ad agire nel Non-Fare: lasciar maturare a volte, aumentare spesso la pressione interiore, acconsentire raramente! Eppure nessuna condotta può essere determinata in anticipo, anche questo è “senza punti di riferimento fissi” ma quando l’azione è giusta è un’evidenza. Affinché questo atto sorga, bisogna svuotarsi la testa e non avere idee preconcette. Questo accompagnamento può essere fatto solo se, e solo se, la persona che intende mettere l’hakama ha “sete” di questa trasmissione. È la sua disponibilità, il suo posizionamento che lo permette o meno.

Dare, ricevere, rendere

Il percorso dei praticanti inizia già, prima di niziare a mettere l’hakama, con il fatto di piegare quello di un praticante più anziano. Ancora una volta, l’assenza di gradi disorienta un po’ i primi tempi. La nostra ottica è sempre che l’atto assuma un senso in se stesso, non per rispetto della tradizione. Tuttavia, noi non ci consideriamo con un egualitarismo forzato. Molte cose vengono prese in considerazione: l’età, gli anni di pratica, ma anche l’attitudine o l’atteggiamento interiore. A volte una persona avrà un’attitudine, un’affinità con un’arma, o un certo tipo di tecnica, o potrà semplicemente, attraverso un respiro più profondo, aiutare qualcuno che è più anziano di lei. Alla fine dipende da molti fattori.Allora perché piegare l’hakama? Per ringraziare? Si e no. Il fatto di piegare l’hakama non è semplicemente un risposta diretto di tipo “ringraziamento” per qualcosa. A volte può esserlo, certo, ma si può scoprire molto di più, come una qualità di relazione. Questa relazione si avvicina a ciò che gli antropologi hanno chiamato “economia del dono”. Messo in luce da M. Mauss e B. Malinowski all’inizio del XX secolo, si può sottolineare che questo sistema si basa sulla triplice necessità: di dare, di ricevere e di rendere. A differenza dell’economia di mercato (di cui fa parte il baratto), l’economia del dono non si aspetta reciprocità. Implica che una persona A offra una ricchezza a una persona B, senza che questa persona B debba dare una contropartita o si senta in debito nei confronti di A. Invece è un atto che si fa sempre in un contesto (famiglia, cultura, società); nel nostro caso si tratta del dojo e della pratica. L’economia del dono implica dunque dare, ricevere e rendere nel contesto ma non necessariamente alla stessa persona, né lo stesso valore, né nello stesso momento. Ciò che importa è che continui la circolazione della ricchezza, che non ci sia stagnazione o accumulazione. Nel nostro caso la ricchezza è un insegnamento o un atteggiamento, un momento di pratica ecc. La persona che l’ha ricevuta continuerà a far circolare donando a sua volta ad altri. Può anche piegare l’hakama, ma se comprendiamo il significato dell’economia del dono comprendiamo che piegare l’hakama non è un modo per rimborsare ciò che l’altro ci ha dato. Non siamo pari, perché piegare l’hakama non è restituire ma dare a nostra volta. Piegare l’hakama implica anche che l’anziano riceva! Per colui al quale si piega l’hakama è anche un dono che “lo obbliga” in cambio a continuare a rendere e così via. Per questo non deve essere sistematico, altrimenti si perde il senso dell’atto, il senso di dare, ricevere e rendere.Questo non può imporsi altrimenti si ricade nel sistema binario gerarchico, è per questo che lasciamo ognuno libero di fare il proprio cammino, di capire a più o meno lunga scadenza poiché “la vera morale sorge dall’interno” come diceva Tsuda sensei, trovandosi d’accordo con l’anarchico Kropotkin su questa saggezza interna degli esseri viventi. Ma poiché fin dall’infanzia si insegna ai bambini a rispettare le persone in funzione della gerarchia e dell’autorità che esercitano, si perde completamente il senso del rispetto semplice e naturale. Questo rispetto che emerge quando si è rispettati. Lasciamo lavorare il tempo e la pratica affinché l’obbligo, imposto dalle nostre abitudini e dalla nostra educazione, cada, e infine sorga il rispetto.

Altri possibili

Recentemente la ricercatrice Heide Göttner-Abendroth ha teorizzato nei suoi studi sulle società matriarcali che sono società di economia del dono (precisazione utile: le società matriarcali non sono l’inverso del patriarcato, sono società egualitarie, matrilineari, dove le donne e particolarmente le madri sono al centro del clan, in una posizione acratica cioè senza potere). Göttner-Abendroth spiega anche che “i principi economici delle società matriarcali sono inestricabilmente connessi a quelli spirituali [?]. L’immagine-guida dell’economia è la stessa la madre terra e la condivisione e il dono dell’abbondanza sono i suoi valori supremi.” (Heide Göttner-Abendroth, Le società matriarcali – studi sulle culture indigene del mondo, Ed. Venexia) Dato che la maternità è chiaramente il dono della vita senza aspettarsi nulla in cambio, queste società considerano la maternità valore cardine, non il fatto di avere dei figli biologici ma la capacità di dare e la condizione di spirito che questo implica. In queste società si può parlare anche di maternità sociale che uomini e donne praticano, indipendentemente dal fatto di avere figli biologici o meno. Si tratta quindi di un atteggiamento verso la vita, di un posizionamento di rispetto, di cura, evidentemente messo in relazione con il dono di vita del pianeta, la Terra. Oggi la società inizia appena a prendere coscienza della globalità di ciò è vivo e dei legami inestricabili tra umani e altre forme di vita. Ma se la scienza è progredita, la mentalità della società evolve molto lentamente e i nostri valori restano la predazione e la competizione per delle risorse considerate come inerti, in breve il capitalismo patriarcale.Che rapporto c’è tra la nostra piccola Scuola di Aikido e Katsugen undo e questi grandi problemi del mondo? Che rapporto c’è tra un hakama e una società che pratica l’economia del dono? Direi che al nostro livello contribuiamo a far vivere degli spazio-tempo in cui vigono altri valori. Senza andare all’altro capo del mondo si può fare volontariamente questo passo di lato per uscire dal confronto, e ci si può concentrare sull’esperienza concreta del ki ritrovando così la sensazione della vita in ogni cosa che guidava i nostri antenati. Sentire inizia con il saper sentire se stessi! Indipendentemente dalle proiezioni, dai giudizi e dalle idee che abbiamo su noi stessi, l’hakama, il piegarlo e il metterlo, se si è capaci di coglierla, può essere un’occasione di sperimentare da soli un altro paradigma.Volete ricevere i prossimi articoli? Iscriviti alla newsletter:

Abonnez-vous à notre newsletter

Articolo di Manon Soavi pubblicato in Self e Dragon Speciale n° 14 nel mese di gulio del 2023.